Hebraica Nizozot/Scintille
Simbolismi del fuoco nella tradizione ebraica

In ebraico il fuoco si dice esh, e la sua centralità nell’incipit della creazione i maestri la scoprono già nella prima parola della Torà, bereshit, intesa come ber-esh-it, al centro della quale sta appunto il termine esh, il fuoco

Scrive Platone nel Protagora, dove narra uno dei miti greci sul ‘venire alla luce’ dell’essere umano, che essendo questi stato lasciato nudo e indifeso da Epimeteo, venne soccorso da Prometeo, il quale “non sapendo quale mezzo di salvezza escogitare per l’uomo, rubò ad Efesto e ad Atena la loro sapienza tecnica insieme con il fuoco (senza il fuoco infatti era impossibile acquisire e utilizzare quella sapienza) e la donò all’uomo” (320c). Stando alla filosofica antica dunque nel fuoco sta il vero segreto della sapienza umana nonché il motore della tecnologia e del progresso, necessari all’autodifesa e alla sopravvivenza della specie umana. In effetti, tutta la cultura occidentale – che da allora pensò l’universo composto di quattro elementi: (in ordine gerarchico per nobiltà) terra, acqua, aria e fuoco – ha sempre considerato quello igneo l’elemento più vitale e prezioso, l’unico che dia calore agli altri senza a sua volta ricerverne, e dunque il più adatto ad esprimere il divino o almeno le sue epifanie. All’origine è il fuoco, potremmo sintetizzare. Ora, domanda, è così anche nella tradizione biblica e rabbinica?

In un certo senso sì, con alcuni limiti, che vediamo subito. Sebbene il fuoco sia naturalmente associato o associabile al sole, il disco incandescente attorno a cui ruotano le nostre brevissime esistenze, la Torà e i maestri di Israele hanno sin dall’inizio voluto insegnare che il sole non è un dio, né lo sono la luna e gli astri che vediamo nella volta celeste; essi sono piuttosto e soltanto creature e come tali non vanno considerati e adorati al pari di una divinità. Il Signore benedetto è creatore anche del fuoco, forse la prima delle cose create e pertanto quella che meglio lo riflette (ki-vjakol). In alcune preghiere Iddio è chiamato persino l’Accusatore degli adoratori del sole. In terra di Babilonia gli zoroastriani avevano il culto del fuoco e Avraham avinu, secondo il midrash, deve lottare contro quell’idolatria. È vero, lo shabbat ‘entra’ ogni settimana accompaggnato dall’accensione di due lumi (detti al singolare ner shel shabbat); ma nell’havdalà, rito di commiato dallo shabbat appena ‘uscito’, si benedice il Bore meorè ha-esh, il Creatore delle luci del fuoco, spegnendo un doppio lume e permettendone così l’accensione profana, vietata invece nel settimo giorno. In ebraico il fuoco si dice esh, e la sua centralità nell’incipit della creazione i maestri la scoprono già nella prima parola della Torà, bereshit, intesa come ber-esh-it, al centro della quale sta appunto il termine esh, il fuoco. Non sorprende pertanto che quest’elemento serva da metafora del divino e che il divino sia stato rappresentato assai spesso come avvolto nel fuoco.

A tutti è noto come il Signore benedetto sia apparso e abbia parlato a Moshe rabbenu sul Suo monte attraverso un angelo/inviato che gli apparve in una fiamma di fuoco (be-labbat esh) in mezzo a un roveto (mitok ha-senè) che bruciava senza consumarsi (Shemot/Es 3,2). In seguito, tutte le teofanie ossia le manifestazioni del divino sul Sinài saranno accompagnate da eventi atmosferici che sprigionano fuoco e fiamme, folgori e lampi; parimenti nel deserto tutto il popolo viene accompagnato e protetto di notte da una colonna di fuoco (ivi 13,21); al momento del dono della Torà quello stesso monte è tutto fumante perché il Signore vi era sceso nel fuoco (ba-esh) e il fumo saliva come quello di una fornace (ivi 19,18); in Devarim/Dt 4,33 si legge che la voce divina parlava dall’interno del fuoco; più avanti (ivi 33,2) quella voce diviene Legge, e più plasticamente “dalla sua destra sortiva il fuoco della legge” (esh dat). Dunque già la Torà usa il fuoco come immagine della parola divina, come icona di se stessa. Il Chatam Sofer, rav Moshè Schreiber (lo scriba, appunto, vissuto tra XVIII e XIX secolo in Europa centrale), rimarca come nella Torà le due parole esh dat siano scritte unite, sebbene si leggano come se fossero separate; questa stranezza del Testo rimanda a Devarim/Dt 3,17 dove quelle quattro lettere compaiono unite (si leggono ashdot) e significano ‘le cascate di acque’ che si gettano nel mare del sale, il Mar Morto. Come è possibile che la stessa parola indichi qui l’acqua e là il fuoco? L’acqua scende come il Signore sul monte, dove dà la sua Torà; ma Mosè e il popolo che la ricevono salgono verso quel monte dove le loro anime diventano altrettante fiamme di fuoco… così immagina un midrash, per descrivere quel momento apicale della vita di Israele. Tutta la tradizione profetica adotterà questa duplice immagine della Torà come acqua viva (mayim chayim) e come fuoco divorante: “La Mia parola non è forse come il fuoco?” dice Iddio benedetto per bocca del profeta Yirmeyahu/Geremia (23,29). Immagini continuamente riprese dai maestri nel Talmud (ad es. in Betzà 25b e in Ta‘anit 4a e 7a), ma senza alcuna contraddizione logica perché gli opposti sono soltanto due potenti metafore e icone dell’ineffabile spirito divino (ma attenzione, anche quest’ultimo termine – ruach/spirito – in quanto soffio e vento, cioè aria, è uno dei quattro elementi dell’universo mondo, che a sua volta costituisce una mera immagine dell’ineffabile).

Il fuoco simboleggia la vita, in quanto calore e fonte di energia (il cadavere è gelido, oltre che impuro) ma è anche un potente strumento di punizione e distruzione (come del resto l’acqua incontrollata del diluvio). Una pioggia di fuoco e zolfo punisce le città di Sodoma e Gomorra; e sempre igneo è l’elemento della punizione infernale, almeno nell’immaginario religioso condiviso da tutto l’Occidente, in parte anche dal mondo ebraico. Tra i due estremi, il fuoco-vita e il fuoco-morte, la tradizione ebraica lavora ed insiste sul fuoco-espiazione, come simbolo di purificazione (pyr in greco è fuoco) e della possibilità di rimuovere e annientare i peccati rimettendosi sulla ‘via dei giusti’ grazie alla teshuvà. Così anche l’ahavat ha-Shem, l’amore per Dio, è paragonato ebraicamente al fuoco, tanto che tutto Israele può diventare esh qodesh, fuicoo santo, e il suo santuario come una fiamma (le-lehavà)” (cfr. Yeshayahu/Isaia 10,17). Del resto nel Tempio il fuoco era necessario per i sacrifici di espiazione e propiziazione per il popolo e da parte del popolo, per mezzo dei kohanim, i quali assolvevano questi compiti secondo regole ben precise, pena il cadere nella trasgressione dei figli di Aronne, Nadav e Avihù, che offrirono un ‘fuoco estraneo’ (esh zarà) e di fuoco perirono (cfr. Waiqrà/Lv 10,2-2); la tradizione rabbinica si interroga fino ad oggi su cosa davvero significhi esh zarà… Il tragico episodio conferma che non bisogna ‘scherzare con il fuoco’, specie quando si è dinanzi a Iddio benedetto. Di fuoco poi i qabbalisti vedono costellato il cosmo, solcato dai serafini – che sono creature infiammate dall’amore divino – ma anche da chashmalim, di cui parla il profeta Ezechiele, creature celesti che balenano come ‘elettri’ nei mondi superni.

E che dire di quel fiume di fuoco, il nehar di-nur di cui parla già Daniele (7,10), ripreso dal trattato talmudico Chaghigà 13b, e che assurge a crasi, a sintesi, dei due elementi più metaforici per indiocare la Torà, l’acqua e il fuoco? Il nehar di-nur è un alveo in cui corrono acque infuocate (cui forse si ispirò lo stesso Dante Alighieri) che la fantasia rabbinica fa riversare infine proprio sulla testa dei rebrobi nell’abisso del gehinnam, all’inferno, a conferma che la giustizia divina non è la notte in cui tutte le vacche sono nere. A dispetto di ogni desiderio (cristiano) di apocatastasi, il nehar di-nur ammonisce e insegna che l’ecpirosi, il fuoco della fine, non è come il fuoco dell’inizio, perché nel mezzo ci stanno le nostre scelte, libere e responsabili, e le loro conseguenze sempre in bilico tra la vita e la morte. Per quanto brevemente, viviamo sempre “tra due fuochi”.

 

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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