Hebraica
Se speranza, continuità e fede di un popolo sono riposte nella minoranza

Il concetto di “resto”, la parte restante di Israele che si fa portatore e conservatore dei valori dell’ebraismo. Dai libri dei Profeti a oggi

I libri dei profeti sono raccolti dalla tradizione ebraica nella seconda sezione del Tanakh. Più in dettaglio, gli scritti attribuiti ai profeti propriamente detti, in ebraico nevi’im, vengono riuniti nel secondo volume di questa seconda parte sotto il titolo convenzionale di Profeti posteriori. Nei cosiddetti Profeti anteriori rientrano invece testi che, sebbene comprendano anche vicende di profeti come Samuele, Elia e altri, non sono incentrati in primo luogo sulla predicazione di personaggi divinamente ispirati ma percorrono la storia della conquista della terra sotto la guida di Giosuè, le epopee dei giudici, origine, splendore e decadenza della monarchia, i due regni divisi fino alla caduta di Gerusalemme e all’esilio. Isaia, Geremia, Ezechiele e i dodici profeti talvolta definiti “minori” – non in relazione a una minore importanza ma alla brevità dei loro libri rispetto ai primi tre -, pur risalendo ad autori diversi vissuti in periodi diversi, sviluppano temi ricorrenti e almeno in parte comuni. Questo già di per sé è un dato interessante e niente affatto ovvio, visto che parliamo di testi di origine settentrionale (Israele) e meridionale (Giuda) precedenti di alcuni secoli la caduta di Samària e Gerusalemme, contemporanei alla crisi delle due monarchie ebraiche, del tempo dell’esilio babilonese e anche di età ellenistica, quindi di molto successivi da quell’evento traumatico. Uno dei tratti comuni di numerosi libri e passi profetici è il tentativo dell’uomo ispirato da Dio di convincere il popolo di Israele a tornare sul retto cammino, per esempio rinunciando ai culti verso divinità considerate straniere o comunque diverse da quella indicata con il tetragramma YHWH; alla renitenza del popolo a seguire le parole del profeta segue il castigo divino, fino alle estreme conseguenze della disfatta militare, della deportazione e della dispersione. Il modello più volte replicato prevede dunque il tentativo di conversione/convinzione da parte del profeta, il suo fallimento e la conseguente punizione per la quale potenze come l’Egitto, l’Assiria e altre vengono trasformate in strumenti dell’ira della divinità.

In questo contesto di sordità del popolo agli appelli dell’inviato di Dio e distruzione, nei libri dei profeti emerge un tema che avrà grande fortuna nella civiltà ebraica antica, ma anche in quella rabbinica tardoantica, medievale, moderna e contemporanea: la speranza che anche nei momenti più bui rimanga in seno al popolo di Israele annichilito e disperso un “resto”, cioè un gruppo di custodi della tradizione sparuto ma disposto a ogni sacrificio pur di mantenere accesa la fiammella e pronto a trasformarla nuovamente in autentica fiamma appena le condizioni storiche lo consentiranno. Questa idea di farsi custodi di ciò che è più prezioso, testimoniando la propria adesione a valori ereditati da una lunga tradizione, o se si preferisce la propria fede verso Dio, la sua Torà e la memoria storica del popolo ebraico, non si è esaurita in tempi recenti ed è anzi viva ancora oggi. Come ogni cosa le idee sono soggetti storici e mutano perciò nel tempo, ma indubbiamente anche nel XXI secolo esiste presso alcuni gruppi ebraici l’idea di conservare qualcosa di importante che la maggioranza degli ebrei tralascia per garantirne la continuità in futuro. È un’idea che in alcuni casi si trasforma in ideologia e viene impiegata nel dibattito intraebraico e persino intracomunitario, in Israele e forse ancora di più in Europa – Italia inclusa -, nel tentativo di legittimare se stessi e delegittimare gli avversari. Per vedere le origini storiche di questa idea dobbiamo a questo punto rivolgerci ad alcuni passi profetici.

“Ascoltate, gente d’Israele […] Odiate il male, amate il bene, applicate la giustizia nei tribunali, forse il Signore Dio delle schiere avrà pietà del resto (she’erit) di Giuseppe”, dice il profeta Amos (5,15). Rifuggire le azioni malvagie, fare con convinzione il bene, applicare il diritto sono qui le tre condizioni (necessarie ma non sufficienti, a quanto sembra) affinché Dio sia misericordioso verso una frazione del popolo. Il testo prosegue elencando una serie di lutti. Il profeta ritiene che le disgrazie siano per la maggior parte del popolo ormai inevitabili: il suo appello sembra finalizzato a destare almeno una minoranza, un “resto”.

Se Amos opera nel contesto della caduta del regno di Israele, a nord, Isaia scrive invece durante l’assedio di Gerusalemme da parte assira: “Il residuo della casa di Giuda che sarà scampato metterà radice in basso e produrrà frutti in alto. Poiché da Gerusalemme uscirà la salvezza e la liberazione del monte Sion; l’opera del Signore delle schiere produrrà questo” (37,31-32). Anche nel momento più drammatico, dunque, c’è posto per una speranza. La minoranza dei pochi scampati, se sarà disposta a seguire le leggi divine, metterà radici, produrrà frutti e sarà testimone e almeno in certa misura fautrice di salvezza e liberazione.
Altrove prevale il pessimismo, come in Geremia di fronte all’imminente distruzione di Gerusalemme per opera dei babilonesi: “Così, dice il Signore, farò di Sedecia re di Giuda, dei suoi prìncipi, del resto [cioè: i superstiti] di Gerusalemme rimasto in questa terra e di quelli che abitano nella terra d’Egitto quello che si fa ai fichi cattivi, che sono immangiabili tanto sono cattivi” (24,8). E i fichi guasti vengono gettati nell’immondizia. In questa visione cupa non c’è spazio per una minoranza in grado di raccogliere e conservare l’eredità in mezzo alla devastazione. Il destino tragico accomuna tutti. “Manderò contro di loro la spada, la fame, la pestilenza finché non siano scomparsi dalla terra che avevo dato a loro e ai loro padri” (24,10).

La speranza torna a fiorire con Ezechiele una generazione più tardi, negli anni dell’esilio babilonese. “Così dice il Signore Iddio: Ecco che io apro i vostri sepolcri, vi faccio risalire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi ricondurrò alla terra di Israele” (37,12). La condizione dei morti che escono dai sepolcri a cui allude il profeta è quella degli esiliati in terra straniera prossimi al ritorno, a patto che il “resto” di Giuda si unisca a quello di Israele a comporre in unità i sopravvissuti dei due vecchi regni da tempo scomparsi.

Con Zaccaria, che si muove tra i rimpatriati da Babilonia, l’atmosfera è di fervente ottimismo. “Come il resto del popolo rimarrà incredulo in quei giorni [quando si avvereranno le profezie], così anch’io rimarrò sorpreso, dice il Signore delle schiere” (8,6). E ancora, pochi versetti più avanti, in un quadro idilliaco di pace e prosperità: “Il seme sarà fecondo, la vite produrrà il suo frutto, la terra darà il suo prodotto, i cieli verseranno la loro rugiada, e concederò in possesso del resto di questo popolo tutti questi doni” (8,12).

La speranza in un “resto” compare anche in alcuni testi non legati strettamente ai rovesci militari subiti dai regni ebraici o agli esuli di Babilonia. Nel suo breve libro Michà (Michea) dapprima ammonisce gli oppressori del popolo (governanti, giudici e sacerdoti corrotti) e condanna i falsi profeti, poi apre il discorso alla fiducia nel futuro: “Ai claudicanti lascerò dei superstiti [la parola ebraica è ancora she’erit, “resto”], i dispersi li farò diventare una nazione potente, il Signore regnerà su di loro sul monte Sion da ora e per sempre” (4,7). E poco oltre: “Il resto di Giacobbe in mezzo a molti popoli sarà come la rugiada mandata dal Signore e come la pioggia sull’erba, che non aspettano l’uomo e non attendono il figlio di Adamo. E il resto di Giacobbe fra le genti in mezzo a molti popoli sarà come un leone tra le fiere della foresta, come forte leone fra le greggi di pecore che, quando passa, calpesta e divora, nessuno si può salvare” (5,6-7). Un’immagine intrisa di realismo poetico per indicare un cammino di speranza.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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