Cultura
Vasilij Grossman, Lev Tolstoj, la guerra e la pace

Un confronto tra i due scrittori

Agosto 1942. «Le alture sulla riva destra del Volga erano zona proibita, ormai, e i soldati lo vedevano: i tedeschi erano già arrivati all’acqua. Vedevano anche, i soldati, che nelle steppe della riva sinistra i cammelli brucavano i cardi, e che poco oltre iniziavano gli acquitrini salati». Di là dal fiume verso occidente le miniere del Donbass, i campi di grano ucraini, la Crimea e la Bessarabia, Kiev e Odessa, l’Europa. Oltre il Volga finisce la Russia e cominciano le steppe asiatiche del Kazakhstan. Nessuna ritirata è possibile, oltre il Volga.

Come Erodoto e Tucidide, Tolstoj e Stendhal, Vasilij Grossman narra quelli che ritiene i fatti più grandi della propria epoca. Grandi e terribili. Chi legge Stalingrado, disponibile finalmente anche in italiano nella bella edizione Adelphi, non deve aspettarsi però la battaglia fin dalle prime battute. Grossman, da vero professionista del montaggio (su questo torneremo), per oltre metà di un volume di quasi 900 pagine ripercorre i primi mesi di guerra, cioè di ritirata di fronte alla potenza e alla violenza tedesche, e descrive l’angoscia e l’attesa da parte degli abitanti della città sul Volga.

Dalla finestra dell’ospedale, di notte, lo sguardo di Vera vaga malinconico per la città. Un dirigente rifiuta un passaggio per tornare a casa a piedi, anche se sono diversi chilometri; è forse l’ultima volta in cui può percorrere le strade della sua città, come un estremo saluto. Nel successivo bombardamento vediamo un caleidoscopio di passioni umane e non solo umane, perché Grossman raffigura la città con una prosopopea, come se fosse una persona che viene colpita, ansima, soffre, si contorce. Dalla «gola di ferro» delle sirene «era la voce di tutta Stalingrado: non solo delle persone, ma anche dei palazzi, delle macchine, della pietra, delle colonne, dell’erba e degli alberi nei parchi, dei fili elettrici e dei binari dei tram; era il lamento dei viventi e di ciò che vivente non era, che insieme avvertirono – forte – il presagio della distruzione».
Nel diluvio di fuoco «migliaia di case restarono senz’occhi», migliaia di uomini e animali disperati tentano invano la fuga. «I primi furono gli uccelli» ma anche per chi sa alzarsi in volo è spesso troppo tardi: l’aria rovente sopra le case in fiamme «li catturava nelle sue spire, e anche loro morivano tra il fuoco e il fumo». Per mesi in tutta la regione circostante le vacche perdono il latte, i cammelli bramiscono, i cani uggiolano al rombo dei motori degli aerei, perfino gli insetti «seppero della battaglia». Il bombardamento con le sue scene di follia e di eroismo divide dunque l’attesa dalla vera e propria battaglia.

Se nella prima parte Grossman mette in scena folle di individui in cui «ognuno pensa per sé, ognuno risponde al proprio istinto di sopravvivenza e alle proprie passioni», alla fine vediamo un popolo unito che combatte non per gli ordini draconiani di Stalin che esigono resistenza a oltranza ma per la libertà e la vita. Nell’una e nell’altra parte seguiamo le vicende della grande storia attraverso quelle della famiglia Šapošnikov e dei loro conoscenti e amici. Secondo Grossman è lezioso chiedersi che cosa sia stato determinante per la difesa di Stalingrado, l’artiglieria per esempio oppure la fanteria. La crescente potenza degli artiglieri posizionati nell’Oltrevolga e il coraggio dei fanti che combattono tra le macerie di case e fabbriche giorno dopo giorno «divennero una cosa sola».

Stalingrado, come il seguito Vita e destino con cui costituisce du dittico, è nelle intenzioni dell’autore e nei fatti il Guerra e pace del Novecento. Innanzitutto perché segue le vicende di una famiglia allargata, parla di vita civile e militare e presenta in gran numero riflessioni sulla storia, la filosofia e la politica, ma anche perché è visceralmente antiretorico. La raffigurazione di Hitler evoca i generali prussiani prima e Napoleone poi in Guerra e pace. Da parte di chi muove folle ed eserciti tutto è perfettamente controllato, calcolato, previsto? La benzina a disposizione dell’aviazione, le condizioni meteorologiche, la qualità del terreno, l’intero tessuto dei fatti planetari: come Tolstoj alla vigilia della disfatta di Austerlitz irrideva la presunzione prussiana di guidare l’esercito con esattezza scientifica, così Grossman suggerisce il vuoto che abita nel cuore del Terzo Reich, un gigante la cui forza è solo apparente perché fondata interamente sulla sopraffazione. Come Tolstoj, Grossman ritiene la guerra caos, non scienza. Come Tolstoj è convinto di dover fare piazza pulita di quel sentimentalismo «folle» e «idiota» che ammira il criminale «se l’oggetto del suo crimine era l’umanità», a incensare l’assassino «se mieteva vittime a milioni anziché ammazzare un singolo individuo». Un sentimentalismo tanto più pericoloso quanto più sdoganato filosoficamente da Hegel che vedeva in Napoleone – ancora lui – «lo spirito del mondo a cavallo». Grossman durante la guerra vissuta al fronte come corrispondente legge per due volte Guerra e pace e nell’autunno del 1941 visita emozionato la tenuta di Tolstoj a Jasnaja Poljana – un episodio raccontato nei diari (Uno scrittore in guerra). In Stalingrado a Jasnaja Poljana va uno dei due alter ego dello scrittore, il commissario politico Krymov. Sono i mesi terribili di una ritirata che sembra senza fine, e allora a Krymov «era parsa viva, quella casa, viva e sofferente in mezzo a centinaia, migliaia di altre case russe che vivevano e soffrivano».

Grossman riesce a tenere insieme decine e decine di personaggi per centinaia di pagine grazie a una non comune abilità di montaggio. Questa competenza tecnica viene d’altra parte declinata in senso umanistico. Ma vediamo alcuni esempi. Come abbiamo già notato Grossman ritarda la descrizione della battaglia, sviluppando al massimo il clima di attesa e tensione. Può farlo, naturalmente, perché il lettore sa in anticipo quello che prima o poi succederà, come chiarisce lo stesso titolo. A metà del libro compaiono i tedeschi non più come nemici ma come personaggi che pensano e parlano, cioè uomini con bisogni, interessi, desideri e imperfezioni. La scena immediatamente seguente è quella, terribile, del bombardamento di Stalingrado con cui la battaglia vera e propria ha inizio. Dopo quattro pagine di paura e follia sotto la pioggia di fuoco che nulla risparmia, Grossman taglia la pellicola e ci riporta indietro di un’ora nell’orfanotrofio in via di sgombero. Con angoscia seguiamo gli orfani salire sulla chiatta che li deve portare al sicuro sull’altra riva del fiume. Il bombardamento li coglierà durante l’attraversamento. In Stalingrado gli accostamenti stridenti in cui le situazioni risaltano in virtù del contrasto e gli esempi di azione che viene interrotta per poi riprendere sono numerosi.

Tra i tedeschi il tenente Bach un tempo era contrario al nazismo ma quando arriva ad attingere con l’elmetto l’acqua del Volga tutti i dubbi sembrano alle spalle. «Non ero un fautore dell’ideologia razzista», confessa alla SS Lehnard, «e per questo ho lasciato l’università prima che mi cacciassero. Poi, però, sono arrivato al Volga! E c’è molta più logica nella nostra marcia che in tutti i libri messi insieme«. E continua, citando Fichte, Nietzsche e Spengler: «La nostra filosofia è finalmente uscita dalle biblioteche e dalle pagine fosche dei manuali accademici». La notte sulla branda ragiona sul bene e sul male: forse sono categorie intercambiabili, pensa, «convenzioni che è ingenuo contrapporre». Bach tuttavia non è né un sadico né un opportunista (ci sono naturalmente anche quelli), come non lo è il soldato Schmidt che monta di guardia di notte tra le rovine mentre gli altri si ubriacano. Come è possibile che io, si chiede Schmidt, figlio e nipote di tedeschi e che amo il mio paese, ma anche comunista prima dell’ascesa di Hitler, tremi di fronte al pensiero che la Germania vinca? Con il consueto montaggio creativo Grossman fa seguire al lento notturno in cui la sentinella tedesca affastella pensieri di segno opposto la scena accelerata in cui un battaglione sovietico viene attaccato da forze soverchianti, resiste eroicamente tre giorni nei ruderi della stazione ferroviaria e viene sterminato fino all’ultimo uomo (e donna). Non è forse inutile ricordare che Grossman scriveva questo durante e subito dopo Babi Jar e Treblinka, i prigionieri sovietici lasciati morire di stenti a milioni, l’assassinio dei famigliari e soprattutto della madre nella nativa Berdičev, in Ucraina. Altri non avrebbero usato distinzioni nella descrizione di un occupante impegnato in una guerra di sterminio; Grossman al contrario distingue sempre, anche quando si tratta di tedeschi.

Stalingrado e Vita e destino sono le due parti di un unico libro. Stessi i personaggi, in continuità l’azione: il secondo libro attacca esattamente dove si interrompe il primo, cioè alla fine di settembre 1942 con l’arrivo di Krymov a Stalingrado. Questo spiega tra l’altro la difficoltà del lettore a orientarsi nelle prime pagine di Vita e destino: semplicemente non è un’opera autonoma leggibile senza considerare le premesse contenute nel primo volume. Mentre Vita e destino sarà pubblicato soltanto nel 1980 in Svizzera sedici anni dopo la morte dell’autore, Stalingrado esce nel 1952 in Unione Sovietica con il titolo Per una giusta causa imposto dalla censura. Censura e autocensura hanno peraltro un ruolo determinante non solo nel cambio del titolo – quello attuale ripristina la volontà dello scrittore – ma in tutta la genesi dell’opera. Per nove anni Grossman modifica il testo, aggiunge e taglia, scrive e riscrive. Tra manoscritti, dattiloscritti e edizioni a stampa sono conservate quindici versioni differenti. Le richieste continue della censura vanno dall’inclusione di personaggi monolitici in linea con la dottrina del realismo socialista all’eliminazione di riferimenti a ebrei e antisemitismo (incluso quello nazista) all’inserimento di episodi di eroismo in prima linea, nelle fabbriche e nelle miniere degli Urali.

Se Stalingrado non è un libro in linea con la propaganda di regime, è insomma quasi un miracolo. Oppure più semplicemente merito della straordinaria capacità di Grossman e del suo coraggio. Numerosi episodi, è vero, sottolineano l’eroismo dei combattenti, l’entusiasmo di chi si rende conto che non sta più arretrando e la determinazione di chi è disposto a sacrificare la propria vita. Ma abbiamo anche pagine in cui vengono messi implicitamente a confronto – cioè accostati senza l’aggiunta di un giudizio esplicito, con un messaggio però chiarissimo – i pranzi prelibati di certi comandanti e la fuga di Tamara con le figlie sfollate, profughe e senza pane. Come ci sono tedeschi che dubitano della Germania, in Grossman accanto agli eroi vediamo contadini sovietici pronti ad accogliere gli invasori come liberatori; troviamo perfino nell’Armata rossa esempi di pressapochisti, disertori e approfittatori interessati più a compiacere i superiori che a contribuire alla difesa del proprio paese. Lo scrittore vince in qualche misura la censura facendo emergere l’umanità nelle condizioni più estreme.

Grossman lavora a Vita e destino negli anni cinquanta. Sono gli anni del disgelo, un disgelo provvisorio e parziale che comunque non impedirà al regime di bloccare la pubblicazione dell’opera. In questo secondo romanzo il giudizio sull’Unione sovietica è molto più duro rispetto a quello nel primo. Gli spazi vuoti, la vasta area del non detto, i silenzi di Stalingrado vengono riempiti in Vita e destino. Così nel primo romanzo noi conosciamo la storia del comunista Abarčuk fino all’arresto nel 1936 come “nemico del popolo”, nel secondo lo troviamo nel lager staliniano. Lo stesso discorso vale per l’antisemitismo e la Shoah, ai quali in Vita e destino viene dato molto più spazio. In Stalingrado l’antisemitismo nazista è una presenza incombente di cui però non si può parlare, come vuole il verbo sovietico che impone di descrivere il conflitto esclusivamente nei termini di “grande guerra patriottica” e le vittime dei nazisti tutte indistintamente come antifasciste.

Nel romanzo pubblicato in vita tuttavia Grossman semina ciò che fiorirà nella seconda opera. Per esempio raccontando la storia dell’ultima lettera della madre del fisico ebreo Štrum (l’altro alter ego dell’autore, mentre la figura della madre ricalca la vera madre di Grossman) al figlio – episodio che trova naturale continuazione in alcuni dei punti più alti del secondo romanzo. Oppure quando descrive l’antisemitismo in Russia in modo appena accennato, senza che la parola “ebreo” compaia. Nella cantina di un palazzo di Stalingrado durante i bombardamenti si leva una voce ad accusare la chirurgo Sof’ja Levinton: «Quelli della razza sua fanno sempre così, li conosciamo bene: la divisa ce l’avranno anche, ma al fronte non li ha mai visti nessuno». E poi ancora qualche pagina più avanti: «Quelli della razza sua scappano tutti», ma non ha speranza di passare inosservata «col naso che si ritrova».

Stalingrado esce nel 1952 negli stessi mesi in cui molti membri del Comitato ebraico antifascista vengono processati in segreto e poi giustiziati. Siamo all’inizio della campagna antisemita, ultimo in ordine di tempo dei crimini di Stalin. Grossman fa parte del Comitato e ha descritto la specificità dello sterminio ebraico da parte nazista, per esempio nell’Inferno di Treblinka. Nell’inverno del 1953 viene lanciata una campagna mediatica che accusa Grossman di aver falsificato e distorto la storia di Stalingrado. È verosimilmente in cima alla lista degli scrittori ebrei destinati a sparire nel nulla quando il 5 marzo Stalin muore. Poche settimane più tardi anche la campagna di delegittimazione si esaurisce.

In Vita e destino c’è meno enfasi sugli episodi di eroismo di quanta abbia spazio in Stalingrado. Alcuni anni sono passati, Stalin non c’è più, la Lubjanka e i lager della Kolyma anche se non dismessi non macinano più vite a milioni come prima. Rispetto a Stalingrado, soprattutto, Grossman gode di maggiore distanza dai fatti narrati. «A Tolstoj era andata meglio», scrive nella prima parte del dittico, “«l suo libro straordinario, splendido, lo aveva scritto quando il dolore tremendo che tutti avevano vissuto con ogni vena, con ogni goccia di sangue e ogni palpito del cuore si era ormai dissolto, quando nella memoria era rimasto solo un ricordo lucido, terso, maestoso…». Tolstoj scrisse Guerra e pace cinquanta anni dopo la campagna di Napoleone in Russia, a Grossman ne sono bastati poco più di una decina per completare con Vita e destino quanto aveva cominciato con Stalingrado. Con gli anni però non viene meno la partecipazione di Grossman, per il quale mettere a fuoco gli eventi con onestà e afflato umanista non significa assumere il ruolo di osservatore neutro. La distanza per lui non significa distacco. Forse è questa la differenza più grande nei confronti del suo modello Tolstoj.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

2 Commenti:

  1. Molto bene. Forse il confronto con Tolstoj poteva essere più articolato e più esteso.
    Letto volentieri, niente di banale su due libri splendidi
    Grazie.


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