Cultura Cibo
Sikbāj, scapece e concia. O del conservare sotto aceto

Dall’antica Persia a Napoli fino alla Roma ebraica. Storia (con ricetta) delle zucchine più profumate del Mediterraneo

La pratica di cucinare il cibo friggendolo prima nell’olio e mettendolo poi nell’aceto ha origini remote. C’è chi parla di antichi re persiani, chi di cuochi medievali egiziani. E chi di intraprendenti mercanti di mare ebrei. Quello che ci arriva da questi tempi lontani è qualcosa di complesso e per molti versi imperscrutabile, vuoi per le ovvie difficoltà di traduzione e traslitterazione, vuoi per la mancanza stessa di testimonianze scritte. O di ingredienti ormai caduti in disuso o tipici delle terre da cui i piatti provengono.
Così, il manzo stufato in agrodolce che pare abbia deliziato per secoli i sovrani persiani e che sarebbe il progenitore di tanti piatti odierni è oggi difficilmente riproducibile, così come sarà arduo trovare chi ci dia conferma della sua corretta esecuzione.
Un tuffo nel passato può essere di aiuto, però, per comprendere il presente. Ed è quello che ha fatto il professor Dan Jurafsky, autore del libro The Language of Food e curatore dell’omonimo blog di filologia culinaria. Sulle pagine del suo sito, il linguista dedica un ampio spazio all’analisi di una particolare tecnica di preparazione dei cibi chiamata escabeche. Lo fa prendendola alla lontana, tanto che l’argomento che dà il titolo al suo articolo è la ceviche di pesce peruviana, accostata al fish and chips britannico.
Ma che cosa c’entra tutto questo con noi? Jurafsky ci arriva con calma, implacabile nell’analisi dei testi antichi, partendo dall’oggi, dalla cucina fusion statunitense, e ricercando le basi di un piatto giunto a San Francisco a metà Ottocento insieme ai cercatori d’oro provenienti dall’America Latina. Passa così dalla pietanza di carne citata sopra, il sikbāj, diffusa nella Persia del VI secolo, alla sua versione di pesce, introdotta presso il mondo islamico nel IX secolo, si pensa dai marinai musulmani ed ebrei che commerciavano con l’India e la Cina. A questo proposito lo studioso cita una storia, ambientata nel 912, in cui un mercante ebreo, Isaac bin Yehuda, sarebbe tornato in Oman recando in dono al sovrano un vaso di porcellana nera pieno di pesci d’oro: «Ti ho portato un piatto di sikbāj dalla Cina», avrebbe detto. La prima ricetta di pesce preparata in agrodolce risalirebbe però solo a qualche secolo dopo, il XIII, arriva dall’Egitto e prevede sia la frittura dell’alimento sia la sua successiva cottura e conservazione in un composto a base di aceto e spezie. Questa preparazione avrebbe poi viaggiato lungo un po’ tutto il Mediterraneo, sbarcando sulle sue coste e assumendo aromi e ingredienti tipici dei luoghi in cui approdava.

Artefici di questa diffusione sarebbero stati perlopiù quegli stessi mercanti e marinai, forti delle conoscenze acquisite nelle terre visitate per i loro commerci, ma anche della necessità, fatta virtù, di sfruttarle per le proprie personalissime esigenze, prima fra tutte quella di fare durare il più possibile i cibi trattandoli con sostanze conservanti a prova di traversata.
Con la ricetta, anche il suo nome cambiava, e lo sikbāj delle antiche origini persiane, giunto ormai nelle regioni meridionali italiane, si sarebbe trasformato in schibecci in Sicilia e in scapece a Napoli, diventando scabecce una volta risalito fino a Genova. Giunto in Spagna passando dall’Occitania (scabeg), sarebbe diventato escabetx in catalano, per poi trasformarsi nell’escabeche che ancora oggi viene usato per indicare in terra iberica questo tipo di preparazione in aceto.
Se ci si chiede come e perché un piatto di carne si sia affermato come pietanza di mare la risposta più semplice fa riferimento ai suoi principali diffusori, che sull’acqua e sui suoi prodotti ci campavano, ma anche sugli usi e costumi dei popoli cristiani e sull’esigenza di osservare la dieta di magro. Le ricerche di Jurafsky si muovono su più fronti. Da una parte giustifica la trasformazione del piatto persiano nel ceviche, piatto elaborato in Perù a seguito dell’arrivo dei Conquistadores spagnoli, dall’altra accompagna il pesce fritto insaporito nell’aceto dalla Spagna all’Olanda e da qui in Inghilterra, progenitore del fish and chips.
Qui però interessa fermarsi un po’ prima, e capire come l’escabeche spagnolo abbia avuto, filologicamente e quindi anche storicamente, un precursore nello scapece napoletano, e non viceversa, come generalmente si sostiene.
Se il Meridione italiano conosce questa tecnica di cottura e l’ha resa sua, sarebbe grazie a quei mercanti che dall’Oriente ne avevano tramandato la sapienza. Viaggiatori islamici ed ebrei, si è detto, di passaggio dalla Sicilia e da Napoli. Qui, il pesce avrebbe lasciato il posto agli ortaggi, le zucchine in particolare, conservandone però il tipo di cottura. Si sarebbe giunti così a un piatto che è parte integrante della cultura gastronomica partenopea, quelle zucchine alla scapece che a loro volta ritrovano delle gemelle nella concia di zucchine della scuola romana. O, per meglio dire, della cucina ebraica romanesca.
Alla luce di quanto detto, viene da pensare che quel piatto a base di rondelle di ortaggi, fritte nell’olio e poi fatte raffreddare, insaporire e conservare nell’aceto, sia giunto nel ghetto grazie agli ebrei cacciati dai domini spagnoli del Sud Italia a partire dal 1492. A cambiare sarebbe solo il nome, che perde il riferimento all’antica parola persiana e assume quello di concia.
C’è però anche un’altra possibilità. Mettendo da parte le analisi filologiche, visto che del presunto antico nome a Roma non ci sono più tracce, e guardando la storia con occhi diversi, la concia di zucchine potrebbe anche essere una produzione autoctona degli ebrei romani. Del resto, gli ingredienti di base rispondono appieno alle esigenze di risparmio e di sfruttamento dei prodotti locali. Tutte caratteristiche proprie di una comunità segnata da stenti e limitazioni come è stata quella capitolina.

Le zucchine, innanzi tutto. Per la concia vanno utilizzate quelle tipiche romanesche, sode e dal sapore deciso, un po’ amarognolo, caratterizzate da una superficie rugosa e dalla presenza di striature chiare. Colte quando non sono ancora troppo grandi, vanno affettate e fatte asciugare prima di procedere con la frittura. Questa viene fatta in olio d’oliva, altro ingrediente assai diffuso nella cucina mediterranea e italiana in particolare, di buona reperibilità anche tra le classi più povere, a differenza di quanto avveniva nello stesso periodo nelle zone del centro ed est Europa. L’uso dell’aglio, poi, è da sempre associato all’ebraicità di un piatto e qui non viene certo lesinato, mentre la presenza della mentuccia è tutt’uno con l’offerta romana.
Sulla scelta dell’aceto, infine, non ci dovrebbero essere dubbi, vista la storia secolare che lega gli ebrei a questo ingrediente. Ricavato in Italia dal vino e non dal sidro come avveniva presso i popoli del Nord, era ben più di un semplice insaporitore. Per le comunità ebraiche, bisognose di adattare prodotti e abitudini culinarie locali ai precetti religiosi, l’aceto veniva in soccorso soprattutto nell’osservanza del riposo di Shabbat. Tra i sistemi di conservazione dei cibi più diffusi prima dell’introduzione dei moderni sistemi di refrigerazione, il trattamento sott’aceto era uno dei metodi più semplici e insieme gustosi per arrivare al sabato con piatti già pronti e ancora buoni.

Così come i marinai cucinavano e conservavano il pesce in mare, così gli abitanti del ghetto potevano permettersi di gustare un ottimo piatto di verdure nei giorni successivi alla sua preparazione. Guadagnandone, tra l’altro, in aromaticità. Senza addentrarsi nelle altre applicazioni di questo sistema di preparazione (vedi le sarde in saor veneziane) è interessante rilevare quanto la concia abbia conservato una indiscussa valenza ebraica, pur convivendo con diverse versioni simili se non identiche, considerate italiane tout court.
Oltre al già citato scapece, la cui ebraicità è comunque più che probabile, i ricettari di cucina italiana riportano la pietanza con altri nomi, senza riferimenti alle comunità che ne avrebbero sviluppato l’uso. Tra i libri più noti, c’è quel Talismano della Felicità firmato da Ada Boni che dalla sua pubblicazione nel 1929 è stato il punto di riferimento per gli amanti della cucina nostrana, ma soprattutto, e il titolo in questo è significativo, per gli angeli del focolare bisognosi di una guida.
La gastronoma romana (sarà un caso?), vi descrive la concia di zucchine con la sola sostituzione della mentuccia con il prezzemolo, dandole però il nome di zucchine marinate. Manca qualunque riferimento alla tradizione ebraica, ma piace pensare che non si tratti di una omissione intenzionale, né di malafede. Piuttosto, parrebbe una delle tante prove di come gli usi detti “alla giudia” abbiano ispirato e condizionato la cucina italiana che, più o meno consapevolmente, li ha fatti propri e assimilati alla sua tradizione.

Concia di zucchine

Ingredienti per 4
1 kg di zucchine romanesche
4-5 spicchi di aglio
1 mazzetto di prezzemolo
1 mazzetto di mentuccia romana
aceto di vino bianco
olio extravergine d’oliva
sale

Spuntare le zucchine e tagliarle a fette per il lungo o a rondelle non troppo sottili, a piacere. Stenderle quindi su diversi canovacci e lasciarle asciugare per qualche ora dall’acqua di vegetazione.
Scaldare abbondante olio in una padella profonda, poi tuffarvi le zucchine, poche alla volta, e friggerle fino a quando assumono un colore dorato, poi scolarle su carta da cucina a perdere l’unto in eccesso. Spolverizzarle quindi di sale.
Sbucciare gli spicchi d’aglio e tagliarli a lamelle. Pulire le erbe con carta da cucina inumidita, poi spezzettare le foglie di menta e tritare quelle di prezzemolo.
Disporre le fette di zucchina in una pirofila, meglio se di vetro o di ceramica, e distribuirvi parte dell’aglio con il prezzemolo e la menta. Spruzzarle con poco aceto, quindi ripetere l’operazione, incrociando le zucchine nel caso siano state tagliate nel senso della lunghezza.
Procedere come indicato fino a esaurire gli ingredienti, terminando con una spruzzata abbondante di aceto e una spolverizzata di aromi.
Mettere in frigo e lasciare insaporire per almeno 12 ore prima di servire come antipasto sui crostini di pane e come contorno di pietanze di carne o di pesce

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.