Israele
150 giorni dal 7 ottobre

Una fotografia del Paese

A quasi 5 mesi dal 7 ottobre Israele si trova a fare i conti su molti fronti. Non solo al confine con la Striscia e con il Libano, ma anche all’interno del proprio governo e persino nella corsa alle municipali. La posta in gioco è, come sempre, la democrazia del Paese, già traballante da anni e ora messa duramente alla prova nel corso di uno dei momenti più difficili della Storia di Israele, che per la prima volta si è trovato ad andare alle urne in tempi di guerra.

I risultati delle elezioni municipali non sono mai stati il barometro di quelle nazionali, ma da alcuni fenomeni, ormai ricorrenti da anni, si può cominciare a fare alcune analisi su un Paese che era già in crisi ben prima del massacro di Hamas durante il Sabato Nero.
La scarsa affluenza alle urne – che quest’anno non ha superato il 50% dei potenziali elettori – si spiegherebbe in parte a causa dello svilimento dovuto a un conflitto ancora in corso e di cui non si vede la fine ma, in gran parte, a causa di quella tendenza, orami consolidata, nel preferire chi già si conosce, piuttosto che correre il “rischio” del cambiamento. Questo non riguarda solo l’elettorato che da 15 anni – salvo la parentesi di un anno dell’esecutivo “arcobaleno” Bennett-Lapid – si affida a qualunque maggioranza guidata da Benjamin Netanyahu, ma anche i cittadini chiamati a scegliere per il sindaco, che hanno optato per chi era già in carica.

Va specificato che le elezioni municipali tenutesi martedì 28 febbraio sono state molto discusse proprio poiché, a causa della guerra, molti dei candidati – oltre 600 – non hanno potuto parteciparvi, perché impegnati al fronte. E chi vi ha partecipato, a causa del continuo rinvio rispetto alla data iniziale – prevista per il 31 ottobre ma posticipata più volte proprio a causa del conflitto in corso – non ha avuto né il tempo né il modo di condurre una vera e propria campagna elettorale.
Risultato finale: poca affluenza e la tendenza a confermare i sindaci uscenti, fenomeno che in parte si può spiegare come risultato di una “paura per il cambiamento”: da un lato dovuto alla forte sensazione di insicurezza dettata dai tempi di guerra, dall’altro risultato di quella “dictatocrazia” – termine coniato da diversi analisti israeliani – ovvero la fiducia, indiscussa, per chi è già al potere, che spiegherebbe, anche, l’indiscusso successo di Netanyahu negli ultimi quindici anni.
Altro fenomeno che si è constatato in queste e, in generale, nelle municipali degli ultimi anni, è la partecipazione sempre più numerosa degli ultraortodossi che nelle elezioni nazionali, di fatto, si dividono negli unici due partiti che li rappresentano in quanto ashkenazi e misrachi, mentre nelle circoscrizioni comunali – con molte più liste a disposizione – hanno finalmente l’opportunità di essere rappresentati da chi può meglio difendere i loro interessi su scala locale.
Il disimpegno da parte della società laica rispetto a quello degli ortodossi descrive una tendenza sottolineata anche da un gap demografico destinato ad amplificarsi e le cui conseguenze si fanno sentire sempre di più in tempi di guerra, quando gli ultraortodossi – non partecipando al servizio militare – lasciano un vuoto che, da anni, viene condannato dalla società laica israeliana.

Questa settimana il programma satirico Eretz Nehederet ha chiuso la puntata con il solito personaggio del tassista – finto – che intervista persone vere, mentre le porta a casa. Dopo le famiglie degli ostaggi e quelle dei soldati, questa volta è toccato ai riservisti ortodossi – una rara minoranza – che tornavano a casa dopo quasi 150 giorni al fronte. La domanda posta a tutti era la stessa: “Perché i religiosi non vogliono arruolarsi?” e la risposta, pur se nelle diverse sfumature, anche: “per paura di assimilarsi ai laici: sarebbe la condanna a morte per la nostra comunità”. “Ma così state condannando a morte la nostra” ha risposto prontamente il comico del famoso programma televisivo.
Dal 7 ottobre non si parla d’altro e ieri il ministro della Difesa Yoav Galant ha lanciato un appello chiaro alla nazione: “Ci troviamo in un genere di guerra che non avevamo mai visto in 75 anni. Israele è lo Stato del popolo ebraico, e apprezziamo tutti coloro impegnati nello studio della Torah. Ma senza l’esistenza fisica – ha ribadito – non c’è esistenza spirituale. Tutte le parti della società devono dare il loro contributo, inclusi gli ortodossi”. La questione della leva obbligatoria anche per i religiosi è sempre stata una spina nel fianco per tutti i governi guidati da Netanyahu, ma il massacro del Sabato Nero ha determinato un punto di non ritorno, che ora dovrà essere affrontato da questo esecutivo, inclusi i due partiti ortodossi che ne fanno parte.

Oggi più che mai, a causa delle ingenti perdite tra i soldati: dal 7 ottobre i caduti sono 582, circa la metà di quanti hanno perso la vita in un conflitto come quello della Prima Guerra del Libano, durato 18 anni.
Sono trascorsi quasi cinque mesi dall’inizio della guerra e ancora non si vede la fine se non il dolore, ogni giorno che passa, sia per i famigliari dei soldati che per quello delle famiglie degli ostaggi. Sono ancora 134 i prigionieri nell’enclave e di questi almeno 31 avrebbero perso la vita, come confermato da coloro che sono usciti dalla prigionia.
Dopo 150 giorni di sofferenza, anche le famiglie dei rapiti cominciano a dividersi per quanto riguarda la loro posizione nei confronti del governo e di un possibile “cessate il fuoco”.

C’è chi, da mesi, manifesta davanti alla Knesset per un ritiro definitivo da Gaza e per le dimissioni del premier. C’è chi, invece, ritiene che l’esecutivo non sia abbastanza duro con il gruppo terrorista. Tra questi, coloro che, da oltre un mese, cercano di bloccare, presso il valico di Kerem Shalom, i camion di aiuti umanitari. Alcuni dei parenti degli ostaggi si sono uniti a un movimento più grande che si chiama “Ordine 9”, pseudonimo che fa riferimento all’“Ordine 8”, il richiamo immediato inviato ai riservisti in caso di emergenza, come è avvenuto il 7 ottobre.  «Siamo venuti fin qui per mostrare al primo ministro che avrebbe dovuto fare come fece Golda Meir durante la Guerra di Yom Kippur: ‘Non una goccia d’acqua finché tutti i nostri ostaggi torneranno a casa’ – ha dichiarato Danny Elgert, il cui fratello Itzik è stato rapito nel corso del Sabato Nero –. Siamo qui per mostrare a Netanyahu, che se non lo fa lui, i camion li fermiamo noi. Chiediamo a tutti i cittadini del Paese di venire al checkpoint e bloccare con il proprio corpo questi aiuti che di umanitario non hanno nulla: perché non finiscono né ai civili né agli ostaggi, ma solo nelle mani di Hamas».

Eppure, aldilà delle spaccature nel governo, tra l’opinione pubblica e persino tra le famiglie degli ostaggi e quelle dei soldati, le famiglie degli uni non abbandonano mai quelle degli altri. Sono sempre di più i famigliari dei rapiti che partecipano ai funerali e alle shiva per i soldati, stringendosi alle famiglie di chi ha sacrificato la propria vita pur di riportare a casa chi è stato rapito da Hamas: il paradosso di un Paese sempre più diviso politicamente, ma di una nazione più unita che mai.

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


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