Cibo Sei gradi di separazione
Se la “Ruota del Faraone” conduce al fish and chips

Viaggio culinario dalle specialità ferraresi e lagunari fino al pesce fritto (che prima di Londra ha conquistato la Spagna)

Un mare di pasta, con le tagliatelle a rappresentarne le onde, in cui nuotano uvette, pinoli e fettine di salame o polpettine. Raccontato così, potrebbe trattarsi, semplicemente, di uno dei tanti primi piatti della tradizione italiana. Certo, un po’ curioso, visto l’elemento dolce della frutta secca, ma neppure così inedito, specie guardando al grande uso che si fa di questi ingredienti soprattutto nella cucina siciliana.
Invece siamo al cospetto di un piatto tipico ebraico, caratteristico delle comunità italiane. In particolare, con il nome rispettivamente di frisinsal de tagiadele e di hamin di Ferrara, si tratta di una pietanza tipica sia della comunità lagunare sia della città emiliana, entrambe con una solida e indiscutibile eredità ebraica che ancora ne segna gastronomia e cultura locale. Conosciuta anche come Ruota del Faraone, questa pasta condita eventualmente con carne e sugo di oca oltre alla giusta dose di spezie, ha la particolarità di raccontare una storia. Più esplicita di qualunque altra pietanza che possa venire in mente della tradizione ebraica.
Si tratta di una sorta di messa in scena gastronomica, in cui ogni ingrediente non ha solo un significato culturale, storico, religioso e sociale, legato come altrove alle abitudini del popolo e di quella particolare comunità, ma svolge proprio il ruolo del personaggio di un racconto. Facendo scorrere i titoli con personaggi e interpreti, troveremo così le già citate tagliatelle, all’uovo e possibilmente di spessore sottilissimo, nella parte delle onde del Mar Rosso, le uvette in quello delle teste degli egiziani all’inseguimento degli ebrei in fuga e i pinoli nella parte variabile (dipende da produzione e regia) della testa dei loro cavalli o delle loro lance. Poi, come comparsa, troviamo le rondelle di salame di oca (altrove sostituite da polpettine, sempre della stessa carne o di manzo), nel ruolo marginale ma non troppo delle ruote dei carri degli egiziani. Se poi guardiamo alla forma del piatto, che nella versione ferrarese ricorda quella di una frittata di spaghetti, essa stessa ricorda un disco, e sarebbe per questo chiamata, appunto, Ruota del Faraone.
Con ascendenze si suppone sia ashkenazite sia sefardite, questo piatto tanto evocativo quanto macabro si riferisce come si può intuire alla disfatta degli egiziani rimasti inghiottiti dal Mar Rosso che si richiude dopo aver lasciato passare indenni gli ebrei, finalmente liberi dalla schiavitù. Le occasioni e la voglia di ricordare l’evento non mancano di certo, quindi questo piatto può essere preparato in diversi momenti dell’anno, in primis per la cena del venerdì. Di certo però il momento più indicato è Shabbat Bershallach, ossia quel sabato, che quest’anno cade il 4 febbraio, in cui in sinagoga si legge nel Libro dell’Esodo quella porzione della Torah relativa appunta al passaggio del Mar Rosso.

La comunità ebraica ferrarese, particolarmente fiorente sotto il dominio dei duchi d’Este, è una di quelle che hanno lasciato anche l’eredità gastronomica più ricca. Oltre al cosiddetto hamin (termine con il quale altrove viene indicato lo stufato, o cholent), tra i piatti giunti fino ai nostri giorni va ricordato ad esempio l’albondiga. Citato da Cristoforo da Messisbugo nell’opera Banchetti, composizioni di vivande e apparecchio generale stampato postumo nel 1549 con il titolo Libro novo nel qual s’insegna a far d’ogni sorte di vivanda e scritto per il cardinale Ippolito II d’Este, questo piatto potrebbe essere descritto come un polpettone in padella. Una ruota, questa volta di carne, che nel testo cinquecentesco viene indicato come “albondiga a fare vivanda alla hebraica”. Chiamata anche torta all’ebraica, si distingue per l’impiego di uova sode e carne di vitello, rispettivamente ripieno e base di un impasto insaporito generosamente con erbe e spezie, tra cui figurano il dragoncello, i semi di finocchio, i chiodi di garofano, la cannella e la noce moscata. Modellato il polpettone, questo viene cotto in una casseruola coperta in cui si è prima scaldata dell’acqua aromatizzata con le stesse spezie utilizzate unite a dello zafferano.

Nome e ingredienti del polpettone alla ferrarese devono molto alla tradizione sefardita. È infatti la cucina ebraica spagnola ad avere tra i suoi piatti cardine le albondigas. E ci sono buone probabilità che fossero stati proprio gli esuli iberici ad aver portato a Ferrara l’uso di impastare la carne trita con spezie e uova. Certo, la ricetta originale aveva qualche differenza. Prima di tutto le dimensioni, indicate dallo stesso nome spagnolo e ladino. Derivato dal termine arabo al-bunduqa, che significa nocciola, questo si riferisce alle dimensione e alla forma di queste polpettine, già note nel mondo persiano e arabo medievale. Divenute uno dei cibi più amati dalle comunità sefardite, queste polpettine furono colte come un simbolo della cucina ebraica, al punto che durante l’Inquisizione la loro versione di carne di suino veniva somministrata agli ebrei come prova della loro effettiva conversione.
Tra le particolarità introdotte dai cuochi sefarditi, l’abbondante impiego di verdure e ortaggi, non solo come accompagnamento al piatto ma anche nello stesso impasto. Questo prevedeva (e prevede tuttora) l’impiego di carne pestata finemente fino a ottenere un composto liscio e quindi la cottura delle palline modellate prima nell’olio caldo e poi, a fuoco lento, in uno stufato o in compagnia di una salsa.

Le albondigas spagnole hanno molto a che spartire con le keftes mediorientali, per quanto se ne distinguano per la forma. Se le prime sono come si è visto indiscutibilmente sferiche, le polpette turche sono invece tipicamente ovali. Nate dall’incontro dei sefarditi con la cultura ottomana, sono il risultato dell’incrocio tra le polpettine iberiche e il kufta mediorientale, a sua volta una preparazione a base di carne battuta o pestata e insaporita con spezie. Caratteristica della variante ebraica è di nuovo l’abbondante impiego di verdure nel composto di carne (di manzo o, saltuariamente, di pollo) quando non il loro uso esclusivo, come nel caso delle keftes de espinaca (di spinaci) o de prasa (di porri). Ottimo sistema per ottimizzare gli avanzi, queste polpettine dalle estremità affusolate sono anche un buon modo per avere sotto mano una preparazione pronta da gustare in un secondo tempo, assai utile in occasione dello Shabbat. Per insaporirle e conservarle, dopo averle fritte le keftes vengono cotte a fuoco lento in una salsa a base di limone o, dopo il suo arrivo dalle Americhe, di pomodoro.

L’impiego del succo di limone come base di salse e condimenti è un altro elemento ricorrente nella cucina sefardita. Tra le preparazioni più classiche, onnipresente su verdure e pesci così come in zuppe e stufati, è l’agristada. Nota in ladino come salsa blanco e in italiano come bagna brusca, consiste in un composto di uova fatte addensare con l’aggiunta di un elemento acido ed eventualmente l’unione di brodo o del fondo di cottura della pietanza stessa con cui poi viene servito. Usata tra gli ebrei iberici prima dell’espulsione al posto del burro o della panna, veniva originariamente preparata con l’agresto, ossia con un succo acido derivato dall’uva, o con il succo di melagrana o di arancia. Con la diffusione in Occidente del limone e con le coltivazioni di questo spesso a cura delle comunità ebraiche, questo agrume divenne poi prevalente nella composizione della salsa.
Accanto agli ingredienti indicati, fin dal Medio Evo si era diffuso anche l’uso di aggiungere della farina e del vino bianco, nonché saltuariamente della curcuma per dare maggiore intensità al colore giallo dei tuorli. Descritta come una maionese cotta, l’agristada ha assunto forme diverse nei diversi paesi in cui gli ebrei si sono trovati a vivere, trasformandosi in Grecia in una zuppa chiamata avgolemono. Accompagnamento per le stesse albondigas, che dopo essere state cotte venivano mantecate con il loro fondo di cottura mescolato con l’emulsione di uova e succo, al suo arrivo in Italia l’agristada è stata usata anche come condimento per la pasta o condimento per le verdure con l’aggiunta, come avvenuto a Modena, di aglio e acciughe.

A proposito di aglio, tra gli ingredienti simbolo della cucina sefardita c’è un’altra salsa che vale la pena ricordare, l’ajada. Nella sua versione definitiva, elaborata dagli ebrei in Grecia nel XVIII secolo, dopo l’invenzione della maionese, prevede l’aggiunta di aglio pestato alla nota salsa all’uovo, non troppo diversamente da quanto avviene in Provenza con l’aioli. Le sue origini risalirebbero però alla Grecia antica, a una crema chiamata skordali (da skorda, aglio), ottenuta pestando gli spicchi dell’odorosissimo bulbo con aceto e sale. Negli altri paesi del Mediterraneo si sarebbe evoluta con l’aggiunta di mollica di pane e saltuariamente di noci o mandorle, prendendo il nome di ajada tra i sefarditi. Sia nelle versioni antiche, sia in quelle più recenti, questa crema morbida e profumata trova il suo impiego d’elezione in accompagnamento alle verdure e soprattutto al pesce fritto.

Considerato il progenitore del fish and chips, o perlomeno del pesce pastellato e fritto all’inglese, il peshkado frito è un piatto originario della Spagna costituito da un filetto di pesce ricoperto da uova e farina e quindi cotto nell’olio caldo. Già citato in un libro di cucina andaluso del XIII secolo, il pesce fritto alla spagnola dopo il 1492 sarebbe arrivato in Italia e subito accolto dagli ebrei romani. Giunto nel ben più lontano Giappone grazie ai portoghesi, avrebbe qui assunto le sembianze del tempura, mentre in Inghilterra sarebbe stato portato dai conversos, che nel XVI secolo imposero il loro metodo di cottura nell’olio anziché nel burro o nello strutto. Tra le sue versioni più tipicamente ebraiche troviamo quella fredda e marinata nell’aceto, perfetta per il pranzo del sabato. È grazie poi all’incontro con le french fries che sarebbe nato il classico street food inglese, portato al successo, pare, dall’intraprendenza dei pescivendoli ebrei londinesi che lo diffusero tra tutta la popolazione. Passando alla sua preparazione, se la materia prima era il merluzzo, per la frittura si poteva ricorrere a un doppio passaggio, prima nell’uovo e poi nella farina, o all’immersione in una pastella contenente questi stessi ingredienti. Tipicamente sefardita era poi la cottura nell’olio di oliva, poi sostituito dall’olio di semi fuori dalla Penisola Iberica.

 

Hamin di Ferrara (Ruota del Faraone)

Ingredienti per 4:
300 g di tagliatelle finissime
50 g di pinoli
50 g di uvetta
200 g di salame o di prosciutto di oca
olio extravergine di oliva
sale
pepe

Ammollare l’uvetta in acqua calda per 15 minuti, poi scolarla, strizzarla leggermente e asciugarla con carta da cucina, poi tenerla da parte.
Cuocere la pasta in una casseruola con abbondante acqua salata portata a ebollizione con 1 cucchiaio di olio. Scolarla al dente e trasferirla in un largo piatto. Unirvi quindi 3-4 cucchiai di olio e mescolare bene, sollevando le tagliatelle con due forchette in modo da farle raffreddare, poi lasciarle riposare.
Versare un filo di olio in una larga padella antiaderente e aggiungervi l’uvetta, i pinoli e il salame o il prosciutto d’oca tagliati a tocchetti o, meglio, a rondelle. Spolverizzare con una macinata di pepe e aggiungere le tagliatelle.
Fare dorare la pasta schiacciandola come se fosse una frittata, poi capovolgerla in modo da farla rosolare anche sull’altro lato. Servirla calda, tagliata a spicchi.

Peshkado frito

Ingredienti per 6:
1 kg di filetti di merluzzo o di altro pesce a pasta soda
200 g di farina
2 uova grandi
olio di oliva o di semi per friggere
sale
pepe in grani

Tagliare i filetti a tocchi non troppo minuti, poi disporli in un largo piatto poco profondo, spolverizzarlo con abbondante sale e aggiungere l’acqua sufficiente a coprire a filo il pesce. Coprire e lasciare riposare i filetti in frigo per 1 ora, poi scolarli, sciacquarli e asciugarli.
Sbattere leggermente le uova in un’ampia ciotola. In un recipiente a parte mescolare la farina setacciata con 1 cucchiaino di sale e una macinata di pepe. In alternativa, mescolare la farina con le uova sbattute, una presa di sale e 80 ml di acqua fino a ottenere una pastella. Scaldare nel frattempo abbondante olio in una larga padella a sponde alte.
Passare i filetti di pesce prima nelle uova e poi nel composto di farina oppure intingerli nella pastella fino a ricoprirli uniformemente. Via via che sono pronti tuffare i pezzetti di pesce nell’olio caldo, pochi alla volta e lasciando un poco di spazio tra l’uno e l’altro. Voltarli con una spatola forata quando sono dorati e portarli a cottura.
Scolare il pesce fritto su una gratella e servirlo quindi ancora caldo o a temperatura ambiente.

 

 

 

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.