L’acqua, elemento vitale da cui affrancarsi (per nascere) e a cui tornare (per rinascere). Analisi di un rito che racconta della ciclicità della creazione
Pochi ebrei osservano il rito del tashlich, il tardo pomeriggio del primo giorno di Rosh ha-shanà, del capodanno ebraico, o del secondo giorno se il primo cade di shabbat; nondimeno tutti sanno di cosa si tratta o hanno una vaga idea del suo valore simbolico. In breve, ci si reca accanto a un corso d’acqua, ma va bene anche la battigia del mare o la sponda di un lago o il bordo di un pozzo, purché l’acqua scorra, per recitare alcune preghiere e leggere gli ultimi versetti del profeta Michea (Michà, in ebraico), che contengono l’espressione ve-tashlich bimtzulot iam kol thotam: “E Tu getterai negli abissi del mare [ossia in una distesa d’acque] tutte le loro colpe” (7,20). Dentro una professione di fede nell’amore divino, nella Sua capacità di perdonare le colpe e nella Sua volontà di rinnovare l’alleanza con Israele, questo versetto dice in modo chiaro che i peccati del popolo verranno annullati come se venissero gettati in fondo al male. Poiché a Rosh ha-shanà si rinnova un altro ciclo stagionale e noi riconosciamo la signoria divina sul mondo confessando la nostra fragilità (con una presa di coscienza che dura dieci giorni, fino al suono dello shofar che chiude il giorno dell’espiazione e del perdono, Yom Kippur), il recarsi presso dell’acqua per svuotarvi le tasche significa, simbolicamente, alleggerirsi delle proprie colpe e vederle affondare negli abissi di cui parla il profeta. Il rito dunque significa il distacco dalle trasgressioni che appesanatiscono il nuovo inizio, e al contempo il desiderio di vivere ‘i dieci giorni terribili’ che stanno per iniziare nel segno concreto della teshuvà. Non si tratta di una mitzwà de-oraità, ossia derivata dalla Torà scritta; ma a ben vedere neppure di una mitzwà de-rabbanan, prescritta dai maestri nel Talmud o dai gheonim, che non ne parlano. Si tratta piuttosto di un minhag, di un costume e di una prassi consolidati dalla tradizione. E’ possibile rintracciarne la storia e l’evoluzione?
Chi nutrisse curiosità scientifiche sarà soddisfatto dall’unico studio esistente, quello del talmudista e storico Jacob Zallel Lauterbach (conosciuto per l’edizione inglese della Mekiltà de-rabbi Ishmael), contenuto nei suoi Rabbinic Essays raccolti postumi nel 1951. Secondo questo studioso, la prima fonte che fa mezione del rito del tashlich è il rabbino tedesco Jacob Levi Moellin o Molin, più noto come il Maharil (1365-1427), autorevole poseq della tradizione ashkenazita, il quale giustifica la prassi di questo rito connettendolo alla storia dell’aqedat Itzchaq (cfr. Bereshit/Gn 22) che è centrale nella liturgia e nella spiritualità di Rosh ha-shanà: secondo il midrash Tanchumà, il Satana cercò di fermare il cammino di Abramo e dell’amato figlio verso il luogo indicato da Dio al fine di impedire la ‘legatura di Isacco’, e all’uopo trasformò se stesso in un profondo e pericoloso fiume. Ma il patriarca e suo figlio, pregando Dio di salvarli, non si fecero intimorire e lo guadarono con successo.
Il guado dell’acqua, del mare o di un fiume, è da sempre nel giudaismo un segno di nuova vita e di rinascita: allo Yabboq Giacobbe lotta con Ish e ne esce con un nome nuovo – Israele – e un destino rinnovato; nell’esodo dall’Egitto i figli e le figlie discendenti di Giacobbe/Israele attraverseranno, con Mosè, le acque del mare dei giunchi per diventare di nuovo un popolo libero; e Yoshua/Giosuè farà oltrepassare il Giordano per entrare nella terra della promessa. Dai tempi più remoti i riti di purificazione sono fatti in acque correnti (maim chaim) dando origine all’halakhà dei miqwaot, i bagni rituali ebraici e, via giudeo-cristianesimo del I e II secolo, al rito del battesimo cristiano. Una reminescenza del ‘fiume che impedisce’ la missione di Abramo echeggia ancora nella leggenda (a sua volta di origine ashkenazita) del Sambation, il fiume che ai confini dell’Assiria impedirebbe alle dieci tribù disperse d’Israele di tornare, perché le sue impetuose acque – per alcuni acque di fuoco, con sublime ossimoro – li travolgerebbero uccidendoli; il fiume, tuttavia, si fermerebbe religiosamente di shabbat, per il riposo comandato, solo e proprio quando i figli e le figlie di Israele non possono guadarlo per non profanare il giorno santo. Un mito che lascia intravvedere tutta la complessità e l’ambivalenza che la tradizione ebraica nutre verso il regno delle acque.
Per completare il quadro, le acque davanti alle quali si compie la preghiera del tashlich dovrebbe avere pesci, che a loro volta sono un memento della fragilità della nostra esistenza. Tema non difficile da connettere sia con i pesci evocati in positivo nel seder di Rosh ha-shanà sia con l’esperienza acquatica del profeta Jonà/Giona, che fu gettato (capro espiatorio?!) in mare e venne inghiottito da un dag gadol o grande pesce (non una balena, che pesce non è essendo un mammifero): nelle profondità delle acque – il ventre del pesce come ‘abisso dell’abisso’ – Jonà matura la sua identità profetica e trova la forza di adempiere alla sua missione nel mondo. A questo punto è chiaro che il simbolismo del tashlich, forse làscito di qualche usanza qabbalistica, ha valenza non solo individuale ma anche collettiva, come il perdono di Kippur, giorno in cui si legge la meghillà di Jonà.
Le acque sono elemento ambiguo e ambivalente: sono la materia increata e oscura dividendo la quale Dio pone in essere il mondo mettendo un freno al caos primordiale, di cui le acque sono cifra, e introducendo un limite, un confine, un perimetro per ordinare le cose. Anzi, è ordinando che Dio fa essere le cose. È la creazione, l’atto primordiale e immemorabile che solo nel racconto si fa memoria, una memoria liturgica, rituale, religiosa. Rosh ha-shanà, cui fa eco ogni shabbat, è lo zikharon o memoriale ebraico di quest’unicum ontologico che è il ma‘asè bereshit, l’opera dell’inizio. E il giudaismo è l’unica delle tre religioni abramiche che lo celebri con enfasi (sebbene una reminescenza ebraica rimanga anche nel capodanno islamico).
Che lo si chiami big bang non cambia la sostanza e il senso paradossale, ma esistenzialmente necessario, di questo ricordo. Ma le acque sono anche l’elemento della vita allo stato nascente e ben si prestano a simboleggiare la rinascita, il reinizio, ogni seconda o nuova creazione (l’esodo biblico fu reso possibile dal dividersi delle acque del mare, come la separazione delle acque primordiali fecero spazio al mondo). Quel mare che per Israele significò rinascita, agli egiziani diede la morte, eco del diluvio universale dal quale solo la famiglia di un nuovo Adamo si salvò: duplicità del segno (e prezzo) della redenzione, che è sempre ri-creazione e ripetizione dell’ancestrale lotta divina contro il caos.
Nel Novecento a ricordarci tutto ciò è stata la psicoanalisi, e in particolare quel geniale interprete di Freud che fu il medico e psichiatra ebreo ungherese Sandor Ferenczi, il quale riassunse la propria visione delle origini della vita umana in un testo del 1924 che intitolò Thalassa, che in greco significa mare: culla e cifra, in grande, di ciò che il liquido amniotico è per ciascuna vita prenatale, quando ancora i meccanismi mnemonici sono inattivi, acque che devono rompersi affinché la vita conosca l’asciutto, l’autonomia, l’indipendenza, la libertà. All’origine, dice Ferenczi, fu il trauma delle acque, nell’universo come nella vita di ognuno di noi. Nascere è accettare il passaggio e rinascere o ricominciare il ciclo vitale, ad ogni Rosh ha-shanà, è accettare la prova, è guadare daccapo il fiume per compiere la nostra opera. Meglio se alleggeriti di fardelli inutili. Ben venga, allora, una volta all’anno il rito del tashlich, almeno per farci pensare, anche se poi non andiamo alla Darsena o al Tevere o sul Po a svuotare simbolicamente le nostre tasche.
Interessante. Toda, shaloom!