Voci
7 ottobre 2023 : il mio prima; il mio dopo

Una riflessione, una lettera aperta

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa lettera da Raniero Fontana

In quasi 30 anni vissuti in Israele ho ‘capitalizzato’ un certo numero di buoni amici. Uno di loro, a me particolarmente caro, mi ha detto un giorno che “io ero partito in tempo”, riferendosi al mio rientro in Italia sette anni fa. Per quanto vicino mi fosse, gli sfuggiva dunque il fatto che io volessi invece restare. E davvero, mai io avrei immaginato di dover lasciare Israele. Ma capivo la sua preoccupazione crescente per la piega politicamente illiberale e religiosamente settaria che il paese aveva preso; egli anche conosceva fin troppo bene i problemi che, da non-ebrei, mia moglie ed io dovemmo affrontare. E riteneva che questi fossero certamente destinati ad aumentare. Non è per me di grande consolazione la sua recentissima ammissione di non avere dato importanza a quello che io avevo visto con molto anticipo, in anticipo di oltre venti anni, ritenendo che io dessi allora un peso eccessivo a idee presenti nel paese, ma del tutto marginali. Soprattutto lavorando sul tema del noachismo, avevo intravisto cose che erano per lo più ignorate dagli stessi israeliani. Nel giro di un paio di decenni esse si sono spostate dalla periferia per occupare il centro dell’attuale agenda religiosa e politica del governo di Israele. Dalla cucina, dunque, sono passate alla tavola imbandita. Ma non è certo un merito descrivere adesso cosa c’è nel piatto.

Leggo in un resoconto di Tomer Persico, collaboratore dell’Istituto Shalom Hartman di Gerusalemme, che il Decisiveness Plan del controverso Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, portavoce della destra più estrema, religiosa e nazionalista, è basato non su considerazioni di geo-politica, ma sul Talmud. La sua proposta di soluzione del conflitto Israelo-Palestinese prevede tre opzioni: 1) la resa e l’accettazione di uno statuto di residenza privo del diritto di voto 2) l’emigrazione 3) la sottomissione alla forza militare di Israele. Tre opzioni riprese alla lettera dal commento dei maestri di Israele al racconto della conquista della Terra di Israele da parte di Giosuè (cfr. Levitico Rabbah 17,6). Tre opzioni “da adottare anche oggi”. Il che, in realtà, non è cosa tanto nuova. Già negli scritti di Menachem Kahane, attivista e leader del movimento Kach, ritroviamo pari pari gli stessi riferimenti testuali e lo stesso discorso. Tutte cose che io ho appreso non solo dai libri, ma dalla mia personale esperienza. Perciò io sapevo bene che finché avessi mantenuto lo statuto di residente-permanente (ger toshav) avrei mostrato di sapere stare al mio posto. E sentivo chiaramente che questo sarebbe andato bene a tanti, religiosi o laici, e non tutti seguaci di Kahane. Di fatto, corrispondeva perfettamente ai criteri di quest’ultimo, come pure di Smotrich, ma nessuno ne era scandalizzato, neppure quelli che oggi rifiutano il piatto che hanno davanti.

Penso soprattutto agli amici dello stesso Istituto Shalom Hartman, che pur mi hanno accolto e aiutato a crescere intellettualmente e umanamente, e dove un tema sensibile come quello del rapporto al non-ebreo (goy) veniva spesso affrontato dal punto di vista della tradizione ebraica e dell’attualità israeliana. Ho seguito conferenze bellissime su questo tema e su tematiche affini. Avi Sagi sapeva come parlarne. Una volta lo ascoltai richiamare l’attenzione persino sulla debolezza di chi, in quanto straniero (ger), non aveva legami utili e sostegno efficace a una chimerica carriera universitaria. Pensare a mia moglie fu questione di un attimo. Le cose che Sagi diceva erano giuste e potevo confermarle. Era un discorso perfetto al punto che la presenza concreta di un non-ebreo nel suo uditorio non avrebbe giustificato la modifica di una sola virgola. Il che significa anche quanto fosse auto-referenziale. Provo ancora rabbia al pensiero che tanta consapevolezza del problema non servì a nulla; certamente non ci aiutò a restare nel paese. Di fatto, la paventata partenza da Israele sarebbe avvenuta secondo copione, ma un copione scritto da altri; da chi, come il rabbino Yitzchak Ginsburgh, voleva il paese libero da corpi estranei (gormim zarim). Egli, per arrivare a questo risultato, proponeva di limitare agli stranieri residenti in Israele i mezzi di sostentamento (parnasah) in modo da costringerli a partire; ad andarsene, per così dire, di loro iniziativa. Le parole di questo rabbino, che ho riportato nei miei testi, le ripetevo agli amici. Volevo che capissero che la nostra partenza sarebbe stata una vittoria per lui e per i tanti come lui. A costo di essere ingrato e ingiusto con chi tanto si è speso per noi nel corso degli anni trascorsi in Israele, oggi dico a tutti loro, a tutti quanti, che non siamo stati difesi, non abbastanza, non fino in fondo. Lo shamartem alenu. E ho temuto per Israele. Come se la nostra partenza, statisticamente insignificante, potesse avere un contraccolpo terribile sulla vita del paese. Era prima del 7 ottobre.

So bene di aver dato involontariamente tanta soddisfazione a rabbini e ministri del tipo di M. Kahane, Y. Ginsburgh, B. Smotrich: da residente, prima; da emigrante, poi. Per dirla tutta, non solo a loro. Il mio statuto aveva il beneplacito generale. Anche da sinistra. Un attivista per i diritti dei palestinesi, anni fa, in un breve scambio nei corridoi dell’Università Ebraica di Gerusalemme, mi disse che avrei fatto meglio a lasciare il paese se lo avvertivo ostile ai non-ebrei. Rimasi di stucco. Dubito che lo avesse mai detto ai palestinesi che difendeva. Sono anzi certo che a quelli non abbia mai prospettato di lasciarlo per problemi di VISA. Tuttavia, nonostante fossero circa vent’anni che mi trovavo in Israele, agli occhi di questo universitario di sinistra io ero un corpo non meno estraneo di quanto lo fossi agli occhi di quelli contro cui combatteva. Democrazia e diritti dovevano evidentemente servire alla difesa di un settore soltanto; ma per me, e per chi come me non ne faceva parte, c’era il solito biblico Giosuè.

È un fatto che io e mia moglie non facessimo parte dei settori principali entro i quali sono raccolti i non-ebrei presenti in Israele: arabi, lavoratori stranieri, operatori di organismi occidentali, diplomatici e membri di chiese. Ne ho scritto nel mio Diario noachide, il resoconto di ventisei anni di Israele. Devo ancora aggiungere che non fu quella l’unica volta che ho avuto profondi dissapori con ebrei laici e di sinistra. In verità, più in Italia che in Israele. Li ho sempre visti andare in tilt ogni volta che non capivano da dove parlasse l’interlocutore che avevano davanti. Con poche felici eccezioni, tra le quali metto certamente il compianto Bruno Segre, a me sembrano spesso a disagio nella loro pelle, e anche un pò da salotto, benché capaci di straordinarie devozioni.

Ritornando ora al mio universitario di sinistra, io lo immagino tra quelli che storcono il naso davanti alle proteste di piazza che da mesi hanno luogo in Israele, poiché focalizzate sulla qualità democratica della vita interna del paese e non sul conflitto israelo-palestinese. Comunque stiano le cose, il mio vero problema è accettare come ragioni quelle che non tengono conto degli altri. Io pure ho le mie, per quanto pochi in Israele le abbiano notate, da una parte e dall’altra degli schieramenti in campo. Ma questo non diminuisce il mio debito con Israele. Ecco perché ho voluto pubblicamente dirne bene, tanto più in un momento critico come questo – se non ora, quando? In quell’occasione (Iarchon 229, 2024) ho citato un insegnamento basilare della tradizione ebraica secondo cui il valore di ogni singolo essere umano è pari a quello dell’intero mondo (cfr. mSanhedrin 4,5). Ho respinto, almeno nelle intenzioni, la falsa morale che si nasconde dietro ai numeri dei morti per accusare Israele di avere perso il senso del bene e del male. Ho cercato di non confondere ciò che è legittimo e ciò che è morale. Ho soprattutto mantenuto intatta la mia fiducia nei molti amici e conoscenti che abbiamo in Israele e che non vanno certo fieri di quello che sta accadendo a Gaza, per quanto questa guerra sia comunque ritenuta necessaria. Il 7 ottobre ha significato per loro e per l’intera nazione un trauma immane. Ma anche per me, su altra scala, grande è il significato di una tale data. Io ho vissuto male il mio non voluto rientro in Italia. Ne ho provato addirittura vergogna. Un sentimento che, tra gli stessi ebrei, molti non hanno. Dopotutto, il paese per loro è sempre aperto. Per me, invece, è perso. Tuttavia, se io non faccio parte di Israele, Israele fa parte di me, della mia storia, della mia vita. Parte preziosa e inalienabile. Non potrà essermi tolta da nessuno, né da destra né da sinistra. E questo l’ho capito perfettamente proprio adesso, dopo il 7 ottobre.

Raniero Fontana


1 Commento:

  1. Caro Raniero,
    La perdita del paese che abbiamo condiviso e amato (con tutte le delusioni e imperfezioni) non può essere finale.
    Sembra utopico dirlo nei giorni bui che stiamo vivendo, ma credo in una ricostruzione morale e culturale, basata sulla tolleranza.
    Il “capitale” etico accumulato da tanti non deve essere dilapidato.
    Attendo il giorno di condivisione di sorrisi e nuove speranze per noi.
    Un forte abbraccio a Andreina e a te, amici cari.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.