Si tratta del comandamento di adunare tutti, l’intero ‘am Israel con i suoi stranieri, ogni sette anni, immediatamente dopo l’anno del riposo della terra e della remissione dei debiti, o anno sabbatico, per una seduta speciale di ascolto e di apprendimento della Torà, come atto di sottomissione a Dio
Scavando nel contesto della festività di Sukkot si (ri)trova anche la poco nota mitzwà dell’haqhèl, traducibile come ‘raduno’ o ‘convocazione’ dal verbo qahal, chiamare/riunire/assemblare, che leggiamo in Devarim/Dt 31,10-12: “Mosè dette loro questo ordine: Al termine dei sette anni, nel tempo della remissione [shenat ha-shmittà], durante la festa di Sukkot, quando tutto Israele verrà a presentarsi davanti al Signore tuo Dio nel luogo che avrà scelto, leggerai questa legge al cospetto di tutto Israele in modo che essa la odano. Convoca [haqhèl] il popolo, uomini, donne, bambini e il forestiero che abita nelle tue città [gherkha asher besha‘arekha], affinché ascoltino e affinché imparino e temano il Signore vostro Dio e osservino, per attuarle, tutte le parole di questa legge”. Si tratta del comandamento di adunare tutti, l’intero ‘am Israel con i suoi stranieri, ogni sette anni, immediatamente dopo l’anno del riposo della terra e della remissione dei debiti, o anno sabbatico, per una seduta speciale di ascolto e di apprendimento della Torà, come atto di sottomissione a Dio. Dopo ogni settimo anno, a Sukkot, significa, a ben calcolare, “ogni ottavo anno”. E’ Maimonide, nel suo Mishnè Torà, a parlare di ottavo anno. Dunque il giudaismo ben conosce l’apertura del ciclo settenario, che è ad un tempo chiuso-e-aperto, che mentre chiude immediatamente riapre… L’haqhèl è una mitzwà positiva legata al tempo, sebbene ricorra ‘solo’ ogni sette anni, e quel tempo è be-chag ha-sukkot, nella festività delle capanne.
Questa mitzwà poneva (e pone) un problema dal punto di vista rabbinico: se è una mitzwà positiva legata al tempo, e allo spazio sacro del Tempio, secondo l’halakhà le donne ne sono esentate; a maggior ragione bambini e gherim, questi ultimi difficilmente identificabili come i ‘convertiti’ del giorno d’oggi e che più semplicemente erano gli stranieri, ossia i non ebrei o non membri di tribù ebraiche, che abitavano nella terra di Israele ed erano pertanto soggetti alle leggi generali e al calendario delle feste di Israele. Ma il testo biblico dice esplicitamente: uomini, donne, bambini e il ‘tuo straniero’ che abita nelle tue città. Ecco perché il Talmud Bavli ne tratta là dove parla dei doveri delle donne (TB Qiddushin 34a-b) e delle regole di chi è ammesso nei cortili del Tempio e ha l’obbligo di ‘farsi vedere’ e presentare offerte (TB Chaghigà 3a). [Bella coincidenza che questi siano i due ultimi trattati talmudici tradotti in italiano, editi da Giuntina e entrambi curati dal rav Riccardo Di Segni]. In Qiddushin la discussione verte proprio sull’esclusione delle donne, o almeno sull’estensione di quell’esclusione, dalle mitzwot positive legate al tempo, e avanza il caso dei precetti di mangiare la matzà e dell’haqhèl, obblighi che ricadono anche sulle donne. Se intesi come eccezioni, questi casi inficiano la regola? Come vanno usati i supporti testuali quando alcuni esentano e altri obbligano lo stesso soggetto, in questo caso le donne? All’haqhèl e alla matzà sono obbligate, ai tefillin e alle offerte al Tempio sono esentate… Il fatto che i maestri del Talmud ne discutano, con opinioni diverse, la dice lunga sulla complessità della questione femminile da un punto di vista halakhico. In Chaghigà si narra specificamente di una omelia di rabbi Elazar ben Azaryà sulla mitzwà dell’haqhèl, il cui tema sono i bambini – esentati da obblighi halakhici – e che tuttavia sono anch’essi convocati nei cortili del Tempio per studiare e imparare. Sottinteso: qal wachoner, a maggior ragione, le donne. Rabbi Yehoshua elogia gli insegnamenti di rabbi Elazar, chiamandolo “perla della sua generazione”.
A chiarirci le idee su cosa fosse questa mitzwà durante Sukkot nell’ottavo anno (di fatto, due settimane dopo la fine di Shmittà) ci aiuta Mosè Maimonide nel suo codice Mishnè Torà, non a caso nelle Hilkhot chaghigà il cui capitolo terzo è tutto dedicato all’antica prassi dell’haqhèl. Antica, perché da quando non c’è più il Tempio, e da quando non c’è più un re in Israele, essa è stata – per così dire – sospesa. Certamente più informato di noi, il Rambam dice che il rito inaugurava i giorni intermedi della festa (techilat iemè chulò shel mo‘ed) e si svolgeva così: in tutta Geruslaemme venivano suonate le trombe per radunare il popolo; un’alta piattaforma in legno veniva montata nel cortile delle donne (ovviamente, visto che in quello degli uomini esse non potevano entrare); il re vi prendeva posto e da lì, preferibilmente in piedi, leggeva lunghi brani di Devarim/Dt; il sefer da cui leggeva veniva portato da un chazan ha-knesset e consegnato al vice-sommo sacerdote, che lo passava al sommo sacerdote e questi da ultimo lo consegnava nelle mani del re. Il re diceva le berakhot prima e dopo la lettura… Insomma, il Rambam immagina quel rito come un rito sinagogale, tanto è vero che insiste nel ricordare l’obbligo di leggere il sefer Torà e dire le berakhot in ebraico. Nel XII secolo si poteva ben retroiettare sulla vita del primo Tempio – epoca di Ezechia, di Giosia? chissà… – gli usi rabbinici. Un anacronismo? Poco importa. Straordinario è che, quasi duemila anni dopo, il precetto mosaico sia ancora ricordato, codificato e studiato, come se dovesse svolgersi ora, con dovizia di dettagli. Tra questi non sfugge il fatto che gli stranieri potessero non capire l’ebraico: nondimeno, dice il Rambam, dovevano metterci l’attenzione del cuore, poiché il senso del rito va oltre le parole che lo performano.
Persino i grandi maestri, che conoscono la Torà a memoria, devono prestare la più grande attenzione. Gli anacronismi del Rambam, invece di indebolire, rafforzano l’originalità di questo precetto sospeso. In pieno XIII secolo, il Sefer ha-chinnuk – attribuito ad Aaron Halevi – riprenderà pari pari le norme tramandate dal Maimonide. Dunque, eccoci nel meccanismo che spiega la continuità della vita ebraica: dalla Torà di Mosè ai tannaim, dalla ghemarà ai codificatori halakhici mediaveli. Eccoci nella complessità del giudaismo: le sue feste (chaghim) e i suoi tempi speciali (mo‘adim) nel loro connettersi con gli spazi sacri della terra – del Tempio – e con le componenti, non meno sacre, della società (uomini e donne, anziani e bambini, sacerdoti e re), non escludendo neppure gli incirconcisi che abitano ‘in Israele’, che a Sukkot erano e somo ammessi, quasi obbligati ad ascoltare anche loro la Torà dalla bocca del re. Non del sacerdote ma del re, ossia del potere politico. Il re era unto in quanto scelto da Dio per guidare il popolo. Oggi il re, fatte le debite traslazioni, è lo stato di Israele, una grande malkhut tenuta, almeno simbolicamente, alla mitzwà della sukkà, quando residenti e ospiti – gherim, stranieri, e ushpizin, aramaico per i sette ‘padri fondatori’ – sono invitati a condividere il bene più prezioso, la Torà, che tutti senza distinzione di sesso, di età, di etnia, di status sociale, di fede devono/possono ascoltare. Nel tempi antichi la Torà fungeva da costituzione dello stato, da magna charta dei principii e delle leggi di Israele; se si preferisce, era l’equivalente della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; di conseguenza l’haqhèl era una specie di ‘stati generali’ per ricordare a tutti il patto del Sinai e il valore erga omnes della legge divina. Che questo rito si svolgesse proprio a Sukkot, quando Israele offriva nel Tempio ben settanta sacrifici per i settanta popoli della terra, conferma il senso complessivo dell’haqhèl, comandata da Moshè rabbenu prima che il popolo entrasse in eretz Israel. Mitzwà sospesa, non abolita; sospesa, mai dimenticata; sospesa, ma necessaria oggi che abbiamo uno stato e una società ‘israeliani’ come lo era al tempo della monarchia.
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma
Complimenti per il vostro lavoro, articolo molto interessante perché argomento poco trattato che descrive profondamente i concetti del credo dell’ebraismo.