Israele
“Vivarium”, il senso della vita secondo Elena Ceretti Stein

Intervista all’artista in occasione della sua mostra alla Braverman Gallery di Tel Aviv

Lo scorso 17 settembre ha aperto presso la prestigiosa Braverman Gallery di Tel Aviv Vivarium – a cura di Adi Gura – la nuova mostra personale di Elena Ceretti Stein che, con questo ultimo tassello, completa il mosaico di una produzione artistica che ha cominciato a germogliare parallelamente al suo arrivo in Israele, nel 2014. Oggi si raccolgono i frutti, tanto che il celebre critico d’arte Avi Pitchon, sulle pagine di Haaretz  l’ha decretata nuova “stella” dell’arte contemporanea israeliana.
E italiana, perché queste sono le origini di Ceretta Stein, nata a Milano nel 1989, con radici balcanico-ottomane che, non a caso, emergono nella sua arte “neo-bizantino-rinascimentale”, facendo di questa giovane artista una sorta di “alchimista”, per il modo in cui utilizza le tecniche più disparate: dall’olio su tela al mosaico, dal fresco alla scultura, da un acquario di plancton alla terra concimata da cui, ogni giorno, nascono, si decompongono e muoiono piccole piante che contribuiscono a rendere questa mostra un vivarium, nel senso letterale del termine, “luogo di vita”.
Tutte le opere esposte, nei loro diversi linguaggi, sono il risultato di anni di ricerca che vanno dall’antropologia – Ceretti Stein ha conseguito un BA in Cultural Studies presso l’University of the Arts of London (LCC) – alla storia dell’arte, dalla classica alla contemporanea, i cui studi sono culminati con un MFA presso l’Accademia Bezalel di Tel Aviv.

Attraverso questo percorso transdisciplinare l’artista è riuscita a trasformare le “sterili” pareti bianche della galleria in un ecosistema in cui passato e presente, cultura e natura, vita e morte si intrecciano e dialogano tra di loro. La mostra, infatti, riunisce in un’unica installazione 15 quadri ad olio, un mosaico in marmo, due sculture in ottone, una conchiglia dipinta al suo interno, quattro tamburelli trasformai in tela, un torso di ceramica con fiori di campo, una testa di Venere – in ceramica – immersa in un acquario in “fermento”, un affresco murale, un autoritratto – omaggio Johannes Vermeer – ad olio, dipinto su una tavola a due lati, il cui retro – a sua volta omaggio a Henri Rousseau – viene scoperto grazie allo stratagemma di uno specchio, altro protagonista di questa installazione. Il tutto incorniciato da piante che germogliano dal terriccio disseminato lungo il pavimento di cemento della galleria.

La sensazione che si prova entrandovi, dunque, è quella di trovare un piccolo tempio di tesori, abbandonati in epoche diverse, da scovare e decodificare. Un tema ricorrente anche nei precedenti lavori di Ceretti Stein che, nella sua pratica, indaga in modo costante il rapporto tra passato e presente, tra le sue origini europee e la sua scelta di vivere in Israele, ombelico del mondo e culla delle civiltà e dei popoli che ci hanno vissuto, attingendo a oggetti e temi iconici del Mediterraneo e della storia dell’arte italiana – da Fra Angelico a Piero della Francesca, passando per il Botticelli – in cui spesso cattedrali, cripte e luoghi sacri sono stati lo scrigno di messaggi criptici, appartenenti ad un simbolismo quasi alchemico, strizzando l’occhio ad altri artisti italiani, colonne portanti dell’arte moderna e contemporanea, da De Chirico all’Arte Povera, passando per Pistoletto.

Abbiamo èarlato con l’artista a proposito del suo percorso personale, dell’incontro con la città di Tel Aviv e di questa ultima mostra.
Come è cominciato il tuo percorso artistico?
Quasi per caso, perché inizialmente ho studiato Cultural Studies al LCC di Londra, dove mi sono inizialmente approcciata all’arte attraverso teoria e ricerca, ma non conoscevo ancora l’arte contemporanea come linguaggio specifico con cui esprimersi.
Arrivata a Tel Aviv, nel 2014, ho cominciato a lavorare come illustratrice e mi sono ritrovata a condividere il mio studio con una designer e a frequentare numerosi artisti israeliani con cui mi sono immersa, a 360 gradi, nel mondo dell’arte israeliana contemporanea.
Così ho iniziato ad avvicinarmi all’arte plastica, prima come autodidatta, poi frequentando il Visual Art Center, dove ho cominciato a praticare la pittura accademica, che mi ha portato alla necessità di cercare uno studio più grande, dove un giorno è passata, sempre per caso, la curatrice Gil Cohen, che mi ha proposto di fare la mia prima mostra a Gerusalemme, nel 2018.
Questo è stato davvero l’inizio di un percorso, che mi ha portato da una mostra all’altra fino alla scelta, nel 2020, di iscrivermi al Master di Arte Contemporanea a Bezalel dove, oltre a studiare, viene dato in dotazione anche uno studio, uno spazio in cui immergersi anima e corpo.
In questo luogo ho concepito e prodotto le opere della mia ultima mostra che può essere vista come l’ultimo capitolo di un trittico cominciato nel 2021 presso la Galleria P8 – altro omaggio a Giotto, ndr. – seguito, quest’anno, da Nexus, un’installazione video che è stato il mio lavoro conclusivo per completare l’MFA a Bezalel, fino a quest’ultima mostra presso la Braverman Gallery.

Come ti definiresti, guardando il tuo lavoro dal punto di vista della pratica multidisciplinare?
Mi sento un’artista quasi “rinascimentale” nel senso in cui, nel Rinascimento, si adottavano e sperimentavano tecnologie diverse, purtroppo oggi in parte andate perse a causa del sopravvento della catena di montaggio industriale e le sue conseguenze anche nell’arte contemporanea. Io, tuttavia, amo ancora utilizzare un approccio multifocale che implica uno studio a tutto tondo: dai manuali di biologia e chimica al taglio e l’incastonatura delle pietre dei mosaici, con la stessa tecnica utilizzata in epoca bizantina. Credo che, anche nell’arte, vada utilizzato un approccio di tipo olistico in cui il tutto è più della somma delle sue parti, attraverso un “mosaico” di tecnologie.

Quanto ha influenzato la tua arte la scelta di vivere in Israele e, in particolare, a Tel Aviv?
Avevo lasciato l’Italia già a 18 anni e, pur essendoci cresciuta, gli anni più importanti intellettualmente non li ho vissuti lì, ma all’estero. Il vero percorso è cominciato a Londra ma Israele, sicurante, ha avuto un ruolo cruciale perché è un melting pot, il che fa parte del mio DNA, avendo un padre mezzo italiano e mezzo americano e una madre rumena di origini a sua volta mezze turche e mezze greche. Forse questo mi ha spinto a cercare di ricostruire le mie radici in un Paese di contrasti fortissimi che mi ha esposto, inevitabilmente, al di fuori dalla comfort zone della “grande bellezza” italiana, in cui si tende ad “accomodarsi”. In Israele, invece, non ci si adagia mai. L’“armonia” è qualcosa che va cercata, scoperta, costruita. Forse proprio questo mi ha spronato a “tirar fuori” il mio lato artistico, a cercare delle “soluzioni” creative. Soprattutto nel contesto di Tel Aviv, che è una finestra sul mondo, un ottimo esempio di convivenza tra realtà diverse, e una costante fonte di ispirazione.

La mostra, in esposizione presso Braverman Gallery, chiude il 22 ottobre

 

 

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


1 Commento:

  1. Allora è vero che IL TALENTO quello diverso , assoluto a tutto tondo viene prima o poi riconosciuto! Finalmente è arrivato il tuo momento cara Elena .


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