Cultura
Woodstock: le dieci performance che hanno “incendiato” il festival

I magic moment del leggendario concerto andato in scena cinquant’anni fa a Bethel

Non è facile scindere la storia dal mito. Woodstock non è stato solo un concerto, ma un evento culturale e sociale la cui portata è ancora oggi, a distanza di 50 anni, evidente a tutti. Per tre giorni di musica, “pace e amore”, oltre 500.000 giovani giunsero a Bethel (un’ora di macchina a nord di New York) da ogni angolo del mondo, non immaginando che l’eco di quelle performance sarebbe arrivato bel oltre il nuovo millennio. Nei grandi prati, trasformati in distese di fango per la pioggia battente, si esibirono alcuni degli artisti-simbolo della controcultura, che con il rock non si accontentavano di raccontare la contingenza, ma che, con la loro musica, volevano cambiare il mondo.

Probabilmente non hanno cambiato il mondo, almeno non come era nelle loro intenzioni, ma i 31 artisti che si sono esibiti a Woodstock ci hanno lasciato alcune performance che sono entrate prepotentemente nell’immaginario collettivo. Ecco quali sono, secondo noi, le 10 canzoni indimenticabili di quel festival che, grazie anche all’omonimo film, non smette mai di affascinare le nuove generazioni per la sua carica rivoluzionaria.

Santana – Soul Sacrifice 

Il 16 agosto del 1969, quando salirono sull’infuocato palco di Woodstock alle due del pomeriggio, i Santana, nei quali spiccava il talento di un giovane chitarrista messicano di nome Carlos, erano un gruppo semisconosciuto, che aveva pubblicato il primo album soltanto un mese prima. Sono bastati quarantacinque minuti di concerto, con un’ indimenticabile esecuzione di Soul sacrifice, per trasformare quella band, che si era formata pochi mesi prima a San Francisco, in una delle più acclamate a livello mondiale. Indimenticabile, per velocità, precisione e intensità, l’assolo di Micheal Shrieve, che aveva appena compiuto vent’anni.

Jimi Hendrix – Star Spangled Banner

Hendrix aveva un rapporto carnale con la sua chitarra, era quasi un’estensione del suo corpo, la amava e ci faceva l’amore continuamente. L’uso innovativo del feedback, delle distorsioni e del wah wah, oltre all’utilizzo della chitarra da mancino con le corde montate da destro, invertendo il lato di utilizzo della chitarra, spiegano solo in parte la sua unicità. In questo senso, è sufficiente ammirare la sua leggendaria esibizione del 18 agosto 1969 a Woodstock, dove suonò una versione da brividi dell’inno americano simulando gli spari e i bombardamenti del Vietnam, per capire le ragioni per cui è considerato universalmente il chitarrista più influente di sempre.

Janis Joplin – Piece of my heart

L’inconfondibile voce di Janis Joplin, unica per potenza, per estensione, per timbro, per capacità interpretativa ed emozionale, è il segreto del successo di una delle più grandi interpreti della storia del rock, oltre che una delle più influenti ancora oggi. Una voce che usciva dalle viscere e si faceva rito, messa pagana, canto e incanto. Forse il brano che ha incantato maggiormente il pubblico di Woodstock è stato la straordinaria Work me lord, una preghiera meravigliosa e al tempo stesso disperata che si chiude con un’improvvisazione vocale che lascia ancora oggi a bocca aperta.

The Who – My Generation

Il concerto degli Who, iniziato alle quattro del mattino, fu il più lungo di tutto il festival, ma la potenza live del quartetto inglese risvegliò all’improvviso anche gli spettatori più assonnati. Reduci dal successo di Tommy, uno dei concept album più influenti della storia del rock, gli Who hanno caricato di adrenalina il pubblico, soprattutto nell’indimenticabile performance di My Generation, l’undicesima miglior canzone di tutti i tempi secondo Rolling Stone, che è stata per anni l’inno dei Mod inglesi. My generation è stata influenzata musicalmente  dal R&B statunitense, in particolare nella struttura “call and response” dei versi della canzone, con la ripetizione ossessiva del coro “Talkin’ ‘bout my generation” e la celebre frase “Spero di morire prima di diventare vecchio”. Memorabile, nella performance di Woodstock, il lungo assolo di basso di John Entwistle,  di notevole difficoltà tecnica, al quale si sono ispirati molti bassisti dei decenni successivi, senza mai raggiungere, però, lo stesso risultato.

Joe Cocker – With a little help from my friends

Peccato che la voce ruvida ed emozionante di Joe Cocker, il maggior interprete bianco di sempre del blues, sia troppo spesso associata al sensuale spogliarello di Kim Basinger in Nove settimane e mezzo, accompagnato dalle note della sua You can leave your hat on, non certo il suo capolavoro. Molto meglio ricordarlo per la sua strepitosa versione di  With a little help from my friends dei Beatles, assai più intensa dell’originale cantata da Ringo Starr, che chiuse il set del bluesman britannico, uno dei vertici emotivi del festival.

Joan Baez – We shall overcome

Joan Baez venne ribattezzata “l’usignolo di Woodstock” dopo la sua leggendaria esibizione al festival nel 1969, dove si presentò al sesto mese di gravidanza, intervallando la sua esibizione di We shall overcome con messaggi politici, condividendo con 500.000 persone le sue idee di pace e di giustizia sociale con la sua consueta grinta da pasionaria del folk.

Jefferson Airplane – White Rabbit

La band-simbolo della controcultura di San Francisco chiuse la serata tra sabato 16 e domenica 17 agosto esibendosi alle otto del mattino. Guidati dal carisma di Grace Slick, i Jefferson Airplane incantarono la spianata di Bethel con la loro lisergica White Rabbit, una sorta di marcetta folk-rock dedicata ad Alice nel paese delle meraviglie ma, ancor più, agli effetti allucinogeni delle sostanze psicotrope che hanno segnato quel periodo.

Creedence Clearwater Revival – I put a spell on you

I put a spell on you è uno dei più famosi standard blues di Screamin Jay Hawkins, intepretato con successo da una pletora di cantanti, da Nina Simone a Brian Ferry. Tra le versioni live più belle della canzone, spicca certamente quella dei dei Creedence Clearwater Revival, straordinaria band californiana guidata da John Fogerty, nella notte del secondo giorno di Woostock, un mix irripetibile tra brividi e adrenalina.

Crosby, Stills, Nash & Young – Suite: Judy Blues Eyes

Nessuno ha incarnato meglio di Crosby, Stills & Nash, il supergruppo per antonomasia,  il suono rilassato ed evocativo della West Coast all’epoca della Summer of love. Le loro straordinarie armonie vocali raccontavano storie personali e collettive, grazie a testi densi e ricchi di passione civile. Un’alchimia perfetta, quella tra le voci di David Crosby(Byrds), Stephen Stills(Buffalo Springfield) e Graham Nash(Hollies) che ha prodotto canzoni originalissime su amore, politica e libertà. Ne è un fulgido esempio la strepitosa Suite: Judy Blues Eyes che, alle 3 del mattino, inaugurò la loro memorabile performance di Woodstock insieme al sodale di tante avventure Neil Young.

Richie Havens – Motherless child

Oltre a star già affermate come Jimi Hendrix, The Who e Crosby, Stills &Nash, Woodstock fu l’occasione per lanciare le carriere di alcuni artisti più di nicchia, tra cui non possiamo non citare il cantante e chitarrista afroamericano Richie Havens, divenuto in seguito noto per la sua particolare pennata, vigorosa e veloce, e per il suo incredibile senso del ritmo. La sua Motherless child è conosciuta per lo più come “Freedom”, parola da lui ripetuta come un mantra per qualche minuto, diventando uno dei momenti più coinvolgenti e politici del festival che ha celebrato, attraverso la musica, la libertà in tutte le sue sfaccettature. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

Gabriele Antonucci
Collaboratore

Giornalista romano, ama la musica sopra ogni altra cosa e, in seconda battuta, scrivere. Autore di un libro su Aretha Franklin e di uno dedicato al Re del Pop, “Michael Jackson. La musica, il messaggio, l’eredità artistica”,  in cui ha coniugato le sue due passioni, collabora con Joimag da Roma


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