Cultura Cinema
“The Jewish Soul”, dieci perle del cinema yiddish in un cofanetto

Un prezioso lavoro di restauro e recupero di alcune tra le migliori pellicole girate tra New York e la Polonia nei primi decenni del ‘900

Non sono semplici film, i lungometraggi della raccolta The Jewish Soul – Ten Classics of Yiddish Cinema , ma una preziosa miniera di informazioni e testimonianze sulla cultura e lingua yiddish. Sono anche l’esempio di un cinema, prodotto con pochi mezzi tra l’America e la Polonia per il mercato ebraico internazionale, che sarebbe pressoché scomparso con la guerra.
Il cofanetto, distribuito dalla Kino Lorber e recensito entusiasticamente su Forward, raccoglie classici yiddish prodotti tra gli anni Trenta e Quaranta tra New York e Varsavia come i notevoli The Dybbuk del 1937, Tevya di Maurice Schwartz (un precursore del 1939 del musical del 1964 Fiddler on the Roof – Il violinista sul tetto) e Overture to Glory di Max Nosseck, oltre a film meno conosciuti come Her Second Mother o Eli Eli, tutti del 1940. Complessivamente sono cinque dischi Blu-Ray, ciascuno dei quali contiene due film, restaurati dalla Lobster Films di Serge Bromberg, commentati e provvisti di nuovi sottotitoli in inglese che sostituiscono le traduzioni precedenti, diventate ormai illeggibili.

Fiore all’occhiello dell’intera raccolta, nonché il più lungo (ben 123 minuti), The Dybbuk di Michal Waszynski è una storia di possessione e rientra tra i primi film horror della storia del cinema. Traboccante di fascinosi amanti, saggi zaddiq, magia cabalistica e misteriosi rituali, con una colonna sonora inquietante, rappresenta secondo chi se ne intende il meglio del cinema yiddish, concentrandone generi, stili e attori.
Girato nella Polonia prebellica come adattamento di un’opera teatrale di S. Ansky basata sul folklore ebraico dell’Europa orientale, viene considerato a posteriori come un presagio dell’Olocausto. A sviscerarne i significati più profondi ci pensa nei commenti J. Hoberman, critico per The Village Voice e autore di un autorevole libro sul cinema yiddish, Bridge of Light. L’edizione del disco prevede sia la versione completa dell’opera, la più nota, sia l’edizione tagliata di 99 minuti, forse migliore.

Tra gli altri titoli della raccolta, perlopiù film a basso costo ma non per questo meno interessanti, American Matchmaker (1940) di Edgar G. Ulmer è una interpretazione yiddish delle commedie hollywoodiane dell’epoca, zeppa di canzoni e con una star protagonista, Leo Fuchs, considerato il Fred Astaire yiddish, che maschera sotto la figura accattivante di un eterno scapolo diversi riferimenti all’omosessualità. Nel suo commento, Eve Sicular, musicista klezmer e storica dei film queer yiddish, ne mette in luce i doppi sensi sottolineando i modi irriverenti con cui l’opera aggira il codice di censura Hays.
Apparentemente minore anche il film americano del 1939 Motel the Operator di Joseph Seiden, che firma, nella stessa raccolta, anche Three Daughters, Eli Eli e Her Second Mother. Dramma sindacale che si trasforma in tragedia prima di giungere all’inaspettato lieto fine, Motel the Operator acquista un valore in più se guardato con gli occhi di Allen Lewis Rickman, attore, drammaturgo, regista e traduttore (ha curato i nuovi sottotitoli).

Oltre a firmare un saggio introduttivo al cinema e alla cultura yiddish nel libretto che accompagna il cofanetto, Rickman interpreta questo e gli altri film come una sorta di macchina del tempo, capace di catturare la vita e i costumi dell’epoca. Parlando di ogni membro della troupe e del cast come se fossero di famiglia, ne porta in luce le storie personali inserendole nel contesto dei principali eventi del mondo ebraico della prima metà del XX secolo, dai pogrom all’emigrazione, dall’Olocausto alla nuova vita in America, la politica del lavoro e la causa sionista.
A proposito di realismo e realtà, la raccolta include anche un docudrama polacco del 1936, Mir Kumen On di Aleksander Ford. Andato perduto e miracolosamente recuperato unendo frammenti di copie conservate in archivi e musei di tutto il mondo, il film è stato girato presso un sanatorio vicino a Varsavia, che dal 1926 al 1939 ha curato migliaia di bambini ebrei provenienti da famiglie povere dell’area urbana. Mostra i piccoli ospiti colti nei diversi momenti della giornata, mentre mangiano, si prendono cura dei loro animaletti domestici o fanno ginnastica al sole. Una testimonianza straziante se si pensa a quale sarà il loro destino. Molti di loro, cresciuti all’inizio della guerra, finiranno poi nel ghetto di Varsavia e parteciperanno alla rivolta. Nel 1942, il personale e i bambini rimasti al sanatorio saranno deportati nel campo di sterminio di Treblinka.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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