Cultura
Un Dio che piange: la figura della divinità nel midrash

Nel midrash assistiamo all’incontro tra i rabbini e il testo biblico. Qui, Dio è un soggetto che entra in relazione con il mondo, cioè con la creazione e con le sue creature

Nei testi fondativi della tradizione rabbinica, a cominciare da Mishnà, Talmud e midrash, non è presente una teologia sistematica. Ne esistono al contrario esempi importanti nella tradizione rabbinica medievale e moderna. Maimonide, per limitarsi a un nome illustre, in cui il discorso su Dio è razionale e filosofico; ma in certa misura e in un contesto molto meno coerente anche lo Zohar e la mistica spagnola, che invece di razionale hanno ben poco. In ogni caso nei testi classici della civiltà rabbinica, di molti secoli precedenti, se pure esistono qui e là spunti e idee di tipo genericamente definibile come teologico, cosa comunque da verificare, non esiste della teologia un sistema organizzato e coerente.

Nel midrash assistiamo all’incontro tra i rabbini e il testo biblico. Qui Dio è un soggetto che entra in relazione con il mondo, cioè con la creazione e con le sue creature. Non è oggetto di indagine la sua natura, o se si preferisce la sua essenza con la definizione di suoi attributi, e meno che mai di Dio interessa dimostrare l’esistenza. Il midrash, in altre parole, non si occupa di questioni metafisiche, alle quali invece verrà data centralità nella successiva filosofia ebraica.

 

Prendiamo in considerazione alcuni passi del midrash. Nella Mekhiltà di rabbi Ishmael, il più antico midrash sul libro di Shemot/Esodo, i rabbini commentano l’episodio in cui il popolo di Israele nel deserto è guidato da Dio, il quale risiede in una colonna di fumo. Fino a qui la Torà. Nel medioevo il filosofo Abraham Ibn Ezra sarà tra coloro che affronteranno la questione, comprensibilmente avvertita come problematica. Come può infatti Dio, che è infinito e onnipotente, scegliere di risiedere nel fumo? La risposta di Ibn Ezra è che la Torà parla il linguaggio degli uomini e con l’immagine poetica della colonna di fumo vuole dire che Dio accompagna il popolo di Israele dopo l’esodo, non che Dio è dentro il fumo. Per il filosofo non c’è dubbio che Dio è ovunque e che certo non risiede fisicamente in una colonna di fumo più di quanto risieda altrove. L’immagine della colonna di fumo non va dunque presa alla lettera. Completamente differente è la lettura del midrash. Ai rabbini di epoca tardoantica non interessa il problema metafisico di come Dio possa fisicamente risiedere in una colonna di fumo. Non si interrogano, in altre parole, su come l’infinito possa essere contenuto nel finito.

Uno dei principali studiosi viventi di ebraismo rabbinico, Moshe Halbertal, suggerisce che il problema posto dal midrash non è se la rappresentazione di Dio nella colonna di fumo sia metafisicamente possibile, ma se il comportamento di Dio nell’episodio sia appropriato dal punto di vista relazionale. Viene dunque posta non la domanda sull’essenza ma quella sulla relazione. È dato per assodato e non fa problema che Dio, se lo vuole, possa risiedere ovunque, anche in una colonna di fumo. Ma perché, si chiede il midrash, Dio interviene direttamente? Perché non invia per esempio un messaggero, un angelo della sua corte, un mediatore privo di volontà distinta operativo sul campo? La risposta dei rabbini è la cura di Dio nei confronti delle sue creature. Se si preferisce, l’amore. Dio partecipa a tal punto delle peripezie del suo popolo da intervenire direttamente. “Io e non un inviato, io e non un angelo, io e non un incaricato: io il Signore e nessun altro”, si legge nella Haggadà di Pesach, un testo tardo rispetto alla Mekhiltà in cui però il ruolo egemone di Dio rimane evidente, al punto da cancellare quello di Mosè. Quello che più colpisce qui è la raffigurazione antropomorfica della divinità. Dio è tanto coinvolto da voler intervenire personalmente, senza intermediari. Su questo dovremo tornare a breve.

Vediamo prima un altro esempio, tratto ancora dalla Mekhiltà, relativo all’episodio del roveto ardente nel quale Dio si rivela a Mosè e lo incarica della missione di condurre fuori dall’Egitto il popolo di Israele. Qui la domanda che i rabbini si pongono è analoga a quella sollevata nel caso della colonna di fumo. Perché un cespuglio piccolo, umile e spinoso? Perché, in altre parole, non una rivelazione grandiosa e tonitruante? Una delle risposte fornite indica la partecipazione di Dio alla sofferenza del popolo costretto in schiavitù. “Tanto è grande la pietà di colui che disse e il mondo fu creato”, sostengono rabbi Chiyà e rabbi Yehudà, “poiché nella misura in cui Israele è afflitto, anche Dio è afflitto”. È interessante notare che il midrash riflette le caratteristiche del cespuglio (umile, spinoso, costretto a lottare con il deserto e con gli elementi per sopravvivere) su Dio, e non viceversa quelle di Dio (che come abbiamo visto occuperanno l’indagine dei filosofi) sul cespuglio. Più vicino alla sensibilità di un lettore moderno è l’approccio della filosofia ebraica medievale, largamente influenzata dalla filosofia greca come le contemporanee filosofie cristiane e islamiche con cui peraltro tesse un fitto dialogo. Per i filosofi l’ontologia (o teologia) è la scienza che ha la divinità come oggetto, la scienza cioè che descrive Dio attraverso una serie di attributi (per esempio onnipotente, eterno, unico). L’oggetto che assomma in sé ogni perfezione, e pur sempre un oggetto. Nel midrash, al contrario, Dio non è un oggetto da definire bensì un soggetto di relazione. Un soggetto che negozia, interagisce, commercia con altri soggetti. Diversamente dagli dei di Epicuro che risiedono negli spazi aperti tra i mondi disinteressandosi, in quanto perfetti e autosufficienti, delle faccende umane, questo è un Dio che non basta a sé stesso.

 

Inoltre, come mostrano gli esempi tratti dalla Mekhiltà, il Dio del midrash, diversamente da quello della Torà e a maggior ragione da quello di filosofi come Ibn Ezra e Maimonide, ha una sfaccettata personalità. Dio si prende cura, ama, soffre. Insomma, è costantemente presente al fianco degli uomini. È quindi presenza, shekhinà in ebraico, ma anche questo attributo come l’esistenza e tutto il resto viene dato per assodato e non discusso come postulato metafisico. L’immagine della divinità nel midrash rientra quindi pienamente all’interno del paradigma antropomorfico. Dio ha tutte le caratteristiche proprie dell’uomo con la sola differenza che sono potenziate, come molti secoli dopo Spinoza sarà tra i primi a notare guadagnandosi, a seconda dei punti di vista, la fama di ateo maledetto o di eroe del libero pensiero. Nel midrash un Dio così umano viene continuamente assimilato a un re, spesso a un padre, un marito, un maestro, un giudice, talvolta a una madre e in alcuni casi addirittura a un discepolo o a un servo. I rabbini naturalmente non intendono sminuire la maestà divina. Ancora una volta, non è per loro lo status (l’essenza) a contare ma la relazione. Con il mutare della relazione, cambia l’immagine scelta per presentare Dio.

 

Poiché Dio in sé non interessa, mentre interessano le modalità con cui entra in relazione con il popolo di Israele, l’immagine di Dio è largamente influenzata dalle vicende storiche dell’ebraismo dell’epoca. Va detto che il midrash non si fonda sulla logica aristotelica e sul principio di non contraddizione, di conseguenza affastella senza porsi problemi immagini della divinità molto diverse le une dalle altre e anche, a un occhio filosofico, contraddittorie. Esiste tuttavia una tendenza di lungo periodo nel modo in cui i rabbini presentano Dio, o meglio la sua personalità. Mentre il Dio della Torà è prevalentemente il condottiero che trionfa (sugli egiziani, sui filistei, su coloro del popolo che vengono meno al patto stipulato al Sinai eccetera), nel midrash è spesso un Dio triste, un Dio che si lamenta e piange come dicono rabbi Chiyà e rabbi Yehudà nel brano sopra riportato. Nel midrash Lamentazioni rabbà sul libro di Ekhà/Lamentazioni Dio partecipa del dolore dei figli di Israele  dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme. Gli angeli interrogano Dio che risponde con tutti i segni caratteristici del lutto: veste il sacco e lo espone in segno di lutto (oscurando il cielo), spegne le luci (sole e luna), rovescia i letti, si aggira scalzo nella polvere, lacera i propri vestiti, siede solitario e piange in silenzio. Un Dio dell’esilio che accompagna nella tristezza l’esilio a cui il popolo è costretto dopo la conclusione disastrosa delle guerre contro i romani. Un Dio sofferente che dialoga a distanza con quello cristiano che muore crocifisso.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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