Cultura
Sogni rabbinici

Qual è l’atteggiamento dei rabbini riguardo ai sogni? Da una parte cercano di mettere in discussione la fede popolare nei confronti dei sogni, dall’altra non negano il valore dell’interpretazione dei sogni e si candidano a guidarla

Il folklore, la magia e la superstizione legata ai sogni costituiscono un patrimonio di civiltà antiche e moderne, tra cui anche quella che emerge nei testi rabbinici classici tra il periodo imperiale romano e la tarda antichità. All’oniromanzia ebraica attraverso i secoli Monford Harris ha dedicato trent’anni fa il volume ancora insuperato Studies in Jewish Dream Interpretation. Qual è l’atteggiamento dei rabbini a riguardo? Da una parte cercano di mettere in discussione la fede popolare nei confronti dei sogni, considerata forma di superstizione affine alla magia; dall’altra però non negano il valore dell’interpretazione dei sogni e si candidano a guidarla. Il loro atteggiamento nei confronti dell’esperienza onirica è perciò duplice: limitante verso la capacità di significare attribuita ai sogni ma nello stesso tempo attiva opera ermeneutica. È possibile che i rabbini si facciano interpreti di sogni per non lasciare il monopolio nel settore agli interpreti improvvisati o peggio male intenzionati. In ogni caso, almeno per molti di loro, il sogno non è semplice apparenza che dilegua al risveglio ma una realtà con cui bisogna fare i conti.

Sono centinaia i sogni narrati nel midrash. Spesso si tratta di esperienze notturne individuali che mettono in guardia il sognatore da una sventura che si sta avvicinando. Che il sogno anticipi il futuro non è d’altronde soltanto espresso attraverso casi concreti, ma anche chiarito nella teoria. In Bereshit Rabbà rabbi Haninà elenca tre realtà eccezionali con i loro rispettivi sostituti, o surrogati, di cui tutti dispongono: “Sostituto della morte è il sonno; sostituto della profezia è il sogno; sostituto del mondo a venire è il sabato”. Per il maestro il sogno è una sorta di profezia a bassa intensità, o se si preferisce la profezia un sogno completamente realizzato. In ogni caso vede una continuità tra le due esperienze – che si distinguono sul piano della quantità – per quanto riguarda la qualità. Nella medesima direzione va il Talmud, dove nel trattato Berakhot il sogno viene definito “un sessantesimo della profezia”.

Se il sogno rappresenta una profezia minore, non stupisce che il futuro sognato si compia regolarmente. Per esempio nel trattato Yomà del Talmud rabbi Haninà – ancora lui: evidentemente con i sogni aveva un rapporto privilegiato – sogna Rav impiccato a una palma. Al risveglio Haninà considera che chi (in sogno) viene impiccato a una palma diventerà capo di una yeshivà. Haninà, che è a capo di una yeshivà, teme che Rav possa sostituirlo. Poiché non mette minimamente in discussione non solo che il sogno possa non anticipare il futuro, ma anche l’interpretazione che al sogno lui stesso ha dato, fa tutto il possibile perché Rav parta per Babilonia, in modo che quanto annunciato si realizzi laggiù, senza costargli il ruolo che detiene. Soffermandosi sul sogno biblico delle vacche grasse e magre compiuto dal faraone e successivamente interpretato da Giuseppe, il midrash chiarisce che tutte le creature sognano, “ma il sogno del re abbracciava tutto il mondo”, come a dire che quando un governante sogna la cosa non è esclusivamente di suo interesse privato, ma di interesse di tutto il paese.

I sogni dei leader e dei politici, in altre parole, hanno ricadute sulla vita di tutti gli uomini e quindi non devono essere trascurati. In un altro passo, questa volta a proposito della ribellione di Nimrod (la torre di Babele), viene menzionata la storia di una donna che in sogno vede che il marito la ripudia. Al mattino gli racconta l’incubo, ricevendo la risposta più tremenda: “Perché solo in sogno? È la verità”. E viene effettivamente ripudiata. A margine di questi racconti è lecito chiedersi se il sogno sia segno di qualcosa che è già scritto, sintomo che partecipa a ciò che si sta avvicinando, oppure causa del futuro (di solito tragico). Nel primo caso il sogno in sé non determina la realtà, limitandosi ad anticiparla: sembra questo il significato del sogno di rabbi Haninà. Nel caso del sogno della donna, invece, sembra che il sogno determini la realtà, indirizzandola come in quei miti in cui un personaggio per sfuggire a una profezia nefasta mette in moto con le proprie stesse scelte la vicenda che, magari a distanza di anni, la realizzerà (nel mito greco gli esempi non mancano, da Edipo a Perseo). Qui è il sogno a plasmare il futuro e le sue tragedie.

Nello stesso tempo il sogno subisce limitazioni da parte dei rabbini. In questo senso la sua concorrente principale – a cui i maestri concedono nei secoli un rilievo sempre crescente a livello sia individuale sia collettivo – è la preghiera. Soprattutto per quanto riguarda pratiche apotropaiche, comportamenti cioè intesi a tenere lontano un male, la preghiera limita, annulla o anche sostituisce il sogno. In Shir haShirim Rabbà, la raccolta di midrashim sul Cantico dei cantici, viene descritto un sogno in cui il sognatore vede il taglio della propria barba. Il rimedio prescritto dai rabbini è andare in sinagoga e recitare lo Shemah e le altre preghiere: così non accadrà nulla di male. La preghiera ha dunque il potere, almeno in alcune circostanze, di annullare il valore profetico del sogno. In casi analoghi il suggerimento dei maestri può essere anche qualcosa di simile a quello che oggi chiameremmo buonsenso, per esempio lasciare passare del tempo affinché il turbamento suscitato dal sogno illanguidisca, svanendo un po’ alla volta. Qui il presupposto sembra essere che il sogno non anticipa nulla e a maggior ragione non determina il futuro, ma ha lo statuto di una visione di fantasia da cui sarebbe bene non lasciarsi influenzare. Un’altra risposta prescrive al sognatore il digiuno, al cui proposito Rabbah ben Mehasiyah e rabbi Hamà ben Gurion in nome di Rav affermano: “È buono un digiuno per il sogno come il fuoco per la stoppa”. Probabilmente qui i rabbini vogliono sottolineare come il pentimento, nei giorni di digiuno, allontani le disgrazie, ma è possibile intravedere anche un’allusione all’idea relativa al comportamento alimentare secondo la quale si sogna sempre a pancia piena, e soprattutto quando è troppo piena si può cadere preda di incubi.

Oltre a esporre e discutere numerosi sogni, i rabbini si soffermano sulla loro interpretazione. “I sogni non fanno salire né scendere”, commenta rabbi Abbahu a proposito del sogno della scala di Yaakov (Giacobbe), intendendo probabilmente che non hanno alcuna influenza sulla vita. Subito dopo però il midrash espone un sogno e la relativa interpretazione:

Un uomo andò da rabbi Yosè ben Halaftà e gli disse: “Mi dicevano in sogno: vai a prendere il tesoro di tuo padre in Cappadocia”.

Gli rispose il rabbi: “Tuo padre è mai stato in Cappadocia?”.

E l’uomo: “No”.

Allora il rabbi: “Vai a casa, conta nel pavimento venti travi e troverai il tuo tesoro”.

L’uomo: “Ma la mia casa non ne ha venti”.

Il rabbi: “Se non ve ne sono venti, contale dalla prima all’ultima e dall’ultima alla prima, e la troverai”.

L’uomo andò a casa, contò e trovò il tesoro. Come fece a capirlo rabbi Yosè ben Halaftà? Dalla parola “Cappadocia”.

Rabbi Yosè è evidentemente un fine conoscitore della lingua greca perché interpreta il nome “Cappadocia” non in riferimento alla regione dell’Anatolia centrale (anche se nella prima risposta sonda questa possibilità, per scartarla subito), ma scomponendolo paraetimologicamente in kappa + dokòs, in greco “k” (la lettera ha valore numerico 20) + “travi”. Bar Qapparà interviene a chiosare questo magnifico racconto sancendo che “non esiste sogno che non abbia interpretazione”. Il Talmud (Berakhot) ribadisce il concetto spiegando che “un sogno non interpretato è come una lettera non letta”, che equivale a dire che (a) il sogno c’è precisamente perché sia decodificato e (b) il sogno è scritto in codice, per cui per conoscere il messaggio che porta bisogna conoscere preliminarmente questo codice. Nel midrash di rabbi Yosè e il tesoro in “Cappadocia” questo codice è la lingua greca, ma naturalmente non esiste un unico codice valido per tutti i sogni.

Come afferma rabbi Yohanan in Bereshit Rabbà, “tutti i sogni vanno dietro alla bocca”, cioè tutti i sogni dipendono dall’interpretazione che viene data loro, dalle parole con cui vengono chiariti. Siamo di fronte a una attestazione straordinaria della centralità dell’ermeneutica, o interpretazione. Un sogno è quello che è non sulla base delle figure o dei simboli che evoca, ma sulla base di come questi sono letti e comunicati. Il sogno è perciò analogo a ciò che per lo storico è una fonte che occorre fare parlare: poiché da sola la fonte non parla, è indispensabile che l’interprete la affronti, mettendola alle strette per strapparle i suoi segreti. L’interpretazione, come rende viva la parola di un testo scritto, rende viva l’immagine portata dal sogno: si tratta dell’atteggiamento in cui consiste il midrash – da doresh: interpellare, chiedere con insistenza, esigere e quindi interpretare – applicato al contesto onirico.

Abbiamo visto prima il sogno della donna che verrà ripudiata dal marito. Il pericolo risiede qui nel sogno, che prefigura o addirittura determina la realtà. Altrove basta la sola interpretazione a farlo:

Una volta una donna andò da rabbi Eliezer e gli disse: “Ho visto in sogno che una trave della mia casa si rompeva”.

Il rabbi rispose: “Partorirai un maschio, ed egli vivrà”.

La donna se ne andò e avvenne quello che rabbi Eliezer aveva detto.

In seguito la donna tornò a interrogarlo ma questa volta trovò soltanto i suoi allievi, mentre il maestro non c’era.

Chiese loro: “Dov’è il nostro maestro?”

Le risposero: “Di’ pure a noi quello che vuoi, ti risponderemo”.

La donna disse: “Ho visto in sogno che una trave della mia casa si rompeva”.

Le risposero: “Questa donna seppellisce suo marito”.

La donna se ne andò e cominciò a piangere.

Rabbi Eliezer la sentì e domandò ai suoi studenti: “Che cosa le avete detto?”

Risposero: “Quella donna è venuta a interrogarti”.

Il rabbi: “Che cosa le avete detto dunque?”

Risposero quello che avevano detto.

Rabbi Eliezer disse loro: “Voi avete ucciso un uomo. Non sta forse scritto [nella storia di Giuseppe in prigione in Egitto raccontata nella Torah] ‘come ci interpretò, così avvenne’?”

“Avete ucciso un uomo”: l’interpretazione in questo caso estremo non prefigura semplicemente la realtà e neppure decodifica una realtà misteriosa. La crea addirittura. L’interpretazione è una operazione da affrontare con eccezionale responsabilità. In caso contrario, cioè quando l’interpretazione è fornita con leggerezza come dagli allievi di rabbi Eliezer, le conseguenze possono essere mortali.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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