Secondo una leggenda in voga nella Grande Mela, a inventare il pastrami nel 1888 sarebbe stato invece Katz’s Delicatessen, la più antica gastronomia ebraica sopravvissuta in città, resa nota in tutto il mondo nel 1989 dalla famosa scena di Harry ti presento Sally
Qualche ingenuo potrebbe pensare al pastrami come a una variante della carne salada. O della bresaola. In realtà, tenerezza e aspetto lo avvicinano piuttosto al roastbeef all’inglese, ma si tratta comunque di prodotti molto lontani. Sia per sapore e consistenza sia per le origini. Il pastrami condivide con i prodotti citati soltanto la materia prima, cioè il manzo, ma anche di questo sceglie un taglio tutto suo. Il brisket, o punta di petto, è una parte dell’animale che in Italia quasi non si trova, trattandosi di un taglio specificamente statunitense. Dalla polpa piuttosto dura, ricca di tessuto connettivo, va fatto bollire a lungo in acqua per ammorbidire le fibre e trasformare il collagene in gelatina.
Passando dall’ingrediente di base al prodotto finito, ci si ritrova davanti alla solita domanda: dove e quando è nato? E poi: la tradizionale equazione con la gastronomia ebraica, americana in genere e newyorkese in particolare, basta a farne un piatto specificamente ebraico? Insomma: lo hanno o no inventato gli ebrei? Come per molte altre pietanze di importazione, anche per il pastrami la paternità è stata attribuita a chi lo ha fatto conoscere. Quindi agli ebrei rumeni giunti a New York nella seconda metà dell’Ottocento.
Ma siamo sicuri di parlare dello stesso alimento? Non proprio. Secondo gli storici del cibo, sia il nome sia l’aspetto e il sapore dell’affettato noto come pastrami sono più figli della cultura ebraica americana che delle antiche pratiche conserviere balcaniche. Tanto per cominciare, la moderna refrigerazione artificiale ha consentito una drastica riduzione delle spezie. Ottenendo, grazie a una salamoia più delicata, una polpa decisamente più morbida. Una bella differenza con il pastrama (o, in yiddish, pastirma), riconosciuto progenitore rumeno dal salume americano. Di origine ottomane, questa carne conservata non eccelleva certo in tenerezza. Giunta nei Balcani insieme alle truppe ottomane di Jannissari, deve il suo nome d’origine, basturma, al termine turco che indica l’atto di pressare. Era questo infatti il primo trattamento a cui erano sottoposte le carni (ai tempi perlopiù di montone) per estrarre quanta più umidità possibile prima di passare a salarle, speziarle e affumicarle. Tra le spezie usate dagli Ottomani viene ricordato un mix a base di fieno greco, cumino, aglio e sale. Rimasta pressoché invariata con il passaggio in Romania, la ricetta avrebbe subito una piccola rivoluzione con i cuochi ebrei. Questi, interessati a ottenere una carne kosher che si potesse portare in viaggio e consumare quando il prodotto fresco non era disponibile, applicarono la tecnica della pressatura e della salagione anche alle oche e aumentarono notevolmente la quantità di spezie impiegate.
Dopo essere stato in salamoia, il progenitore del pastrami americano veniva così strofinato con un miscuglio profumatissimo in cui comparivano, tra gli altri, pimento, alloro, cannella, chiodi di garofano, coriandolo, zenzero, bacche di ginepro, paprica, pepe e aglio.
Per comprendere la diffusione del pastirma nell’America di fine Ottocento ci si deve affidare ai racconti di famiglia, senza altra prova che l’amore dei discendenti per i protagonisti di questa piccola epopea alimentare. Nel suo libro di memorie intitolato Stuffed, Patricia Volk racconta che suo nonno Sussman, ebreo lituano giunto a New York City con la moglie e i sette figli, avrebbe ricevuto la ricetta del pastrami da un amico rumeno. In partenza per il suo paese natio, questi aveva affidato a Volk, ai tempi macellaio, un baule contenente le proprie cose da custodire in cantina. In cambio dell’ospitalità gli avrebbe rivelato la ricetta del pastirma di famiglia. Prontamente riprodotto e venduto da Volk nel suo negozio nel 1887, il delizioso affettato avrebbe fatto la fortuna dell’uomo e della sua famiglia. Trasferiti già l’anno seguente in un nuovo quartiere, vi avrebbero aperto un locale con tavoli e sedie, ritenuto la prima gastronomia d’America a vendere pastirma. Per il nome pastrami ci sarebbe voluto qualche anno in più, secondo alcuni quelli necessari a capire che il richiamo al salame (“salami”) italiano avrebbe favorito gli affari…
Un’altra leggenda, altrettanto in voga nella Grande Mela, è che a inventare il pastrami nel 1888 sarebbe stato invece Katz’s Delicatessen. La più antica gastronomia ebraica sopravvissuta in città, resa nota in tutto il mondo nel 1989 dalla famosa scena di Harry ti presento Sally (“Quello che ha preso la signorina” era un panino al pastrami…), sarebbe però stata fondata “solo” nel 1898 e non vi è certezza che ai tempi vi vendesse già l’ottima carne affumicata che ha poi fatto la sua fortuna.
A confondere ulteriormente le idee, qualche anno fa due critici gastronomici, Robert Sietsema prima e Daniel Vaughn, hanno messo in dubbio persino che la New York ebraica sia la patria del pastrami. Secondo i due autori, l’uso di affumicare le carni è tuttora ben più radicato in Texas ed è quindi probabile che, anche ammesso che fossero stati gli ebrei a portare l’arte della carne pressata e speziata negli Usa, questi avrebbero fatto tappa nello Stato del Sud prima di dirigersi verso l’East Coast e impiantarsi quindi a New York. Smentita da un approfondito lavoro di ricerca uscito su Forward l’anno scorso, questa teoria andava a cozzare contro l’essenza stessa di quei deli, gastronomie, che hanno contribuito alla nascita del cibo ebraico statunitense. Dando la parola a un’autorità in materia come la studiosa Claudia Roden, si scoprirà come i delikatessen e i loro panini furono un elemento inscindibile dalla vita degli immigrati ebrei dall’Est Europa di fine Ottocento. Gestite dagli ebrei tedeschi giunti in America nella prima metà del secolo, queste gastronomie furono un punto di riferimento indispensabile per intere generazioni. Prima per gli uomini soli, poi per le intere famiglie. Posto tra due fette di pane di segale spalmate di senape e accompagnato dagli immancabili cetriolini, il pastrami offriva la possibilità di mangiare kosher senza mettere mano ai fornelli né abbandonare il posto di lavoro, spesso rappresentato da un angusto laboratorio di sartoria. Più tardi, con le famiglie ormai formate, il rito del pranzo in gastronomia sarebbe diventato da una parte un modo per fare riposare la cuoca di casa almeno una volta la settimana e dall’altro un piccolo lusso per affermare il proprio nuovo status di americani. Forse ancora non troppo ricchi, ma abbastanza per concedersi ogni tanto un pasto al ristorante.
Pastrami
Ingredienti
1,8 kg di punta di petto (brisket) di manzo
Per la marinatura:
6 chiodi di garofano
30 g di zenzero fresco
1 cucchiaino di cannella
1 cucchiaio di semi di coriandolo
1 cucchiaio di semi di senape
3 spicchi di aglio
200 g di sale grosso
50 g di sale fino
200 g di zucchero bianco
100 g di zucchero moscovado
100 g di miele millefiori
Per la crosticina:
2 cucchiai di pepe nero in grani
2 cucchiai di semi di coriandolo
1 cucchiaio di semi di senape
1 cucchiaio di semi di finocchio.
Per l’affumicatura:
3 cucchiai di foglie di tè nero
Preparare la marinata riunendo in una pentola 1,5 l di acqua con il sale grosso e fino, lo zucchero bianco e quello moscovado, il miele, lo zenzero sbucciato e grattugiato, l’aglio sbucciato e tritato, i chiodi di garofano, la cannella, i semi di senape e coriandolo. Mettere sul fuoco e cuocere mescolando per far sciogliere il sale e lo zucchero. Spegnere non appena raggiunge l’ebollizione.
Trasferire la marinata in un’ampia ciotola e versarvi un altro litro d’acqua per farla intiepidire. Lasciarla quindi raffreddare, poi immergervi la carne, coprire con pellicola da cucina lasciare riposare in frigo per 3 giorni, rigirando i pezzi di tanto in tanto.
Trascorso il tempo indicato, scolare la carne e tamponarla bene con carta da cucina, poi lasciarla asciugare su un piatto a temperatura ambiente.
Riunire in una padella antiaderente i grani di pepe con i semi di coriandolo, finocchio e senape. Tostare le spezie a fuoco medio, mescolando con un cucchiaio di legno per non farle bruciare. Appena i semi cominciano a scoppiettare, spegnere il fuoco e lasciare raffreddare. Ridurre in polvere grossolana le spezie tostate usando se possibile un mortaio e passarvi quindi la carne marinata, pressandola perché il trito vi aderisca bene.
Chiudere ogni pezzo di carne in 4 strati di carta, creando dei cartocci molto stretti, poi adagiarli sulla griglia del forno, con il grasso rivolto in basso. Sotto la griglia, porre una placca rivestita di alluminio per raccogliere il sughetto rilasciato dalla carne. Cuocere a 110 °C per 4 ore. Estrarre i cartocci dal forno e farli raffreddare a temperatura ambiente, poi scartare la carne, metterla in frigo su una griglia dotata di piedini posta sopra un piatto e lasciarla riposare per 10 ore.
Per l’affumicatura, rivestire l’interno di una vecchia pentola con qualche strato di carta di alluminio, spargere sul fondo le foglie di tè, poi collocarvi all’interno la griglia con sopra la carne. Chiudere la pentola con un coperchio e sigillare bene i bordi con altra carta di alluminio. Accendere il fuoco al minimo e fare affumicare per 1 ora. Togliere infine la carne dalla pentola e lasciarla raffreddare su un tagliere prima di tagliarla a fette sottili con l’affettatrice e servirla a piacere.