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Storia e storie del dolce di Pitigliano, lo “sfratto dei goym”

Frutta secca e miele per un dolce nato (forse) nella Piccola Gerusalemme

Un ripieno speziato a base di miele e noci avvolto in un guscio allungato di pasta friabile. A volerne descrivere aspetto e composizione, lo sfratto dei Goym è questo. Per indagarne le origini, bisogna impegnarsi un po’ di più. A partire dal nome, che richiama un episodio della complessa e spesso drammatica storia degli ebrei nella zona di Pitigliano (GR), detta la Piccola Gerusalemme, e delle cosiddette terre del tufo. 
Ci troviamo nella Maremma toscana, non troppo distanti dal Lazio e da quelle zone che alla fine del Cinquecento, sulla spinta delle bolle papali del 1555 e 1569 e ai provvedimenti del Granducato di Toscana tra il 1570 e 1571, avevano accolto le migrazioni degli ebrei cacciati dal Centro Italia. Sotto la tutela degli Orsini, la Contea di Pitigliano – al pari di quella di Santa Fiora, sotto gli Sforza, di Castell’Ottieri e del Ducato di Castro, con i Farnese – manteneva ancora una certa indipendenza. Gli ebrei, già presenti in questi luoghi almeno fin dal secolo precedente, trovavano presso la Contea di Pitigliano una relativa libertà di movimento. Era qui che veniva dato asilo alle persone bandite da altri Stati a causa di reati (esclusi il furto, l’incendio e i debiti non pagati) e sempre qui i feudatari potevano ignorare sia le leggi granducali antiebraiche sia le richieste del Comune pitiglianese contro gli ebrei.

Tra gli esuli illustri, va ricordato lo spoletino David de Pomis, medico al servizio degli stessi Orsini e attivo anche nelle comunità di Sorano e Sovana. 
In questo clima di fiducia e di scambi reciproci, la comunità si era rinforzata e cresciuta, con la definitiva espulsione dallo Stato della Chiesa del 1593 e l’arrivo, tra la fine del XVI e la prima metà del XVII secolo, anche di un buon numero di sefarditi. Prova dell’importanza della comunità sarà anche l’edificazione nel 1598 della sinagoga di Pitigliano, che avrebbe entusiasmato perfino il granduca Pietro Leopoldo di Lorena, qui in visita nel 1773. 
Nel frattempo, però, gli equilibri politici stavano cambiando e, con il ridimensionamento del potere degli Orsini prima e la definitiva annessione anche di Pitigliano al Granducato di Toscana poi, la sorte degli ebrei sembrava segnata, con il progressivo aumento di limitazioni imposte agli ebrei nella vita pubblica ed economica cittadina. Un apparente colpo grazia all’illusione di quieta e proficua convivenza sarebbe arrivato nel 1622, con l’istituzione a Pitigliano di un ghetto in cui avrebbero dovuto confluire tutti gli ebrei abitanti nella cittadina e in quelle confinanti. 
E qui si arriva anche alla nascita dello sfratto dei Goym, o almeno alla sua denominazione. Secondo una leggenda universalmente condivisa, i messi del Granduca avrebbero infatti notificato agli ebrei l’obbligo di lasciare le proprie abitazioni per chiudersi in un ghetto battendo alle loro porte con un bastone. Alla forma di questo bastone si rifarebbe il dolce che ancora oggi viene chiamato, in ricordo di questo evento drammatico, lo sfratto dei Goym (operato cioè dai gentili, i non ebrei). 
Come in tutte le leggende, anche qui la storia presenta qualche lacuna e offre il fianco a qualche riserva. L’autenticità di quanto narrato viene in parte messa in discussione da Nicola Santoro, titolare della Cantina L’Ottava Rima di Sorano (GR) e per anni responsabile e portavoce del Presidio Slow Food che tutela questa delizia dolce.

«Quanto si tramanda è senz’altro probabile e sostanzialmente vero – racconta Santoro, che da tempo sta studiando la storia del dolce tipico locale affiancato dallo storico di Pitigliano Riccardo Pivirotto – ma soffre di una certa approssimazione. Nessuno mette in dubbio ovviamente la storicità dei fatti, ed è certo che la tradizione del dolce sia legata ai drammatici avvenimenti dell’epoca, ma non siamo così sicuri che lo sfratto sia nato proprio a Pitigliano». 
Certo, lo stesso Santoro ammette che quando di parla di un prodotto di successo tutti cercano di attribuirsene la paternità, ma da quanto finora acquisito sembrerebbe che il dolce sia nato in realtà a Sorano e con una precisa finalità. «Oggi della comunità di Sorano sono rimaste poche tracce, tra cui la piccola sinagoga e alcuni nomi di via, ma ci risulta che i primi insediamenti ebraici fossero in realtà avvenuti qui, prima che a Pitigliano». E, proprio qui, pare che la moglie del rabbino preparasse un dolce molto simile a quello che oggi conosciamo. 
«Si dice che per tradizione lo regalasse a chi, per forza o per lavoro, si trasferiva nel vicino borgo di Pitigliano, che nel Seicento stava diventando sempre più importante. Una sorta di ricordo da portare nella nuova casa, insomma». 
La stessa composizione del dolce non avrebbe subito grandi trasformazioni dalla sua formulazione originaria, sulle cui origini ebraiche non si discute, per quanto frutta secca e miele fossero già protagonisti anche dell’antica tradizione etrusca. «In un altro documento, purtroppo andato perduto, ma fino a non troppo tempo fa consultabile nell’archivio di Sorano, si raccontava di un matrimonio tra un cristiano e una ebrea convertita, celebrato in epoca medicea, in cui era stato servito proprio questo dolce». Questa sorta di biscottone ripieno sarebbe quindi esistito ben prima della sua formulazione ufficiale, che risalirebbe ad almeno un secolo dopo l’evento storico dello sfratto.

In compenso, la sua nascita ufficiale sarebbe avvenuta, quella sì, a Pitigliano, alla fine del Settecento. L’occasione? Si volevano festeggiare le innovazioni introdotte da Pietro Leopoldo d’Asburgo, Granduca di Toscana. «A Leopoldo II dobbiamo l’abolizione della pena di morte, primo caso nel mondo, ma anche una certa liberalità nei confronti degli ebrei, che sotto il suo regno potevano finalmente ricominciare a uscire di casa, tra le altre cose, senza l’obbligo di contrassegno sugli abiti».
Attualmente di questo dolce è possibile gustare le versioni più diverse, anche se sono solo due quelle che il Presidio Slow Food intende tutelare, entrambe specificate in un disciplinare. «Da una parte c’è quello senza uova, più legato alla tradizione ebraica che le bandiva e diffuso a Pitigliano – prosegue Santoro – dall’altra quello spennellato superficialmente con l’uovo, meno friabile, diffusosi a Sorano dove gli ebrei non esistevano quasi più e dove c’era quindi una maggiore libertà nel rielaborare la tradizione».

Se poi è vero che lo stesso Presidio nel suo sito indica, insieme alla Cantina di Santoro a Sorano, solo altri due indirizzi, Il forno del Ghetto e Maremma Bakery, entrambi di Pitigliano, va anche detto che non c’è locale (e ovviamente famiglia) che non ne proponga la sua versione “originale”. E, se da una parte qualcosa va senz’altro perduto nella purezza della tradizione, che vuole che siano utilizzati solo pochi ingredienti scelti locali, con farine di grani storici e l’assoluta assenza di lievito, burro e derivati del latte, dall’altra il suo successo ne ha inevitabilmente “corrotto” l’autenticità con l’impiego di prodotti diversi.
Ma anche questo, insieme alla sua diffusione ormai annuale e tra tutta la popolazione, può essere interpretato come un segno di continuità, nonché di quel felice scambio di saperi e sapori che ha segnato la convivenza tra cristiani ed ebrei nella Piccola Gerusalemme maremmana e in tutte le terre del tufo.

Sfratto dei Goym

Ingredienti per 6 pezzi

Per la pasta:
400 g di farina
200 g di zucchero
150 ml di vino bianco secco
40 ml di olio extravergine di oliva
1 uovo (facoltativo)

Per il ripieno:
500 g di miele millefiori
500 g di noci sgusciate
1 arancia non trattata
noce moscata

Per il ripieno, scaldare il miele in un pentolino a fiamma bassa per circa 30 minuti. Nel frattempo, tritare le noci, unirle al miele e mescolare per qualche minuto fino a ottenere una consistenza omogenea.
Togliere il composto dal fuoco e incorporarvi la scorza grattugiata dell’arancia con una grattugiata di noce moscata.
Fare raffreddare il composto al miele finché diventa lavorabile con le mani, poi dividerlo in sei parti e arrotolarle fino a formare 6 bastoncini della lunghezza di circa 25 cm e del diametro di circa 4-5 cm.
Preparare la pasta mescolando la farina setacciata con tutti gli altri ingredienti (escluso l’eventuale uovo), e lavorarli con le mani fino a ottenere un impasto liscio e omogeneo, poi lasciarlo riposare per circa 20 minuti.
Stendere la pasta molto sottilmente e ritagliarla in sei strisce lunghe, quindi adagiare all’interno di ognuna il bastoncino di miele precedentemente preparato. Arrotolare la pasta intorno al ripieno fino a rinchiudervelo completamente.
Spennellare i sei bastoncini ottenuti con un filo di olio emulsionato con poca acqua o, se lo si usa, con l’uovo, poi cuocerli in forno già caldo a 180° per circa 20-25 minuti o comunque finché saranno dorati in superficie. Sfornare e fare raffreddare.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


1 Commento:

  1. Una narrazione fluida quanto limpida che ci riporta in epoche feroci, dove l’istituzione di una tradizione popolare culinaria rivela la possibilità che comunità religiose di persecutori e perseguitati possano sfuggire alle leggi demoniache della ferocia pontificia e gustare insieme un dolce simbolico, che mentre rivela il misfatto lo scuoce nel miele..Grazie alla splendida Autrice!


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