Hebraica Nizozot/Scintille
Shminì ‘atzeret: festa dell’intimità tra Dio e Israele

Considerazioni sul giorno ottavo, che segna la fine di Sukkot

Decisamente è una festa poco compresa, quella di Shminì ‘atzeret, che di solito va in secondo piano, sebbene sia ordinata dalla Torà, in Wayqrà/Lv 23, al v.36 e al v. 39 nella parashà Emor e in Bemidbar/Nm 29,35-38 nella parashà Pinchas. L’interpretazione unanime è che sia la festa del giorno ‘ottavo’, shminì, della festa di Sukkot, la quale in sé dura sette giorni. Ma sul significato di ‘atzeret vi sono diverse spiegazioni: può indicare ‘assemblea’, ma se letta alla luce della radice ayin-tzadè-resh indicherebbe racchiudere o trattenere o ritardare. Sin dall’epoca talmudica la tradizione rabbinica applica il termine a ogni ‘chiusura di festività’, seppure il riferimento specifico sia alla festa delle capanne. E proprio nel Talmud babilonese, trattato Sukkà 47b-47a, si precisa che “l’ottavo giorno della festa di pellegrinaggio è festa in se stessa”, cioè separata e indipendente, in cui ci si astiene dal lavoro. Di certo essa comportava dei riti particolari nel Tempio di Gerusalemme, ma oggi la sua importanza è rimarcata dalla recita della benedizione detta Shehecheyanu e dal fatto che non viene assorbita né nella precedente festa di Sukkot né, in diaspora, dalla seguente festa di Simchat Torà (in Israele, invece, Shiminì ‘atzeret e Simchat Torà vengono a coincidere chiudendo congiuntamente i chaghim, le grandi feste d’inizio autunno).

Che Shminì ‘atzeret, intesa come chiusura di Sukkot, abbia sollevato interrogativi anche ai maestri lo provano molte fonti midrashiche, che le dànno una particolare spiegazione aggadica, come ad esempio si legge nella tarda raccolta di derashot detta Pesiqtà Rabbatì. Sulle parole ‘nell’ottavo giorno’ (Bemidbar/Nm 29,35) leggiamo: “Il Santo Benedetto disse a Israele: ‘Figliuoli miei, so che durante i sette giorni della festa di Sukkot siete state occupati a offrire in sacrificio settanta tori in favore delle nazioni della terra. Ora vorrei che questo giorno sia riservato soltanto a voi e a Me. Non vi appesantisco con la richiesta di sacrifici numerosi, mi basta un solo toro e un montone’. Quando udì questa richiesta dal Santo Benedetto, Israele intonò l’inno di gioia: ‘Ecco il giorno istituito dal Signore: ci rallegreremo e in esso gioiremo’ (Tehillim/Salmi 118,24). Questa spiegazione è stata ripresa da Rashi nel suo commento alla Torà. Chiara è l’intenzione di separare le due feste: da un lato Sukkot, che all’epoca del Tempio prevedeva in sette giorni i sacrifici di ben settanta tori, settanta come il tradizionale numero dei popoli della terra, simbolo di pienezza e in questo contesto di universalità; dall’altro lato Shminì ‘atzeret, che prevedeva un solo toro, appunto il sacrificio per quel popolo unico, separato e diverso dagli altri, che è Israele.

Ancora una volta tutto ciò allude alla dialettica tipicamente ebraica tra dimensione universale e dimensione particolare, dialettica applicata a Dio stesso celebrato come melekh ha-‘olam, re dell’universo, ma al contempo come elohe-nu, Iddio nostro, dei nostri padri e delle nostre madri. Infatti, a Sukkot la capanna è aperta ai più diversi ospiti, anche ai non ebrei, per sette giorni; ma in chiusura, ecco che Israele intuisce che occorre recuperare e restaurare una dimensione più familiare, particolare e decisamente ‘intima’ tra sé e Colui che lo ha chiamato e scelto tra i popoli per renderGli testimonianza. Ecco la chiave di Shminì ‘atzeret, il cui sottotono dunque è quasi intenzionale, segno della riservatezza dell’amore vero; è il bisbiglio degli amanti; è il sussurrato di un’intimità che gli estranei non potrebbero comprendere. Da qui l’importanza di quello Shehecheyanu ma anche la ripresa della gioia: se già Sukkot è detta zman simchatenu ossia ‘tempo della nostra gioia’, che dire di quell’ottavo giorno in cui gli ospiti se ne vanno e si resta, soli, in intimità con l’Ospite più importante?

Ora qualcuno potrebbe leggere quei numeri e la loro simbologia teologico-politica in termini di “settanta versus uno”, forzando in modo oppositivo la dialettica universale contro particolare. Tale lettura susciterebbe sospetti, come in passato è stata percepita con sospetto la nozione di ‘elezione di Israele’, quasi fosse un complesso di superiorità. Si tratta di una forzatura, che va nella direzione sbagliata proprio stando allo spirito di Sukkot: Israele offre nel Tempio settanta tori “in favore delle nazioni della terra”, non contro di esse. Come insegnava rav Elia Benamozegh, quella di Israele è sì un’elezione e una chiamata speciale, ma a svolgere un servizio di tipo sacerdotale per tutti i popoli, servizio che si concretizza, visibilmente, in quelle settanta offerte sacrificali. L’unicità e la diversità di Israele non sono un’idea razzista e un gesto di sprezzo verso altri popoli e altre culture, ma un atto di obbedienza e fedeltà a una chiamata a servire con la testimonianza. Ovvio, vi sono epoche in cui tale servizio richiede più universalità, per così dire, ma vi sono anche epoche, come credo la nostra, in cui è importante sottolineare la fedeltà al particolare, in cui occorre insistere sulle radici e l’identità. È stata l’idea centrale della derashà del rabbino capo di Roma, rav Riccardo Shmuel Di Segni, la sera del recente Yom Kippur, nell’ora della solenne preghiera di Ne‘ilà che chiude a sua volta il giorno dell’espiazione e del perdono.

Invece di leggere “settanta versus uno”, dovremmo leggere “settanta e uno”. In tal modo non saremmo lontani dal grande principio dell’ermeneutica rabbinica che vede nella Torà settanta volti, anzi settanta più uno, come insegnava l’ebraista Paolo De Benedetti: quel “più uno” cioè il settantunesimo senso, spezza persino la totalità dei sensi della rivelazione divina, ricordandoci che il Signore Benedetto (secondo la lezione dei mistici del giudaismo) è ein sof, in-finito, sempre al di là di quel che noi ne possiamo pensare e dire. Non nel terremoto, non nel vento impetuoso, neppure nel fuoco, ma in un lieve sussurro che pare silenzio…
Ascoltiamo ancora rav Irving Greenberg, che ci ha già dato lumi per Rosh ha-shanà e Kippur: “In questo giorno, è come se il Signore Benedetto diventasse un po’ nostalgico… Gli ebrei smonteranno presto la sukkà e torneranno a godersi le loro solide case, ben costruite e a prova di pioggia. Anche il lulav e l’etrog vengono ora messi da parte. Così, questo giorno detto Shminì ‘atzeret è una ripresa, un prolungamento di Sukkot ma senza i simboli e i rituali di Sukkot. Ecco il messaggio: tutti i rituali, in quanto linguaggio simbolico, sono importanti ma, alla fin fine, restano soltanto simboli”. Ecco perché, in chiusura, non ci resta che stringerci attorno alla Torà e gioirne, come appunto facciamo in quel “nono giorno” che è Simchat Torà.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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