Cultura
“Alla fine lui muore”, commedia nera ed esilarante di Alberto Caviglia

La recensione del nuovo romanzo

Duccio Contini non esce quasi mai di casa, ed eccezione di qualche puntata in farmacia e al supermercato, sopporta con difficoltà la sua coinquilina molesta e guarda distrattamente le notifiche che il suo cellulare si ostina a inviargli. Per il resto, nessuna vita sociale, ancor meno sentimentale, il lavoro è a un punto di stallo e le riflessioni esistenziali imperversano. Ah, ci sono anche gli acciacchi, tanti, in una serie infinita di malesseri veri presunti e relativi rimedi farmacologici che scandiscono giornate tutte uguali.
Facile che a qualcuno questo quadro sembri familiare, tanto più dopo due anni di pandemia che a ondate ha costretto tutti a vivere una vita a tratti simile a quella descritta. E invece no. O almeno, non esattamente né completamente. Alberto Caviglia, l’autore del romanzo di cui Duccio è il protagonista, ha sì scritto il suo secondo romanzo in tempi di lockdown e di chiusure, ma il tema non è il Covid, che non viene mai nominato né se ne avverte la presenza effettiva, ma la crisi di una generazione. Piuttosto allargata, a dirla tutta.

Dal titolo che è già un programma (e uno spoiler), Alla fine lui muore parla sì di un malessere diffuso in cui molti si potranno riconoscere, ma lo fa raccontando la surreale vicenda di un neo trentenne con tutti gli elementi tipici della sua età, dal rapporto con gli amici a quello con la famiglia e le aspettative che tutti ripongono sul suo futuro. E, dettaglio non da poco, lo fa costringendoci a ridere dalla prima all’ultima delle sue 160 pagine.
Chi già conosce Caviglia, regista, sceneggiatore e scrittore romano, per averne visto il film Pecore in erba del 2015 o letto il dissacrante Olocaustico del 2019 non avrà dubbi sulla capacità dell’autore di rendere comico anche il quadro più desolante. Il suo protagonista è quel che si dice un giovane di belle speranze. Ebreo, vive a Roma, ha una famiglia amorevole e iperconnessa che riversa su di lui le più alte aspettative dopo il successo di un suo libro, Il talismano del ghetto, che per qualche tempo ha furoreggiato in libreria e sulle pagine letterarie. Ora però sono passati quattro anni e l’atteso nuovo capolavoro stenta a prendere forma. Ci si immagina Duccio come l’Isaac Davis di Manhattan, alter ego di Woody Allen, alle prese con l’incipit del suo romanzo su New York. Tra una cestinatura e l’altra le riflessioni sulla vita prendono il sopravvento con tanto di lista (altra citazione alleniana) delle cose per le quali valga la pena vivere. Solo che qui l’attenzione si concentra in un primo tempo sui “motivi che rendono più facile l’idea di abbandonare questo mondo”. Dal lavarsi i denti agli integralisti, dal qualunquismo a “quelli che ti toccano quando parli”, l’elenco al negativo (ma ci sarà anche quello positivo) va ben oltre le dieci cose citate da Woody, offrendo l’occasione di togliersi più di qualche sassolino dalle scarpe (altro elemento molesto in lista). È facile divertirsi nel riconoscersi o nel prendere le distanze dalle posizioni del nostro, che però, nonostante le tonnellate di autoironia, sta maturando la consapevolezza che davvero, di tutto questo, si possa tranquillamente fare a meno. Fino al punto di decidere di togliere il disturbo.

Sempre più convinto che la giovinezza non sia altro che una mistificazione, e che vivere da giovani di belle speranze o anche semplicemente da giovani, tra uscite, apericene, flirt e feste sia più una fatica che un divertimento, Duccio sceglie di essere vecchio. E lo fa abbracciando tutti i luoghi comuni di una terza età che sembra ormai scomparsa dal suo giro di conoscenze. Di certo non sono vecchi i suoi genitori, che tra dirette su Instagram, video su TikTok, viaggi e consulenze olistiche online sono più attivi e vivaci che mai. Lo è molto di più lui, che ormai valuta ogni sua sortita nel mondo attraverso quello che definisce il CDS, il Coefficiente di sopportazione, “una proporzione che tiene conto in modo dettagliato dei pro e dei contro che ci aspetterebbe in una determinata uscita, per poterne calcolare la convenienza”. Ormai per lui tutto ha un CDS troppo alto, pesa troppo. Tanto vale restarsene in casa con il plaid sulle ginocchia suonando vinili sul giradischi (!) e degustando semolini alternati a beveroni antireumatici. Già, perché allo scoccare del trentesimo anno a Duccio è successo qualcosa. Si è realmente trasformato, si è svegliato ed era vecchio. Certo, anche se il richiamo kafkiano è quasi automatico, non è diventato uno scarafaggio, non è successo nulla di così eclatante e soprattutto nessuno pare averlo notato. Ma il giovane non c’è più.

Preso atto di aver vissuto tutta la vita convinto di essere, letteralmente, al centro del mondo, nel cuore della capitale di un paese collocato esattamente nel bel mezzo del planisfero nonché di appartenere alla religione monoteista più antica della terra, Contini capisce che il peso delle aspettative è davvero troppo. Che sui giovani le attese sono eccessive e, nel suo caso, probabilmente mal riposte. Molto meglio chiudersi in casa, concentrandosi non tanto sul presente quanto sull’unico progetto che a questo punto valga la pena di affrontare. Quello della propria dipartita.
Volente o nolente, un piccolo sforzo va a questo punto fatto. E i preparativi che Duccio segue per la propria morte sono davvero esilaranti. Sia nella ricerca di quello che sia il modo migliore per farla finita sia, soprattutto, nel desiderio di rendere almeno l’ultimo atto qualcosa di speciale. Verrebbe da dire che l’ambizione non abbandona il nostro, si sposta semplicemente sul post mortem. Quella voglia di lasciare il segno, di guadagnare comunque una sorta di immortalità passa dalla stesura di un libro di successo a quella di un epitaffio indimenticabile. Dall’ironico “Torno subito” al surreale “Questo non è un epitaffio” fino al caustico “Crash here in case of anti-semitism” e alla frase che dà il titolo al romanzo, l’elenco delle possibili frasi da fare incidere sulla lapide occupa un capitolo del libro e buona parte del tempo del protagonista. Che si consulta sull’argomento con Carlo, il suo farmacista di fiducia e quasi unico interlocutore, insieme all’uomo che tutti i giorni incontra al cantiere. Infatti, da buon “vecchio”, Duccio non manca anche di seguire i lavori di costruzione di un centro commerciale…

Dal terreno (edificabile) all’ultraterreno, l’attenzione del nostro si concentra necessariamente anche su quello che succederà dopo. Ed è l’occasione per una digressione sulle religioni e su quelle che assicurano le prospettive migliori. Si tratta forse di una delle parti più dissacranti e insieme più divertenti del libro. Paragonando le grandi fedi monoteiste agli operatori telefonici, Duccio si chiede se non sia il caso di puntare su quella che propone le offerte più convenienti, con il dubbio però che il Boss, come indica il Dio di Abramo, non lo aspetti poi al varco per fargli pagare il passaggio di gestione. Meglio allora guardare ad altre religioni? E come assicurarsi già in vita che siano quelle giuste? Da qui un concatenarsi di test e di opzioni più o meno surreali che valgono la lettura del libro. Il quale, seguendo i preparativi di Duccio, a un certo punto prende anche una piega inaspettata. Dimostrando tutta la verità del proverbio yiddish posto in esergo, “Se vuoi far ridere Dio, raccontagli i tuoi progetti”, anche la vita apparentemente così ben programmata del nostro giovane vecchio subisce uno scossone. E si concede una deviazione che sarebbe un vero peccato raccontare qui, ma che rende l’ultimo lavoro di Caviglia una piccola commedia nera pressoché perfetta.

Alberto Caviglia, Alla fine lui muore, Giuntina, pp. 160, 14 euro

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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