Cultura
Sigalit Landau, l’acqua e il sale

Gli oggetti e le scene incorniciate dall’artista incontrano la quintessenza dell’israelianità, cioè acqua, sole e sale. Il tutto condensato in un luogo simbolo: il Mar Morto.

Sigalit Landau è nata a Gerusalemme nel 1969, dove ha frequentato la Bezalel Academy of Arts and Design. Oggi vive e lavora a Tel Aviv, la capitale dell’arte israeliana, e espone in tutto il mondo. La mostra più recente è quella presso il museo ebraico di Amsterdam, dedicata interamente alle sue opere . Molte – sculture e installazioni video – hanno a che fare con il Mar Morto e il suo ecosistema unico al mondo, un ambiente fragile che da alcuni decenni sta subendo una trasformazione drastica e che, se non verranno presi provvedimenti decisivi, rischia di scomparire entro la metà del secolo.

Per Sigalit Landau il Mar Morto è un ambiente speciale, che la attira con il suo fascino estremo fin da quando era piccola. “Quando ero bambina il Mar Morto era 40 metri più alto, questo significa che lo stiamo perdendo a un ritmo superiore a un metro all’anno”, le sue parole. Circa quindici anni fa Landau ha deciso che il dialogo con il Mar Morto sarebbe stato alla base della propria proposta artistica.

Da qui sono nate le sculture di sale e le installazioni video in mostra ad Amsterdam, e che ci auguriamo di vedere in futuro anche in Italia. Il lavoro preparatorio comincia nello studio a Tel Aviv, dove sono attentamente selezionati oggetti, per esempio un paio di scarpe o un vestito. Oppure vengono incorniciati piccoli arazzi che raffigurano scene europee più o meno stereotipe, come boschi fitti di conifere, montagne innevate e casette di legno con i tetti spioventi, quelle stesse scene che per tanti israeliani rimandano a un altrove lontano desiderato e temuto allo stesso tempo; un altrove che corrisponde ai luoghi di origine di genitori, nonni e bisnonni, dai quali divide la frattura della Shoah e la decisione di emigrare verso un fazzoletto di terra semidesertica in Medio Oriente (pagine meravigliose su questa concomitante attrazione e repulsione sono state scritte da Amos Oz in Una storia di amore e di tenebra). Gli oggetti e le scene incorniciate incontrano poi la quintessenza dell’israelianità, cioè acqua, sole e sale. Il tutto condensato in un luogo simbolo: il Mar Morto. Quanto preparato viene trasportato fino alla depressione che divide Israele dalla Giordania e con piccole gru calato nelle acque salatissime talvolta interamente, talvolta a metà in modo da affiorare in parte. A questo punto è l’ambiente del lago più strano che ci sia ad agire.

In alcuni casi le opere vengono lasciate per settimane, in altri casi per mesi. Così avviene la trasformazione, con i cristalli di sale che coprono e modificano gli oggetti. Quando Landau li estrae dalle acque quello che prima era una scarpa, una rete da pesca oppure un gomitolo di filo spinato è ancora se stesso ma allo stesso tempo anche qualcosa d’altro. Il titolo della mostra – Between Worlds, tra mondi – riassume questa identità liminare e allude alla natura sfuggente e soggettiva di ogni identità.

Più volte Sigalit Landau ha utilizzato il filo spinato per le proprie opere. Un materiale che di solito stabilisce confini i quali se da un lato proteggono, contemporaneamente dall’altro escludono. Ma il filo spinato che emerge dalle acque del Mar Morto non è più uno strumento di difesa ed esclusione. Ricorda piuttosto i filamenti di un lampadario scintillante. Molte punte sono coperte da bianchi cristalli di sale, non tutte però, perché qui e là affiorano alcune aguzze spine nere, a ricordare che cosa giace sotto l’opera del mare. È inoltre un lampadario fragile che può subire trasformazioni durante l’esposizione a causa dell’umidità e della stessa presenza dei visitatori che altera inevitabilmente le condizioni climatiche.

Una delle opere più note dell’artista è un vestito da sposa della tradizione chassidica, replica di quello indossato negli anni venti dall’attrice Hanna Rovina nel dramma teatrale yiddish di Sholem An-ski Tra due mondi: il dibbuk. Nella pièce di An-ski, che definisce un mondo di magia ed esorcismi, la protagonista Leah è posseduta dallo spettro, il dibbuk appunto, del vecchio fidanzato nel giorno del matrimonio. Ma nella versione di Landau anche il vestito della sposa del dibbuk, come il filo spinato, scintilla del sale del Mar Morto. Alcuni hanno visto un riferimento alla condizione femminile, sospesa tra un passato di tradizioni e miti in grado di irretire e talvolta di imprigionare e un futuro sconosciuto.

Un’altra opera famosa, una versione della quale è esposta all’Israel Museum di Gerusalemme, è un video in cui vediamo cinquecento angurie legate da un cavo che formano una zattera spiraliforme galleggiante sul Mar Morto. L’artista, nuda, fluttua all’interno di quella che è a suo modo una configurazione scultorea, allungandosi verso alcuni frutti feriti dei quali si vede la polpa rossa. La spirale si dispiega gradualmente, lasciando la scena a porzioni sempre più grandi dell’azzurro denso senza sfumature del Mar Morto e abbandonando a se stesso il corpo dell’artista ormai senza protezione, esposto (qui un frammento del video).

I due mondi all’origine delle opere di Sigalit Landau sono anche quelli dell’uomo – l’idea dell’artista – e della natura – il sale che modifica, cancella, crea. La sedimentazione del sale sugli oggetti “è una metafora ma anche un vero esempio concreto del tempo”, spiega Landau, “può cancellare ma anche dare enfasi alle forme con il peso”. Così “il tempo diventa massa”. Non va trascurato il ruolo dell’acqua, attraverso cui il sale si cristallizza sugli oggetti. Il valore dell’acqua è ben noto in Israele, che in anni relativamente recenti è riuscito grazie agli impianti di desalinizzazione a disporre di grandi quantità di liquido vitale per l’agricoltura e l’uso domestico, facendone anche uno strumento diplomatico nell’ottica della distensione regionale. L’acqua del Mar Morto è però troppo salata – circa sei volte più di quella del Mediterraneo – dunque inutilizzabile. Nessun pesce, mollusco o alga può viverci, rendendo questo mare sterile e davvero degno del suo nome. Allo stesso tempo, però, si dice che le sue strane acque abbiano poteri curativi, magici e trasformativi, come testimoniano gli stabilimenti termali che sorgono su entrambe le sue sponde. La medesima ambivalenza è presente nei lavori di Landau, in cui oggetti di nullo valore artistico diventano scintillanti sculture di sale proprio mentre perdono il proprio valore d’uso. Una rete da pesca estratta dal Mar Morto dopo due o tre mesi non è più utilizzabile, si avvicina più a una splendida ghirlanda intrecciata di marmo e pietre preziose che a uno strumento per catturare pesci. Quello che era uno strumento è ormai inutile. Ogni trasformazione, sembra dire l’artista, è una distruzione.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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