Hebraica Nizozot/Scintille
Sir Isaiah Berlin, rav Sacks e la ricerca dell’ideale in un mondo policentrico

Berlin ha esaltato due concetti fondamentali dell’esperienza ebraica: la libertà (il cuore del messaggio di Pesach) e l’ideale (qui inteso come “ricerca della verità”)che onorò con l’uso dell’intelligenza e della parola

Commentando la parashat Yitrò, lo scorso shabbat, rav Riccardo Di Segni ha ritratto il suocero di Mosè nonché sacerdote di Midian Yitrò come un “cercatore della verità”: dopo aver esperito forme di culto molteplici e strane (‘avodà zarà) «ascoltò tutto quello che il Signore aveva compiuto per Mosè e per il Suo popolo» e si unì a Israele. Quell’ascolto implicò un discernimento teologico-politico, che lo purificò dall’odio gratuito e dal pregiudizio religioso verso Israele e lo spinse a convertirsi, sebbene la parola sia qui anacronistica. Ora, nel solco di Yitrò, sul dovere di cercare la verità non smise mai di riflettere e interrogarsi uno dei filosofi politici più importanti del XX secolo, Isaiah Berlin (Riga 1909-Oxford 1997), ebreo lettone che emerse in Inghilterra nel secondo dopoguerra come storico e teorico del liberalismo diventando maestro di una schiera di intellettuali del calibro di John Nicholas Gray e Michael Ignatieff, Bernard Williams e, più tardi, il rabbino Jonathan Sacks. E fu a rav Sacks che Berlin chiese di celebrare il proprio funerale, con rito ortodosso, sebbene egli frequentasse la sinagoga solo di Kippur: sì, ammise rav Sacks, era un ebreo non osservante ma fu un ebreo leale al suo ebraismo, che onorò con l’uso dell’intelligenza e della parola, esaltando due concetti fondamentali dell’esperienza ebraica: la libertà (il cuore del messaggio di Pesach) e l’ideale (qui inteso come “ricerca della verità”). Per conoscere il suo pensiero è molto utile la lectio magistralis per il conferimento del Premio Agnelli del 1988 intitolata Sulla ricerca dell’ideale, testo che Morcelliana ha da poco ripubblicato (pp.84, 11 euro, inglese a fronte); ne esiste anche una versione edita da Adelphi nel volumetto Un messaggio al ventunesimo secolo.

In quanto storico delle idee, Berlin divenne famoso con la pubblicazione, nel 1958, del libro Due concetti di libertà. Vi spiega che ne esiste una negativa (libertà-da, che secondo rav Sacks corrisponde al termine ebraico chofesh cioè affrancamento) e una positiva (libertà-per, che corrisponderebbe a cherut). Interessante notare che la radice di chofesh, chet-pe-shin, porta anche il significato di ‘ricerca’ e ‘indagine’, e del resto solo chi è libero può cercare e indagare; senza libertà non può esserci verità né culto vero, autentico, ma solo ‘avodà zarà… Tuttavia, nel suo lungo percorso intellettuale Berlin si convinse che «poche cose hanno causato tanto male [nella storia] quanto la credenza da parte di individui o gruppi (o tribù o stati o nazioni o chiese) di essere gli unici depositari della verità. È terribilmente e pericolosamente arrogante credere di essere i soli ad avere ragione, di possedere un occhio magico tale da vedere la verità, e che gli altri non possano essere nel giusto qualora non siano d’accordo [con noi]».

Nel citare questo pensiero di Berlin nel suo fondamentale testo La dignità della differenza. Come evitare lo scontro di civiltà (2002), rav Jonathan Sacks, alla luce di un famoso midrash, spiega che ebraicamente «la parola divina viene dal Cielo ma è interpretata sulla terra» e noi, della verità infinita, non possiamo che avere comprensioni finite, limitate e dunque plurali. Insiste: «L’ebraismo crede in un solo Dio ma non in una sola via per la salvezza». E cita il rabbino Avraham Kook: «Il Signore benedetto è stato benevolo con il suo mondo allorché non mise tutti i talenti in un solo luogo, in un unico uomo, in un’unica nazione, in un’unica generazione o addirittura in un unico mondo». Per quanto ottocentesca e ispirata alla mistica (cioè all’idea che esistano altri mondi, oltre al nostro), questa affermazione di rav Kook non è lontana dal messaggio del filosofo politico di Oxford, che attraverso Giambattista Vico, Johann G. Herder e Robin Collingwood aveva ‘scoperto’, per così dire, il policentrismo storico delle culture e dei valori umani e decretato la fine della gerarchia monistica dei valori, di cui Platone fu il primo visionario.

Un altro grande ebreo che lavorava nell’accademia inglese, lo storico di origine piemontese Arnaldo Momigliano, rimproverò a Berlin di essere caduto in una prospettiva filosoficamente sbagliata, ossia nel relativismo, ossia la posizione per la quale, data la pluralità delle interpretazioni della verità, allora non esiste verità alcuna. Ma secondo Berlin è relativista solo chi dice: io amo il vino rosso, tu quello bianco, è questione di gusto, ciascuno ha il suo, fine della discussione. Non è invece quel che Vico e Herder sostengono, e neppure lo stesso Berlin che spiega: «Non difendo il relativismo, ma il pluralismo ossia la concezione per cui vi sono molti fini differenti che gli uomini possono perseguire, pur continuando a essere puramente razionali, capaci di comprendersi tra di loro e di andare d’accordo e di attingere luce l’uno dall’altro… Tuttavia i nostri valori sono nostri, e i loro restano i loro. Siamo liberi di criticare i valori delle altre culture, di condannarli, ma non possiamo fingere di non comprenderli in pieno o di ritenerli semplicemente come soggettivi…». Berlin deve ammettere che, proprio in virtù della comunicabilità dei saperi, questi ‘valori oggettivi’ possono nondimeno entrare in conflitto tra loro, e dunque l’unica via praticabile resta quella di abbassare la pretesa che “la verità vinca” e assestarci su dei compromessi e su un minimum di valori universali senza i quali le società a stento potrebbero sopravvivere. Rav Sacks riconosce in questa postura di Isaiah Berlin l’antico insegnamento rabbinico dei darkè shalom, i compromessi da farsi per avere pace, cioè una pacifica convivenza tra gli esseri umani e le nazioni e le culture. Non è un caso che ne La dignità della differenza sir Berlin sia citato cinque volte in capitoli diversi.

In una famosa eulogia dedicata al maestro, Sacks ricordò che «Berlin si convinse che noi esseri umani non avremmo mai creato una società ideale nella quale tutte le nostre visioni multiple del bene [i valori diversi e contrapposti che ci affanniamo a perseguire] possano tutte realizzarsi in modo simultaneo. La sua citazione favorita in questo contesto era un aforisma di Kant: “Dal legno storto dell’umanità non si può ricavare nulla di diritto”. E io sospetto – aggiunse rav Sacks – che Kant stesso abbia preso questo pensiero da Qohelet: “Ciò che è storto non può essere raddrizzato” (1,15)». Eccoci riportati al realismo antropologico e politico, di cui le fonti bibliche e rabbiniche sono piene, e di cui in modo diverso sia Isaiah Berlin sia rav Sacks sono stati esponenti. Non si tratta di rinunciare alla verità o agli ideali, ma di voler e saper discernere tra le molteplici Weltanschauungen e di distinguere “la ricerca della verità”, che ci fa umani, dalla “pretesa di imporre un’unica verità”, distopia che fa precipitare in politiche totalitarie e nell’idolatria (‘avodà zarà) che abbiamo conosciuto in Egitto (da cui il non ebreo Yitrò, secondo il midrash, dovette a sua volta fuggire).

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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