Una riflessione su storia, memoria, libertà e pregiudizio
Nelle affollate manifestazioni «no-vax», ovvero contro la «vergogna» della «dittatura sanitaria» e, con essa, del green-pass, nel nome della «libertà», sono puntualmente spuntate sia le stelle gialle che i riferimenti agli «ebrei». Non si tratta di una novità. Tuttavia, il fatto che una tale tendenza vada ripetendosi – riscontro in sé purtroppo prevedibile ma non per questo meno inquietante – impone qualche riflessione di merito. Posto che alle sulfuree, e spesso scomposte, dimostrazioni di piazza si accompagnano anodine, se non ambigue, prese di posizione di alcuni intellettuali. Nel nome medesimo di una «indipendenza di scelta» e della «libertà di espressione pubblica del giudizio» che, tra individualismo esasperato, anarchismo pseudo-libertario, ribellismo tanto aggressivo quanto imbelle, rasenta l’elogio verbale dell’eversione istituzionale. Una scenografia collettiva dove il dato comune è il rifiuto non solo della ragionevolezza ma anche e soprattutto della responsabilità.
Il perimetro dell’individuo viene fatto corrispondere con una sorta di ottuso spazio personale, completamente avulso dalla società: “io mi appartengo e non debbo dare riscontro a nessuno di quanto vado (o non vado) facendo, tanto più quando le mie condotte dovessero riflettersi sugli altri; affari loro, nel qual caso, non certo miei”. La licenza, per l’appunto, viene mistificata come «libertà». C’è soprattutto di che riflettere su uno dei tanti aspetti di questo fenomeno: poiché un tale individualismo proprietario (“sono ciò che posseggo, a partire dal mio corpo, che è una mia proprietà e non altro”), sta diventando il mood, la tendenza, lo spirito che aleggia su quei movimenti collettivi, di piazza, molto spesso in origine spontanei (per essere poi puntualmente occupati dal cappello delle destre estreme), alla ricerca di un minimo comune denominatore. Che trovano nella miscela tra insubordinazione civile e carica sovversivistica una sorta di punto di precario equilibrio. Per cortesia, risparmiamoci le retoriche dell’«ignoranza» (“si comportano così poiché non sanno”), così come della genuinità plebea (“sono veraci, cresceranno e capiranno”). Fermo restando che a queste manifestazioni, spesso volutamente sguaiate, prendono parte molte persone che non sono villane né incivili. La carica conflittuale che portano con sé, come spesso avviene nei movimenti di ogni colore e natura, somma diverse tendenze ed esigenze. Il punto, quindi, non è quello di denunciarne una presunta immaturità: se riescono ad occupare diverse piazze, ciò vorrà pure significare qualcosa. A partire dalla rabbiosa carica di disagio che fanno in tale modo scintillare e divampare. A tale riguardo, dire un no corale alle non solo legittime ma necessarie disposizioni di sanità pubblica, è solo uno dei tanti modi per esprimere un confuso ma robusto rifiuto dello stato delle cose esistenti. Alla ricerca di una qualche potenziale sponda politica che, come si è visto in questi giorni, non tarderebbe nel qual caso a manifestarsi.
E qui entra in gioco l’appropriazione dei simbolismi storici delle persecuzioni nei confronti degli ebrei. Ci sarebbe un lungo discorso da fare, al riguardo. Per brevità, solo qualche punto, con l’obiettivo di evitare fraintendimenti. Le politiche pubbliche della memoria in Europa, ed in particolare quella dello sterminio razzista, sono state generate per unire, non per dividere. Unire, nel nostro caso, implica che costituiscano un efficace strumento di pedagogia sociale a favore della cittadinanza democratica e repubblicana. Come tali, raccontano il tragico cono d’ombra dell’estremo (lo sterminio) per indurre a comprendere il senso mediano delle reciprocità nella vita di ogni giorno. Senza una tale consapevolezza, il passato sarebbe altrimenti trascorso inutilmente, ossia nella nostra piena inconsapevolezza. L’opportunistico riferimento al fantasma delle persecuzioni storiche da parte dei manifestanti, invece, cancella completamente questo quadro logico e razionale di riferimento. Come tale, non è solo un furto di tempo, di memorie e di identità, ma soprattutto una deliberata manipolazione del presente, dove ciò che conta è il gioco delle assurde sproporzioni e delle demenziali equiparazioni: se il «male assoluto» (categoria tanto fallace quanto quella ossessivamente abusata della «banalità del male») sono le persecuzioni e lo sterminio degli ebrei allora, per essere competitivo nel mercato della politica, e delle sue rappresentazioni mediatiche, io stesso mi comparo e mi parifico alle vittime del passato. A quelle vittime. Di cui non voglio sapere nulla (non volere sapere è cosa completamente diversa dall’ignorare), poiché in tale modo posso comodamente accomunare ciò che altrimenti dovrei riconoscere come incomparabile. Il ricorso figurativo, estetico, rappresentativo e mediatizzato alla tragedia della Shoah è, in questo caso, parte della sua stessa negazione: chi si assimila ai deportati per motivare il suo rifiuto verso una misura di interesse per l’intera collettività, non ha a cura la memoria del dolore (quindi la sua importanza nelle odierne relazioni di cittadinanza) ma, piuttosto, la sua brutale banalizzazione e rimozione. Questa condotta è peraltro parte di un più diffuso populismo storico, ossia di quel gioco di totale intercambiabilità tra versioni del passato, in funzione del sostegno alle tesi di comodo rispetto all’interpretazione del tempo corrente. Si tratta quindi di un atto politico che, non a caso, fa gola ad alcuni protagonisti della scena pubblica, alla costante ricerca di una legittimazione delle proprie posizioni, da tradurre in candidature e, quindi, in consenso ed eventualmente in voti. I sillogismi di circostanza, la cancellazione di qualsiasi distinzione, la decontestualizzazione, l’appropriazione indebita sono elementi non solo di una perversione del giudizio storico ma anche e soprattutto del ricorso al rullo compressore che frantuma qualsiasi differenza, adottando invece il rancore e la diffidenza come i due paradigmi sui quali costruire una comunità di individui accomunati dal rigetto dello stato di cose esistenti. Deve poi fare riflettere il riscontro che tra quanti si dichiarano attualmente perseguitati al pari di come lo furono gli ebrei, vi sono senz’altro persone che coltivano disposizioni di giudizio che possono rivelarsi antisemitiche.
Non varrà per tutti ma, nella valanga di superstizioni, c’è un ampio spazio in cui possono sedersi comodamente i tanti sacerdoti del pregiudizio. L’antisemitismo contemporaneo, infatti, ha sempre contestato agli ebrei di essersi appropriati, a proprio esclusivo beneficio, del senso della sofferenza e della memoria dell’intolleranza. In un gioco di competizioni, l’antisemitismo dichiara che mentre l’ebraismo usa per sé la falsa immagine di vittima dei non ebrei, sono in realtà questi ultimi ad essere i veri oppressi. In genere, a causa del «dominio ebraico», tanto più oggi presentato come il tessuto connettivo dei «poteri forti», della «finanza internazionale», del «dominio del denaro» e così via. Un anticapitalismo straccione, che da sempre è il terreno prediletto del radicalismo di destra, ritrova quindi le sue coordinate, usando il disagio e l’angoscia sindemiche, legate al nesso tra crisi sanitaria, difficoltà economiche e trasformazioni dei mercati, come miscela per l’auto-legittimazione. La storia non si ripete; i drammi collettivi, invece, qualche analogia possono presentarla. Si riparte da questo riscontro, dinanzi all’abbaglio di quelle (finte) stelle gialle.