Una lunga camminata nel deserto, per costruire la consapevolezza morale
La libertà è un diritto oppure un dovere? Nelle settimane che ci avvicinano a Pesach, la festa ebraica della libertà, questa domanda sorge spontanea. Tanto più nella situazione di clausura e isolamento in cui ci troviamo costretti nel tentativo di contenere il dilagare di una temibile pandemia. Non usciamo di casa perché siamo obbligati da un’autorità esterna oppure non lo facciamo perché sentiamo che questo è il nostro dovere nelle circostanze presenti? Si tratta di una scelta libera oppure della negazione della nostra libertà?
Se, come vuole un certo senso comune, libertà è semplicemente fare quello che si vuole seguendo le proprie preferenze, allora la reclusione domestica di questo periodo ne costituisce un limite. Questo è però solo il modo più immediato e tutto sommato fuorviante di valutare la libertà. La libertà, per esempio, può essere pensata come il diritto alla differenza di ciascuno, il diritto cioè a esprimersi in modo tale da distinguersi dagli altri, anche quando si costituisce una minoranza di fronte a una maggioranza (e in un certo senso ciascuno di noi è sempre minoranza di fronte a una maggioranza). Questo può significare inoltre che, poiché le condizioni (sociali, economiche, culturali ecc.) di ciascuno sono diverse da quelle degli altri, ciascuno è diversamente libero. Non è affatto detto, insomma, che la libertà sia soltanto negativa o formale, cioè vincolata al non subire alcune limitazioni (come per esempio le libertà di pensiero, di stampa, di associazione, di iniziativa, di disporre del proprio corpo); può anche essere intesa in positivo, come libertà reale di fare (per esempio: se la mia famiglia non ha mezzi economici per farmi studiare sono davvero libero di andare o no all’università?).
E’ però evidente che la libertà può essere un diritto solo fino a quando non ostacola o nega la libertà altrui. Come spiega tra gli altri Guido Calogero, “che diritti mai avrebbero gli altri, se non sentissimo noi il dovere di riconoscerli, limitando per ciò la nostra libertà con una norma?”. I diritti di tutti sono quindi inseparabili dai doveri di ciascuno. Se il mio primo dovere consiste nel non violare i diritti degli altri, il secondo che segue immediatamente è di agire quando i diritti degli altri vengono violati. Questo significa che siamo responsabili non solo delle nostre azioni ma anche delle nostre omissioni, e portato alle estreme conseguenze filosofiche indica che ciascuno è sempre responsabile nei confronti di tutto e tutti.
C’è però anche chi pensa che la libertà più profonda risieda nel dovere, e non nel diritto. Dovere come libertà significa sapere per intuizione, semplicemente e senza bisogno di spiegazioni, che cosa è giusto o ingiusto fare. Adeguare, in altre parole, il nostro comportamento a principi che in autonomia ci siamo dati, distinguendo tra doveri imposti dalla nostra coscienza e obblighi imposti da un’autorità esterna. La libertà, in questo senso, si esprime attraverso e grazie, e non nonostante, il dovere.
E la tradizione ebraica? In essa la libertà come frutto dell’assunzione di responsabilità è certamente preferita alla libertà come arbitrio. La storia di Yitzhak Abravanel e della sua Aggadà di Pesach può contribuire a penetrare questo approccio. Abravanel vive in prima persona una delle vicende più tragiche subite nella storia dal popolo ebraico, la cacciata dalla Spagna agli albori dell’età moderna. Negli ultimi anni del secolo XV centinaia di migliaia di ebrei spagnoli e portoghesi sono costretti a scegliere drammaticamente tra la conversione (che talvolta è addirittura coatta), la morte e una fuga pericolosa e dall’esito incerto. Molti, anche se probabilmente non la maggioranza, riescono a trovare rifugio lungo le coste del Mediterraneo, dal Marocco alla Turchia, dai Balcani all’Italia. Abravanel, riparato in Italia, in vecchiaia racconta del triplice esilio dal Portogallo, dalla Castiglia e da Napoli. In questi anni scrive un commento alla Aggadà di Pesach, il racconto dell’uscita dall’Egitto che ogni anno gli ebrei leggono e rivivono in un alternarsi di narrazione, cibi, canti e gesti rituali.
Abravanel, che vive nella condizione di profugo che non ha certezze per il futuro e vede a rischio la sopravvivenza del proprio popolo, si domanda “che cosa abbiamo guadagnato, noi uomini dell’esilio, oggi, dal fatto che i nostri padri sono usciti dall’Egitto?”. “Come è detto [nell’Aggadà]: ‘Se il Santo, benedetto sia, non avesse fatto uscire i nostri padri dall’Egitto, noi e i nostri figli e i figli dei nostri figli saremmo ancora asserviti al faraone’. Forse dimoreremmo in Egitto in una più grande quiete di quella che sperimentiamo nell’esilio presso Edom [Roma e l’Europa cristiana] e Ismaele [il mondo islamico]; secondo quanto dissero i nostri padri: ‘Sarebbe stato meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto’ dei popoli, tra le distruzioni e le espulsioni, ed essere uccisi con la spada, affamati, imprigionati, e soprattutto lasciare la nostra fede per il peso dell’oppressione”. Davvero quella che viviamo oggi, si chiede Abravanel, è la libertà oppure la storia si ripete con l’espulsione dalla Spagna per volere di un nuovo crudele faraone? “Che cosa abbiamo guadagnato dall’uscita, dall’esilio e da quella liberazione se ancora oggi siamo in esilio?”.
Nonostante tutto, Abravanel prova a dare una risposta. “Se non fossimo usciti [dall’Egitto], non saremmo giunti al monte Sinai, e non avremmo ricevuto la Torà e i precetti, e la presenza divina non avrebbe dimorato tra noi, e non saremmo un popolo prezioso per Dio”. Come ha sottolineato Yeshayahu Leibowitz, proprio qui risiede il significato più importante dell’uscita dall’Egitto, nella quale la liberazione dalla servitù è sì importante, non però in quanto tale ma perché evento che prepara e avvicina all’accoglienza della Torà sul monte Sinai. Ed è qui che risiede la vera, profonda libertà dell’uomo. Prendere su di sé la responsabilità dei doveri prescritti dalla Torà è libertà di cui ogni generazione può godere, anche quando, come scrive ancora Abravanel, si vive “nel deserto dei popoli, tra le distruzioni e le espulsioni, la spada, la fame e la prigionia”. Solo con la coscienza e la consapevolezza dei propri doveri, quindi, l’uomo può liberarsi dal fardello del mero istinto e del soddisfacimento dell’utilità immediata. Soltanto in questo modo può essere libero.
Di fronte al fascismo liberticida, nel 1928 Carlo Rosselli invocava “il concetto della vita come lotta e missione, la nozione della libertà come dovere morale, la consapevolezza dei limiti propri ed altrui”. Lotta e dovere che comportano un percorso faticoso o, se si preferisce, una lunga camminata nel deserto.