Hebraica
Stregoneria ebraica: nuova spiritualità esoterica fra tradizione e sincretismo

Viaggio tra pratiche magiche, identità ed esclusione

La pratica della magia come formula di ricerca spirituale ha raggiunto, negli ultimi anni, una rinnovata prominenza mediatica, complice l’utilizzo oramai capillare e universale dei social network, che costituiscono una piattaforma essenziale per la condivisione e l’alfabetizzazione nei saperi esoterici. Certo, nell’ammasso colossale di informazioni sta al senso critico di ciascuno discernere il buono dal fake – e il rischio di cadere nelle trappole truffaldine della superstizione e del complottismo non è affatto scongiurato. Tuttavia, sedi come Instagram e TikTok si stanno rivelando un ambiente fertile per chi – soprattutto giovani e giovanissimi, nativi digitali – percepisce il richiamo del sacro, del misterico e del misterioso e che non trova risposte nei canali ortodossi o ufficializzati della società contemporanea occidentale, così fortemente secolarizzata da aver circoscritto la religione a monoteismo etico e la religiosità a performance identitaria privata. In questo contesto, l’universo variegato del giudaismo non si esime dall’offrire una propria versione del fenomeno con realtà spirituali, sorte negli ultimi vent’anni negli Stati Uniti e in Israele, quali il neopaganesimo semitico e la jewitchery. Stregoneria e paganesimo ebraico suonano assai contradditori come concetti: come può la teologia del Dio solo e unico coesistere con una pratica spirituale per cui gli elementi naturali sono oggetto sacro di culto?

La Bibbia parla chiaro, condannando religiosamente pratiche caratteristiche della stregoneria quale la divinazione, come da Levitico 19:31: “Non rivolgetevi a spiriti o fantasmi; se li cercate correrete il rischio di incorrere in impurità” (אַל-תִּפְנוּ אֶל-הָאֹבֹת וְאֶל-הַיִּדְּעֹנִים אַל-תְּבַקְשׁוּ לְטָמְאָה בָהֶם). Eppure, a ogni norma segue una violazione eccellente. È il caso dell’episodio narrato nel primo libro di Samuele al capitolo 28, dove il re Saul prima emette un decreto che sancisce la pena di morte per chi pratichi la negromanzia (cioè la consultazione degli spiriti dei morti per ottenere conoscenze ulteriori) ma poi, in preda all’indecisione sulle prossime mosse militari nella guerra contro i Filistei, si risolve a consultare lo spirito del defunto profeta e consigliere regale Samuele con l’aiuto di quella che viene tradizionalmente definita la “strega di Endor” – e che altro non è che una medium, ovvero una “donna che ci sa fare con gli spiriti”, nel testo (אֵשֶׁת בַּעֲלַת-אוֹב).

Anche la letteratura successiva tenderà a condannare le pratiche magiche ad opera delle donne (quella del genere, d’altronde, sembra essere una delle caratterizzazioni della stregoneria come fenomeno quasi universale). Un esempio notevole – anche se storicamente improbabile – di vera e propria caccia alle streghe è accennato nel trattato Sanhedrin (6,6) della Mishnah. Qui rabbi Shim‘on ben Shetach, a capo del sinedrio (siamo presumibilmente a cavallo tra il II e il I secolo a.e.v.), giudica e condanna a morte, nel giro di una sola giornata, ben ottanta donne di Ashkelon, sulla base dello statuto per cui chi “divina con spiriti e fantasmi” è passibile di pena capitale per lapidazione (vedi Mishnah Sanhedrin 7,4). Ma presso i rabbini della tarda antichità, soprattutto per quelli stazionati sulle rive di Babilonia, l’uso della magia non è incompatibile con il giudaismo. Nel Talmud Babilonese, infatti, troviamo numerosissime testimonianze e prontuari di pratiche magiche, dagli incantesimi contro i demoni del gabinetto alla creazione dal nulla, per solo potere della parola, di vitelli-golem con cui banchettare dopo la vigilia di studio sabbatico. Tuttavia, non tutta la magia è lecita: nella letteratura rabbinica troviamo infatti l’espressione darke ha-emori, “gli usi degli Amorrei”, a indicare che una determinata pratica contiene tracce di paganesimo ed è perciò vietata per gli ebrei. Quella con la magia, nell’ebraismo, sarà una lunga storia di negoziazione tra teoria e pratica, tra ortodossia e polifonia di opinioni e usi. Nel corso del medioevo, con l’emergere della Qabbalah, ossia la tradizione mistica ebraica, la magia si rafforzerà come componente performativa di religione ebraica, non semplicemente relegata al folklore ma consacrata a oggetto della cultura intellettuale.

Si può dunque parlare, storicamente, di stregoneria ebraica? Il problema sta nelle definizioni, più che nei contenuti. È vero infatti che ebrei e streghe (intese come coloro accusate di essere tali dall’establishment cristiano nel Cinque- e Seicento) sembrerebbero avere in comune almeno due questioni, che si radicano in una terza: ebrei e streghe fanno uso di magia e sono (in virtù di questo o anche per questo) perseguitatima tale persecuzione si origina in fondo nella loro “alterità”, ossia nell’essere percepiti come rappresentanti del “diverso” all’interno di una società: le streghe perché non-maschi e gli ebrei perché non-cristiani. Al di là di questa sorte condivisa di soprusi, la definizione che va chiarita è quella di “stregoneria”. Se ci si riferisce al particolare periodo storico della caccia alle streghe, la stregoneria è un costrutto culturale tutto cristiano. Ciò significa che, sulla base dei documenti pervenuti, ci è possibile ricostruire l’immagine della stregoneria come veniva concepita, costruita e immaginata da chi, come gli inquisitori, vi si opponeva in una spietata guerra culturale. La vera natura delle credenze e pratiche di chi veniva accusato di stregoneria, invece, rimane spesso nell’ombra – e, in ogni caso, va ricordato che si trattava una costellazione di idee e gesti così ricca da non poter essere facilmente ricondotta a una corrente culturale uniforme sotto il nome della quale i singoli (o meglio, le singole) potessero identificarsi. In altre parole: “stregoneria” è un concetto sviluppato dall’esterno, da chi “strega” non è. Il tutto senza negare che pratiche e correnti incentrate sull’attività magica esistessero e siano anzi ricostruibili dagli storici e dagli antropologi.
Il definirsi “streghe” è quindi un fenomeno piuttosto moderno, nato con le nuove forme di spiritualità esoterica della seconda metà del XX secolo (come la wicca), a loro volta spesso ispirate dai revival romanticizzanti dell’occulto del tardo Ottocento. Nella stregoneria come fenomeno spirituale contemporaneo, a spiccare è la caratterizzazione “di genere”: non solo nella demografia di chi vi aderisce ma anche nella mitologia alla base della pratica. Le istanze femministe novecentesche si intersecano variamente con la teologia della “dea madre” in quanto alternativa al monoteismo patriarcale. Se inizialmente il punto di riferimento speculare contro cui innestare una rivoluzione dello spirito era il cristianesimo, negli ultimi anni i confini da mettere in discussione si sono allargati in termini di religione (vedi il caso della stregoneria ebraica) e di espressioni di genere (con il successo del neopaganesimo presso il mondo queer).

Anche per il versante giudaico, la culla per il fiorire di una stregoneria ebraica sono gli Stati Uniti, da cui spesso si estendono ramificazioni in Israele ed Europa. Le correnti principali in cui questi variegati fenomeni di spiritualità ebraica prendono forma sono due, strettamente connesse ma non esattamente sinonimiche: il neopaganesimo semitico e la jewitchery. Nella prima tendenza rientrano quei gruppi – come gli AmHA o Am ha-Aretz (“la gente della terra”) – che si rifanno al pantheon delle religioni dell’antica Canaan e in particolare al culto di Asherah, che ben si presta a fungere da dea madre riesumata dal passato semitico.
L’elemento pagano – e quindi, poiché idolatra, inerentemente anti-giudaico – è meno presente nei movimenti di tendenza più propriamente stregonesca, e quindi orientati più alla pratica magica individuale che alla ritualità strutturata del neopaganesimo. Le jewitches (crasi di Jewish witches, “streghe ebree” in inglese) sono difatti pienamente coscienti della propria identità ebraica, che nutrono dell’esperienza magica personale e collettiva – esperienza magica che viene percepita come anello di continuità nella catena della tradizione ebraica, già forte di precedenti eccellenti come incantamenti talmudici e meditazioni cabalistiche.
Che si tratti di movimenti strutturati o di iniziative spontanee di spiriti inquieti alla ricerca di spunti mistici nell’oceano della rete, la stregoneria ebraica si configura come un fenomeno di sincretismo, ovvero di fusione e amalgama elementi originariamente pertinenti a espressioni culturali differenti che si trovano ad entrare in contatto: la ritualità a base di incantesimi, sigilli e divinazioni simboliche dell’occultismo occidentale contemporaneo, la teologia polimorfica dell’ebraismo, l’anima politica riformista del femminismo. Come spesso accade nelle forme di spiritualità esoteriche, la struttura sincretica su cui si costruiscono prassi e teoria viene ricondotta ideologicamente, a posteriori, a una tradizione ancestrale – nel nostro specifico, alla familiarità ebraica con la magia.

Questo senso identitario (sia esso religioso, etnico, linguistico) che permea la pratica esoterica sta acquisendo crescente rilevanza nel discorso culturale, soprattutto americano. Il problema dell’appropriazione culturale (l’adozione, cioè, di certi elementi propri di una cultura minoritaria da parte di una cultura dominante, con il risultante impoverimento e caricaturizzazione della prima) sta scuotendo anche il mondo dei praticanti occulti. Ad esempio, chi può praticare il voodoo, espressione culturale haitiana? Allo stesso modo, chi ha diritto di occuparsi di Qabbalah? Le risposte tendono spesso alla circoscrizione della liceità su base identitaria: per non fare danno a una cultura che non è la propria, meglio non servirsi acriticamente di alcuni suoi aspetti. Ma, se l’ammonizione a usare senso critico – e dunque consapevolezza e rispetto del contesto culturale e storico in cui gli atomi di tale sistema hanno visto la luce – nel creare il proprio sistema di pratica occulta è sempre un buon consiglio, rimane alto il rischio di chiudersi in miriadi di ghettizzazioni identitarie. Questa tendenza è comprensibile nella società americana e suona forse lontana, anche se di moda, nella cultura europea. L’exploit della stregoneria ebraica, per quanto di nicchia, rimane un monito alla comprensione di come culture, sotto-culture e contro-culture, in ciascun momento storico, nascano dal contatto di sistemi, idee e azioni differenti, a volte confinanti ma a volte remote e apparentemente inconciliabili. Per parafrasare il dr. Ian Malcolm di Jurassic Park: il sincretismo vince sempre.

Ilaria Briata
Collaboratrice

Ilaria Briata è dottore di ricerca in Lingua e cultura ebraica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha pubblicato con Paideia Editrice Due trattati rabbinici di galateo. Derek Eres Rabbah e Derek Eres Zuta. Ha collaborato con il progetto E.S.THE.R dell’Università di Verona sul teatro degli ebrei sefarditi in Italia. Clericus vagans, non smette di setacciare l’Europa e il Mediterraneo alla ricerca di cose bizzarre e dimenticate, ebraiche e non, ma soprattutto ebraiche.


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