Inclusivo, internazionale e interidentitario il progetto dell’artista francese, in mostra al Centro Pecci per l’arte contemporanea nell’ambito del progetto Extra Flags
Ogni bandiera rappresenta uno stato e la sua costruzione è basata su elementi fondanti della storia del paese. Le bandiere sono simboli, pronti a trasportare universi valoriali, storie di appartenenza e caratteristiche identitarie in cui la popolazione può più o meno riconoscersi. La bandiera sventola un’identità nazionale, tanto che si giura alla bandiera, si presta fedeltà al vessillo, si combatte in nome di quella bandiera. E poi ci sono le espressioni ormai entrate nel linguaggio comune come portabandiera, per indicare qualcuno che si fa rappresentante di determinati valori che quella bandiera (stato, associazione, partito politico…) rappresenta, o fare di qualcosa la propria bandiera…
Ecco, l’identità. O meglio, l’identità tra uomo e nazione. Quella chiusa tra confini ben precisi, che dovrebbero tutelarne la sicurezza e garantirne l’unicità. Quella etnica, prima di tutto, poi estesa a un’identità nazionale, dunque per cittadinanza e appartenenza a quei confini geografici (ma magari per adozione).
Al Centro Pecci per l’arte contemporanea è appena stata issata una nuova bandiera, che sventola sul museo e che si può guardare online. L’ha disegnata l’artista francese Pierre Bismuth, di stanza a Bruxelles e da sempre impegnato a indagare come viene consumata e prodotta oggi la cultura attraverso una gestualità drastica, a volte ironica, spesso tagliente. Così, per la sua serie Abstractions, Bismuth combina, nel contesto della crisi globale dei rifugiati, i vessilli di due stati nazionali, sovrapponendoli. In questi ibridi visivi, una bandiera rappresenta il paese di origine del rifugiato, l’altra un ipotetico paese ospitante europeo. Da questa combinazione nascono delle nuove “bandiere internazionali“, veri e propri oggetti concettuali, in cui si fondono due sistemi simbolici, che perdono così la loro capacità rappresentativa precedentemente ben definita, per assumerne un’altra, più inclusiva. Per Variazioni sul tema delle Nazioni le bandiere ibridate da Bismuth sono quelle dell’Italia e della Libia.
Attualmente il lavoro di Bismuth sventola sul museo pratese, che ogni settimana cambia bandiera nel suo progetto ExtraFlags, vessillo dell’impegno a rimanere vivi, a continuare a mostrare l’arte contemporanea al pubblico, anche in lockdown, è stato inaugurato con la bandiera della street artist, illustratrice e artista MP5, dal titolo Third Eye – Terzo occhio: “è una celebrazione delle arti visive e un invito a guardare oltre ciò che è visibile”, dichiara l’artista, “Quello che sembra un gesto di resa o di paura di fronte a un’attualità difficile è in realtà una spinta a guardare oltre, a comprendere più a fondo l’essenza non sempre immediata di ciò che i nostri sensi percepiscono”.
Così si sono susseguite diverse bandiere, tutte pronte a creare connessioni con il pubblico, ponti, possibilità di contatto in un momento di totale distanziamento sociale. Allora la bandiera assume un altro significato. Diventa strumento di comunicazione, linguaggio simbolico, innesco di dialogo che si vede (e legge) da lontano. Tra arte e società.
Così l’artista turca Güneş Terkol sventola la resistenza femminile in When push comes to shove (Quando il gioco si fa duro), una bandiera – issata in prossimità del 25 novembre, giornata contro le violenze alle donne – che riporta il volto indefinito di una donna con la bocca aperta nell’atto di urlare, ma che al posto della lingua fa uscire un grande coltello da cucina. Non si tratta di un urlo violento, ma di una manifestazione di dissenso, un gesto di resistenza e un atto di solidareità tra donne che chiedono un aiuto e donne che questo aiuto lo ascoltano.
Il lavoro di Thomas Hirschorn spinge il pubblico a interrogarsi su concetti quali ingiustizia, potere e responsabilità morale, a prendere coscienza dell’urgenza e della necessità espressiva del presente. E per questo progetto presenta “WE ARE STILL ALIVE, titolo e “proposito” della bandiera. “Il proposito di WE ARE STILL ALIVE. è di resistere, di aver fede, di portare avanti il proprio lavoro in tutte le circostanze”, spiega l’artista, ” WE ARE STILL ALIVE. riguarda il ‘noi’, si tratta infatti di avere una missione comune, si tratta di restare vivi, rimanere vivi per qualcosa – qui di fronte al museo – per rappresentare l’arte, per compiere una missione, la missione dell’arte, la missione di FARE arte, di ESPORRE arte, di DISCUTERE l’arte. È il museo-istituzione che indirizza le parole ‘SIAMO ANCORA VIVI’ al passante, a chi mai vedrà questa bandiera, al mondo intero. WE ARE STILL ALIVE. è rivolto all’altro e significa anche: non sei solo. Noi, le persone che amano l’ARTE, siamo vivi, stiamo in piedi, stiamo lavorando, stiamo combattendo, continuiamo a credere – puoi contare su di noi!”.
La bandiera issata l’1 dicembre, giornata mondiale per la lotta all’AIDS, è una rielaborazione del noto e iconico Silence = Death Project. Nel 1987, sei attivisti gay a New York, Avram Finkelstein, Brian Howard, Oliver Johnston, Charles Kreloff, Chris Lione, e Jorge Soccarás, dettero vita a Silence = Death Project, un progetto di arte pubblica costituito da manifesti affissi in giro per la città, recanti un triangolo rosa su sfondo nero, che dichiarava semplicemente “SILENZIO = MORTE”. Silence = Death Project traccia un parallelismo tra il periodo nazista, con la persecuzione delle persone LGBTQ, e la crisi dell’AIDS, denunciando la ripetizione di un analogo silenzio. Il Silence = Death Project è diventato poi un monito di resistenza verso l’ingiustizia sociale e l’indifferenza rispetto all’epidemia di AIDS.