Cultura
Torino Film Festival: i film del Premio Interfedi

Un premio per i film di rilevante qualità artistica che danno voce a ogni tipo di minoranza, favorendo il riconoscimento dei diritti, la partecipazione e l’integrazione. Il vincitore di questa edizione è “Amen” di Andrea Baroni

Nell’ambito del Torino Film Festival, una rassegna giunta oggi alla 41a edizione e che anno dopo anno si arricchisce, esiste dal 2013 un premio collaterale attribuito dalla Giuria Interfedi. Ne fanno parte le locali comunità valdese, ebraica e il comitato interfedi, i cui rappresentanti conferiscono un “Premio per il rispetto delle minoranze e per la laicità” a un film tra quelli presentati al festival di rilevante qualità artistica che dia voce a ogni tipo di minoranza, favorendo il riconoscimento dei diritti, la partecipazione e l’integrazione; combatta discriminazione e pregiudizio; promuova tolleranza, laicità e rispetto delle libertà e delle responsabilità individuali. Quelli che seguono sono i nove film selezionati a concorrere per il premio quest’anno, dei quali “Amen”, il vincitore, è stato premiato sabato sera 2 dicembre, durante la cerimonia di chiusura del festival.

LOS COLONOS di Felipe Gálvez Haberle (Argentina/Cile/Uk/Taiwan/Germania 2023, 97’)

Western anticoloniale ambientato nel Cile di inizio Novecento, dove una spedizione di bianchi si propone di sterminare e cacciare gli indios dalle terre di un grande latifondista. È il romanzo sulla nascita di una nazione, ma a quale prezzo? Opera d’esordio che non lascia indifferenti, dalla regia solida e di grande pregio artistico. La fotografia riesce a catturare con sfocature e insistenza sui colori pastello i panorami della Patagonia cilena, stretta tra i contrafforti delle Ande e l’oceano Pacifico. La colonna sonora, fatta più di silenzi che di rumori (peraltro tutti prodotti dai bianchi), accompagna lo svolgimento dei fatti. In generale gli indios sono muti, privati perfino della parola, ridotti a meri oggetti in balia della violenza dei coloni. La scena dell’attacco al campo indiano all’alba ricorda l’episodio memorabile di Piccolo grande uomo in cui Custer guida il massacro del Washita River, ma al contrario di questa avviene nel totale silenzio, fucilate a parte. Mentre però i western “dalla parte degli indiani” degli anni sessanta e settanta intendevano mostrare una vicenda da un punto di vista nuovo, quello degli sconfitti, denunciando l’esclusività della narrazione dei vincitori, qui l’ideologia frutto della vulgata degli studi post-coloniali pervade ogni spazio e ogni dettaglio, relegando le sfumature esclusivamente alla meravigliosa fotografia. Ed è questo il principale limite di un film in fin dei conti sottilmente populista. Da una parte vediamo gli indios che hanno un rapporto intimo e armonico con la natura e gli animali; dall’altra i bianchi (siamo in Cile, ma significativamente i due personaggi parlanti principali sono anglofoni, un inglese e un americano) il cui modello di civiltà è descritto come radicalmente negativo, fondato sull’esercizio della violenza nelle sue diverse forme e addirittura ontologicamente corrotto. Non si sottrae a questo schema oggi già vetusto, anche se molto à la page, il finale in cui subentra lo stato con la sua giustizia, i suoi funzionari e la sua burocrazia. La domanda che viene lasciata allo spettatore è se ci sia differenza, e quale, tra la violenza anarchica degli avventurieri e quella composta delle istituzioni. Peccato che in un film bello e dogmatico come questo il regista non resista alla tentazione di rispondere.

GIRASOLI di Catrinel Marlon (Italia, 2023, 97’)

Nel reparto minorile di un ospedale psichiatrico dell’Italia degli anni Sessanta, la giovane infermiera Anna si lega sempre più a una giovane paziente schizofrenica. Non è il primo film sui manicomi prima della legge Basaglia, eppure riesce a commuovere, soprattutto nelle scene in cui l’inesperta Anna offre un modello di relazione con i “matti” che i professionisti non hanno mai adottato. La regia è però debole, in un’opera prima che cade nel più classico degli errori, quello di voler mettere troppa carne al fuoco (a un certo punto sbuca anche l’attrazione omoerotica). Artisticamente convenzionale con alcuni evidenti bug nella sceneggiatura, per esempio quando la quindicenne schizofrenica che dall’età di 7 anni è rinchiusa nel manicomio-carcere, dove non ha avuto naturalmente alcuna possibilità di istruzione, scrive una meravigliosa lettera piena di lirismo. Anche la performance attoriale lascia a desiderare, Monica Guerritore a parte. Rimane il tema del doppio; la domanda su chi sia ad aiutare e chi a essere aiutato in un contesto al contempo quotidiano ed estremo; e soprattutto la capacità di fare piangere, e non è poco.

NOTRE CORPS di Claire Simon (Francia, 2023, 168’)

Un documentario girato nel reparto di ginecologia di un ospedale parigino in cui vediamo uno dopo l’altro donne spesso giovani che vogliono interrompere la gravidanza oppure non riescono ad avere figli, casi di disforia di genere, di tumore eccetera. L’argomento è interessante, ma dal punto di vista strettamente artistico il film è irrilevante. Cosa più grave, se l’arte come voleva Michelangelo è la capacità non di aggiungere ma di togliere, questo film non può essere considerato opera d’arte riuscita: in assenza di azione e di qualsivoglia sviluppo, quasi tre ore sono decisamente troppe.

SOLEILS ATIKAMEKW di Chloé Leriche (Canada, 2023, 103’)

Nel 1977 in Québec un incidente d’auto costa la vita a cinque nativi, mentre due bianchi si salvano. La polizia chiude frettolosamente le indagini, ma le famiglie delle vittime restano in attesa di giustizia. L’unico pregio di un film trascurabile è l’interesse documentaristico nel descrivere dall’interno la vita di una comunità di nativi disagiata di fronte a un dolore che è sia individuale sia collettivo. Così sfugge all’anacronismo in cui cadono invece opere nel complesso migliori come Los colonos e Girasoli, in cui il punto di vista del regista occupa ogni spazio. Purtroppo però il film è noioso.

AMEN di Andrea Baroni (Italia, 2023, 89’), vincitore del Premio Interfedi 2023

In una isolata casa di campagna una famiglia vive sulla base di una forma autoprodotta e integralista di religione cristiana. Confessione comune, peccato, sofferenza e repressione totale della sessualità sono le cifre dell’istruzione religiosa somministrata dalla nonna alle tre nipoti. Un giorno arriva un cugino tutt’altro che brillante, ma è sufficiente a mandare in tilt ogni equilibrio, precipitando la vicenda verso un finale inevitabilmente tragico. Il film è molto curato, forte di una fotografia lirica suggestiva che contorna i corpi umani e la natura giocando con le luci e le ombre e i contrasti tra esterni e interni emblematici dei confini innalzati da ogni comunità quando cerca di definire sé stessa. L’autoisolamento completo orientato da un’ideologia religiosa fondamentalista è destinato a fallire, come si capisce fin da subito, ma qui il senso del fato che incombe è molto più importante della sorpresa. Il fanatismo può rendere qualsiasi cosa un idolo, a partire dalla Bibbia e da una serie di convinzioni assurte a dogma; su questa base si innesta una religiosità confezionata in proprio, sorta di spiritualità fai-da-te che costituisce un grave problema della nostra epoca. È il senso della scena in cui Ester, una delle giovani, rimprovera alla nonna di proporre sempre e soltanto alcuni passi selezionati e decontestualizzati della Bibbia – e letti in un certo modo, aggiungiamo noi. Nel finale la scena del padre che tira coltellate, alternata a quella delle donne in interno richiama uno dei classici esempi del montaggio sperimentale di Eisensteijn, dal film Sciopero (il famoso “montaggio analogico” di fantozziana memoria), con la delicatezza di non arrivare a scimmiottarlo. Da non perdere.

THE QUIET MIGRATION di Malene Choi (Danimarca, 2023, 102’)

Il titolo originale, Stilleben (natura morta), rende molto meglio l’idea di un film colmo di silenzi. Fa anche capire meglio del titolo internazionale (l’equivalente inglese Still Life non andava bene?) la natura fredda di un’opera che sembra realizzata da qualcuno che ama il cinema e che ha visto tanti film. In altre parole un film intellettuale, probabilmente troppo, a cui manca la freschezza dell’improvvisazione. La storia è quella di Carl, un ragazzo sudcoreano adottato da genitori danesi, con cui vive in una prospera fattoria di campagna. Il tema della lontananza è sottolineato dal monolite proveniente dallo spazio. Quelli di una domesticità voluta e non voluta e di una socialità nordica, accentuati dalla posizione della camera, tenuta a lungo a un metro o poco più di altezza dal suolo come usava fare Yazujiro Ozu nei suoi capolavori oppure Chantal Akerman nel film manifesto del femminismo Jeanne Dielman. La sensazione è che in questo film ci sia qualcosa, ma non è tanto chiaro che cosa. Il dubbio è che la cosa più riuscita rimanga il titolo (originale).

OLTRE LA VALLE di Virginia Bellizzi (Italia, 2023, 80’)

A Clavière, località sciistica di confine della valle di Susa a un chilometro dal colle del Monginevro, arrivano i migranti che vogliono passare dall’Italia in Francia. L’argomento è attualissimo, ma questo documentario si spegne un po’ alla distanza, mentre ci accorgiamo che i veri protagonisti sono gli operatori che aiutano i migranti, non i migranti. La voce fuori campo che di tanto in tanto interviene a commentare le vicende, oltre a essere paternalistica è anche inutile. Interessante ma non originalissimo il tema del confine simboleggiato dalle belle montagne dell’alta valle che la regista mostra in tutte le stagioni. Proprio sopra Clavière lo Chaberton, la cui cima supera i 3100 metri, conserva oggi i resti di un ampio sistema di fortificazioni militari che in misura minore corrono lungo tutto il confine francoitaliano, a ricordare le guerre combattute nel secolo scorso sulla spinta degli opposti nazionalismi. Monito per chi oggi a tutti i livelli non si stanca di soffiare sul fuoco del patriottismo (o sovranismo) “ultimo rifugio delle canaglie”. Il film rimane poca cosa: documento, non opera d’arte.

MANDOOB di Ali Kalthami (Arabia Saudita, 2023, 111’)

Fino a sei anni fa in Arabia Saudita non c’erano cinema perché vietati. Tutto nella cinematografia saudita è dunque nuovissimo, espressione di un paese patria di alcune delle forme peggiori di integralismo e terrorismo islamista, per esempio il wahabismo o Al Qaeda, e tuttavia in rapido cambiamento, anche se è da valutare quanto questo interessi l’immagine che lo stato vuole dare di sé e quanto i diritti delle persone. Kalthami racconta la vicenda di un corriere (mandoob in arabo, parola che ha però anche altri due interessanti significati, come scopriamo durante la visione) nella capitale Riyadh, metropoli ipermoderna edificata nel deserto con i fantasmagorici proventi del petrolio. Vediamo estremo benessere in un contesto di prevalente tradizionalismo ma anche zone d’ombra di trasgressione e delinquenza sotto i lussuosi grattacieli di design e le gigantesche autostrade illuminate. Come in Taxi Driver, con cui esistono diversi elementi comuni, l’aspetto più interessante è forse proprio la relazione tra il protagonista e la città, che vediamo costantemente in notturna. Un film forse non geniale, ma ben costruito e piacevole.

BIRTH di Jiyoung Yoo (Corea del Sud, 2023, 155’)

Una giovane coppia – lei scrittrice, lui insegnante in una scuola di inglese – vive felice fino a quando arriva una gravidanza inaspettata che un po’ alla volta fa precipitare tutto. Detto così può significare poco, ma la verità è che la giovane regista coreana Jiyoung Yoo è autrice di un autentico capolavoro, che non è stato premiato dalla Giuria Interfedi esclusivamente per la minore attinenza al tema che il premio si propone di valorizzare rispetto al pure ottimo Amen. La situazione è perfettamente tragica come nei migliori esempi del teatro classico, una situazione in cui tutti i protagonisti hanno contemporaneamente sia ragione sia torto e più cercano di agire più sprofondano nelle sabbie mobili. Lei vuole abortire, lui invece vorrebbe un figlio. È lecito parlare di egoismo dell’una o dell’altro? Le cose sono tragicamente più complesse di così. Lui ha un sogno: una famiglia, un mestiere, la realizzazione propria e della persona a cui vuole bene. Lei forse non ne ha, né per sé né per gli altri: ha la libertà di non averne, e fare semplicemente quello che la fa stare bene? Ha la libertà di ubriacarsi durante la gravidanza, mentre lui a sera sistema la casa e lava i piatti sporchi? E quando lui porta a casa peluche e giocattoli per il bimbo che nascerà è segno di amore o violenza? Il libro che lei sta scrivendo e la gravidanza – l’arte e la vita – si chiede la regista, sono opzioni incompatibili o possono essere comprese in una sintesi, e se sì a quale prezzo? Alla fine sarà lui, non lei, a compiere un’azione di rivolta che costa cara, per finire chiedendosi quale sia la cosa migliore – forse ormai l’unica – che può fare per lei. Un’opera splendidamente realizzata (notevole la colonna sonora minimalista, bravi gli attori, interessanti perfino i titoli di coda) che si interroga sulla libertà, la responsabilità individuale, l’amore in bilico tra egoismo e altruismo.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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