Hebraica
Il gher: lo straniero nella Torah

Tre riflessioni per tre parashot

“Non opprimerai lo straniero, poiché straniero tu fosti nel paese d’Egitto”. Questa famosa esortazione, con alcune variazioni, si ripete nella Torah per 36 volte: il doppio di 18, che è il numero che la gematria (il sistema di attribuzione di un valore numerico alle lettere) assegna alla parola Chai (חי ovvero “vivente”), uno dei simboli dell’ebraismo. Parole note, spesso anche ai non particolarmente esperti del testo biblico; usate, riproposte, riciclate in contesti tra loro così diversi da avvicinarsi pericolosamente al dirupo dell’inflazione. Come riprenderle e meditarle nel loro significato più profondo e attuale? Proviamo a farlo con una rassegna di tre articoli che riflettono su tre diverse parashot (porzioni settimanali della Torah) contenenti appunto le norme di comportamento verso lo straniero.

Mishpatim: la prima legge contro la xenofobia

La prima riflessione arriva da Rabbi Jonathan Sacks, Rabbino Capo della Gran Bretagna (suo ultimo libro tradotto in italiano è Non nel nome di Dio: confrontarsi con la violenza religiosa per Casa Editrice Giuntina). Sul suo sito, Rabbi Sacks commenta Mishpatim, la parashà che corrisponde a Esodo 21:1 – 24:18. Essa elenca numerose leggi sulla giustizia sociale e quella che riguarda il trattamento dello straniero è ripetuta due volte:

“Non molesterai lo straniero e non l’opprimerai, perché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto”; e successivamente: “Non opprimere lo straniero; voi conoscete l’anima dello straniero, poiché foste nel paese d’Egitto”.

La ripetizione, osserva Rabbi Sacks, è un indicatore di quanto questa prescrizione sia importante. I termini utilizzati e il loro significato, continua, sono ampiamente discussi nella letteratura rabbinica. Cominciando dalla differenza tra “molestare” e “opprimere”, azioni che vengono interpretate, rispettivamente come “approfittarsi materialmente” e “aggredire verbalmente”. Sulla dimensione della violenza verbale, le riflessioni rabbiniche si soffermano a lungo, per via – afferma l’autore – della “consapevolezza [da parte dei rabbini] del linguaggio come creatore o distruttore di legami sociali. Come osserva Rabbi Eleazar, le parole aspre e dispregiative toccano l’autostima in un modo che altri torti non fanno. In più, come chiarisce Rabbi Samuel bar Nachmani, i torti materiali possono essere riparati, mentre il discorso che ferisce no. Anche dopo le scuse, il dolore (e il danno alla reputazione) rimane. Lo status di uno straniero nella società è specialmente sensibile. Lo straniero è un outsider che non condivide coi nativi una memoria, un passato, un senso d’appartenenza ed è cosciente della sua vulnerabilità. Dobbiamo perciò essere molto attenti a non ferirlo ricordandogli che non è uno di noi”.

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Continuando a riflettere sulle parole, quella usata nelle prescrizioni normative che riguardano lo straniero è gher, la stessa che designa i convertiti all’ebraismo. Un termine profondamente diverso da zar e nochri, che si traducono sempre come “straniero” ma presentano una forte connotazione di “estraneo, alieno”: “La parola gher, al contrario, indica una persona non israelita di nascita ma che si stabilisce a vivere, a lungo termine, nella società israelita. La tradizione orale di conseguenza ha identificato due tipi di gher: il gher tzedeq, o convertito (Rut ne è il classico esempio) e il gher toshav, il “residente straniero” che ha scelto di vivere in Israele senza convertirsi all’ebraismo ma acconsentendo di rispettare le sette leggi noachidi obbligatorie per tutta l’umanità. La legislazione sul gher toshav rappresenta la forma biblica dei diritti delle minoranze”.

I passaggi della Torah che richiamano le norme di comportamento nei confronti del gher, prosegue Rabbi Sacks, non si limitano a una ripetizione ma si arricchiscono di variazioni dense di significato. Non solo lo straniero non va oppresso, ma va trattato con equità e amato:

“Quando uno straniero risiede con voi nel vostro paese, non lo maltratterete. Lo straniero che risiede fra voi, lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto. Io sono il Signore, il vostro Dio” (Levitico, 19, 33-34).

Ma perché tutta questa enfasi e queste ripetizioni? Non solo per sottolineare la fondamentale importanza della norma, ma soprattutto perché l’empatia e la buona predisposizione verso il diverso non sono sentimenti naturali: sono una pratica, un’educazione che va ripetuta e ribadita con forza perché possa compiersi. Fin dalla storia antica vediamo come i popoli distinguano chiaramente, anche con la violenza, tra chi appartiene e chi no (si pensi al termine “barbaro” coniato dai Greci) e il testo biblico stesso abbonda di episodi in cui i protagonisti, per via della loro condizione di stranieri, vivono situazioni di pericolo, sono vulnerabili al punto di dover mentire sulla loro identità: come Abramo e Sara in Egitto, che per proteggersi si dichiarano fratello e sorella; o Isacco e Rebecca presso Abimelech, re dei Filistei, che usano lo stesso stratagemma.

Il testo biblico dunque, conclude Rabbi Sacks, si presenta come un manifesto rivoluzionario contro la xenofobia: “Col senno di poi [guardando agli avvenimenti della storia antica e contemporanea], è terrificante capire quanto la Torah abbia preso seriamente il fenomeno della xenofobia, dell’odio verso lo straniero. È come se la Torah dicesse, con la massima chiarezza: la ragione è insufficiente e l’empatia è inadeguata. Solo la forza della storia e della memoria è abbastanza potente da formare un contrappeso all’odio”.

 

Va’etchanan: lo “scivolo identificativo” o l’empatia verso le situazioni che non ci riguardano

La seconda riflessione riguarda la parashà di Va’etchanan (“E io supplicai”, Deuteronomio 3:23-7:11) che si legge a Shabbat Nachamu (lo Shabbat che segue Tisha B’Av). In essa, Mosè contempla la Terra d’Israele dalle rive del Giordano e pronuncia di fronte agli Israeliti il suo ultimo discorso: un’esortazione a rispettare i Comandamenti e lo Shabbat una volta entrati nella Terra Promessa, in ricordo e in onore della liberazione dalla schiavitù d’Egitto. Il monito di conservare la memoria dell’Egitto (e quindi di cosa significhi essere stranieri e oppressi) è ripetuto più e più volte. Rachel Farbiaz su My Jewish Learning rileva un aspetto interessante: Mosè si rivolge alla generazione nata nel deserto, che non ha vissuto quegli eventi, non ha conosciuto sulla propria pelle l’esperienza della schiavitù e il miracolo della liberazione. Ma ciò non significa che il discorso – che implica, insieme alla memoria, anche il rispetto verso chi vive la condizione di straniero oggi – sia meno valido, anzi. Farbiaz lo definisce uno “scivolo identificativo”, una strategia retorica voluta: “Un mezzo eccezionalmente potente di gettare le basi dell’ingiunzione contro l’oppressione dello straniero che sta al cuore della Torah. (…) Il “salto generazionale” di Mosè chiede di essere interpretato non tanto come una descrizione fedele di fatti storici, quanto come un compito normativo della nazione. Con questa accorta strategia retorica, Mosè ci ingiunge di indossare lo sforzo d’immaginazione che l’empatia richiede”.

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Similmente a Rabbi Sacks, Farbiaz vede nell’uso della ripetizione una prova della conoscenza del testo biblico dell’animo umano. L’empatia verso situazioni non personalmente vissute non è un sentimento innato, ma un lavoro, una pratica (Farbiaz parla di “muscolo dell’empatia”): “Proprio come trasportiamo noi stessi oltre i confini del passato per identificarci nei nostri antenati schiavi, così possiamo trasportarci oltre i confini dell’etnia, della nazione, dei mezzi e della lingua che ci separano dallo straniero contemporaneo. Lo “scivolo di identificazione” si può dunque comprendere come un allenamento, attraverso il quale il pubblico di Mosè si prepara allo sforzo immaginativo che i nostri doveri verso lo straniero richiedono”.

 

Ekev: chi è lo straniero?

La terza e ultima riflessione è proposta su Orthodox Union da Rabbi Eliahu Safran e riguarda la parashà di Ekev (Deuteronomio 7:12 – 11:25), che segue Va’etchanan ed è stata letta proprio lo scorso Shabbat. In questa parashà, che contiene il prosieguo del discorso di Mosè, l’obbligo verso lo straniero viene ribadito e rafforzato:

“Siate giusti con l’orfano e la vedova; e amate lo straniero, dategli pane e indumenti; amerete lo straniero perché stranieri voi foste nel paese d’Egitto”.

“Amerete lo straniero poiché stranieri voi foste”, commenta Rabbi Safran, è “uno degli obblighi più forti e controintuitivi della Torah”. E continua: “Questa prescrizione ci dice di andare contro tutto ciò che i nostri istinti ci suggeriscono. Ci dice di guardare oltre ciò che è familiare e sicuro e di cogliere in colui che è diverso e alieno la stessa fondamentale bontà e santità che Dio conferisce a tutte le sue creature”. La profondità e la complessità di questo concetto fanno sì che spesso si tenti di sminuirlo o di eluderlo dando del gher, lo straniero, la definizione che sul momento è più comoda. Ma chi è il gher? Rabbi Safran racconta di averne discusso con il figlio, Nathan, e di aver ricevuto una risposta davvero interessante: “La gente pensa che l’ammonizione di non maltrattare i gherim si rivolga a uno specifico gruppo di persone che si trovano in circostanze uniche che le qualificano come straniere. Ma io penso che chiunque possa sentirsi come un gher in una data situazione sociale. Il nuovo bambino in classe. Il nuovo collega in ufficio. È l’inevitabilità delle dinamiche sociali”.

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Straniero dunque, conclude Rabbi Safran, può essere chiunque, possiamo essere noi, anche solo per un momento, a volte persino anche all’interno della nostra comunità, della nostra cerchia. E con questa consapevolezza si rinnova il significato attuale del testo biblico: la storia del popolo ebraico insegna che la condizione di gher non è immutabile; soprattutto, che la figura del gher va vista in prospettiva, non solo come l’oppresso del presente, ma soprattutto come preludio di una futura appartenenza: “Senza galut (esilio) non ci sono grazia e redenzione. Senza gher non c’è cittadino. Il nostro destino è legato al successo del gher. Proprio perché la nostra esperienza di stranieri ci ha condotti ai piedi del Sinai, dobbiamo riconoscere che in ogni gher c’è il potenziale per la stessa esperienza. È nostro obbligo aiutare, non intralciare; aprire i cuori, non indurirli”.

Silvia Gambino
Responsabile Comunicazione

Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.


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