Cultura
Rosh Hashanà, I.J. Singer e Wlodek Goldkorn

Due racconti autobiografici che spiegano il secolo breve, a partire dalla sera di Rosh Hashanà del 5667

Ci sono brani letterari che restano impressi in maniera indelebile. Uno di questi, per me, è il racconto del capodanno del 5667 che ci offre I. J. Singer nelle sue memorie, pubblicate da Adelphi nel 2015, con il titolo La pecora nera. Nato il 30 novembre del 1893, nell’autunno del 1906 stava per raggiungere la maggiorità religiosa nel piccolo villaggio di Leoncin, dove il padre svolgeva la funzione di rabbino. Erano tempi duri, il 1905 aveva visto la sconfitta nella guerra russo-giapponese e una prima rivoluzione, nonché un gravissimo pogrom nella città di Odessa. La convinzione che questi eventi potessero essere le «doglie del Messia» aveva cominciato a serpeggiare tra gli ebrei di Leoncin, sostenuta con fervore dal padre dell’autore, uno hasid tanto entusiasta quanto ingenuo, che aveva indicato nel 5666 l’anno della redenzione. Ecco come l’autore descrive la sera fatale:

«Venne l’ultimo mese dell’anno 5666.
Lo shofar si fece sentire, ma non quello del Messia, bensì quello della sinagoga, che reb Barukh Volf si esercitava a suonare.
Ogni giorno la tensione cresceva. L’anno si avvicinava sempre più alla fine, ma del Messia non c’era traccia. Mio padre non aveva perso la speranza. In fondo c’era ancora tempo, il Messia poteva rivelarsi in qualunque momento. Le giornate sembravano non finire mai. Per tutta la vigilia di Rosh hashanah l’intero paese non smise di fissare il cielo, di tendere le orecchie a ogni minimo rumore. Tutti erano convinti che, come accade con gli ospiti di riguardo, anche il Messia sarebbe arrivato all’ultimo minuto. Perfino quando fu ora di andare in sinagoga per la preghiera pomeridiana, la gente si diceva che non erano ancora spuntate in cielo le prime tre stelle, e quindi l’anno non era ancora finito, la redenzione poteva arrivare. Ma poi le stelle apparvero, e il cielo non era diverso da quello delle altre notti. Attraverso il campo adiacente alla sinagoga il porcaio stava riportando a casa i suoi animali impuri. Ogni cosa era usuale e grigia come in qualunque sera dell’esilio. Mio padre lanciò un ultimo sguardo al cielo e con voce spezzata diede inizio alla preghiera. Il cantore la intonò con voce vibrante, come si usa a Rosh hashanah, e i ragazzini del coro lo sostennero con passione, ma il canto non aveva alcun gusto, e nemmeno gli auguri di buon anno che la gente si scambiò alla fine. Perfino il tradizionale pane intinto nel miele era meno dolce del solito. Gli ebrei erano delusi, turbati, e mio padre più di tutti gli altri. Si vergognava. Si vergognava davanti ai notabili del paese, davanti a me, davanti alla mamma, davanti a se stesso.
Io ero rabbioso, colmo di amarezza. Niente Terra d’Israele, niente Leviatano, niente schiavi e serve. Solo le sabbie di Leoncin e il campo sudicio accanto alla sinagoga, in cui pascolavano i maiali. I soliti goyim con i loro cani, nemici dei bambini ebrei. Il cantore si sciolse in pianto nell’intonare la preghiera in cui si diceva che Dio avrebbe infuso il suo timore in tutti i popoli e onorato quello d’Israele attraverso il Messia, ma ormai non ci credevo più, non speravo più. Durante le Diciotto Benedizioni, concepii ogni sorta di pensieri peccaminosi. Quando fu il momento di suonare lo shofar e di recitare la supplica agli angeli perché portassero il suono prodotto dal corno fino al trono glorioso di Dio, l’istinto malvagio mi convinse a compiere un atto tremendo. Nel mio libro di preghiere era stampata l’avvertenza che durante la supplica non bisognava per nessun motivo menzionare il nome dell’angelo del fuoco, l’angelo terribile, perché chi lo avesse fatto, Dio non voglia, avrebbe potuto ridurre in cenere il mondo intero. Era già da un pezzo che morivo dal desiderio di pronunciare il nome proibito. Il mondo era nelle mie mani, avevo il potere di lasciarlo sopravvivere così com’era da 5666 anni, o invece distruggerlo in un attimo, solo proferendo il nome sibillino dell’angelo del fuoco. Ma fino a quel momento mi ero trattenuto con volontà ferrea. Per quanto la curiosità di vedere il mondo ridotto in cenere fosse forte, tuttavia sapevo che anche io sarei perito insieme agli altri nell’incendio cosmico, e avevo cara la pelle.
Ma quell’anno la mia fede in ciò che era scritto nei testi sacri era stata molto scossa. Nonostante tutte le allusioni e i segni, il Messia non era arrivato, e per questo la vita non era più così buona e dolce come prima. Decisi di correre il rischio. A bassa voce, in modo che nessuno mi sentisse, colmo di paura e curiosità insieme, pronunciai il nome proibito, chiudendo gli occhi per non assistere al cataclisma.
Per un istante attesi con gli occhi serrati, davanti ai quali baluginava un rossore di fiamme. Quando li riaprii e trovai tutto come era prima, tirai un sospiro di sollievo, quasi fossi scampato a una spaventosa catastrofe. Ero sano e salvo, e così tutti gli altri presenti nella sinagoga. Ma la mia fede nei testi sacri era definitivamente compromessa».

A margine della bellezza commovente di un brano uscito dalla penna di un grande narratore (La famiglia Karnowski, I fratelli Ashkenazi), non posso fare a meno di pensare che, se i fatti del 1905 non erano le doglie del Messia nel senso inteso dalla tradizione, potevano ben essere le prime avvisaglie del travaglio che avrebbe portato alla nascita del XX secolo come «secolo breve», una denominazione dall’ampia fortuna introdotta dallo storico Eric Hobsbawm che ne fissa l’inizio nel 1914, con lo scoppio della Prima guerra mondiale, e la fine nel 1991, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Un periodo in cui, da un lato, il mondo ebraico europeo fu davvero quasi interamente distrutto (anche se per mani umane e non dall’angelo del fuoco) e, dall’altro, gli ebrei della Diaspora, molti dei quali, come il protagonista, avevano perso la fede, decisero di non aspettare più l’arrivo del Messia e di fare ritorno in Eretz Yisrael con le proprie forze.

È a questi ultimi che fa riferimento il titolo del nuovo libro autobiografico – dopo Il bambino nella neve del 2016 – di Wlodek Goldkorn, L’asino del Messia. Per i religiosi più fondamentalisti, infatti, l’impresa sionista è sommamente deprecabile in quanto laica, ma presto o tardi, suo malgrado, con la fondazione dello Stato di Israele che ha riportato la sovranità ebraica sul sito una volta occupato dal Tempio – e ora dalla moschea di Al Aqsa e dalla Cupola della Roccia – si rivelerà una testa di ponte per la messianica ricostruzione dello stesso.

Due autobiografie, dunque, molto diverse tra loro per certi aspetti, molto vicine per certi altri. Singer muore a 51 anni nel 1944, Goldkorn nasce una manciata di anni dopo, all’inizio degli anni cinquanta, entrambi sono polacchi. Singer descrive, con un passo ottocentesco, la sua infanzia fino al 1907 in una società ebraica ancora molto tradizionale, Goldkorn, figlio di genitori comunisti tornati in Polonia dopo la Shoah e costretti ancora una volta a lasciarla, per il crescente antisemitismo, nel 1968, descrive la propria adolescenza in Israele – e molto altro, in verità – nello stile frammentario e consapevolmente schizofrenico così caratteristico della nostra epoca. Dal punto di vista anagrafico, e non solo, un «nipote» di Singer, con L’asino del Messia e il libro che l’ha preceduto – in fondo due capitoli di un’unica autobiografia – Goldkorn ci racconta allo stesso tempo cosa è avvenuto agli ebrei polacchi nel secolo breve, e la sua anima di intellettuale e scrittore ebreo polacco e israeliano (che scrive in italiano), oggi. A pagina 75-76 cita un brano famosissimo di Walter Benjamin, scritto dal filosofo tedesco all’indomani del patto tra Stalin e Hitler nell’agosto del 1939, la descrizione dell’«angelo della storia» davanti alla catastrofe. Goldkorn ne offre un’interpretazione controintuitiva, come angelo dell’oblio e della speranza, ma intanto ci descrive le macerie accumulate dai fallimenti della storia e della politica – in particolare di quella israeliana – lasciando il ruolo della speranza al linguaggio, alle parole della poesia e della letteratura, agli insegnamenti dei grandi autori in yiddish e in ebraico di cui riporta frammenti di biografie, di interviste e di testi.

«Scrivo questo libro» ci dice a pagina 170 «non per raccontare il mio amore per la lingua uccisa, umiliata, derisa, di cui troppi si sono vergognati, ma per narrare il mio amore per l’ebraico, per rivendicare la mia identità di israeliano» di un israeliano caustico e dissidente, che canta in yiddish l’inno del Bund per «decostruire i miti del sionismo» (p. 173). In poco più di 200 pagine L’asino del Messia mantiene questa promessa, ne contraddice la prima parte perché il libro è anche una dichiarazione d’amore sconfinato per lo yiddish, e allo stesso tempo offre molti altri elementi che danno a pensare.

Leggere una dopo l’altra le due autobiografie – di Singer e di Goldkorn – fornisce da un lato la misura dello squarcio presente nel tratto di storia che le separa, e dall’altro rischiara la nebbia dei cliché che si sono accumulati con i tentativi maldestri di renderlo comprensibile

Anna Linda Callow
Collaboratrice

Anna Linda Callow è laureata in lingue orientali. Ha insegnato lingua e letteratura ebraica per molti anni all’Università degli Studi di Milano, ha tradotto dall’ebraico e dallo yiddish per varie case editrici. Ha recentemente pubblicato il saggio La lingua che visse due volte (Garzanti 2019).


1 Commento:

  1. Bellissimo L’asino del Messia, sincero, equilibrato, a tratti struggente; tenuto insieme da una storia personale piena dei miei dubbi, delle mie incertezze, anche dei miei sentimentalismi ma collocata in una visione che condivido pienamente.


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