Cultura
“Apeirogon”, un romanzo controverso

Come è stato accolto il libro di Colum McCann, incentrato su un’amicizia tra un padre israeliano e uno palestinese uniti dalla perdita delle loro figlie, in Israele e in Palestina

“Apeirogon” è un termine greco che descrive un poligono con infiniti lati, come quelli di un conflitto le cui radici affondano a ben prima del 7 ottobre, e che hanno ormai varcato i 75 anni di storia. A sei mesi dall’inizio di una guerra di cui non si vede ancora la fine e in cui il significato della parola “pace” sembra aver perso il suo significato originale, riemerge la storia – vera – di un’amicizia insolita: quella tra un israeliano ed un palestinese, raccontata nel romanzo Apeirogon, pubblicato nel 2020 dallo scrittore irlandese Colum McCann, tornato in auge nelle librerie negli ultimi mesi, dopo il massacro del 7 ottobre e la conseguente guerra che da allora non ha ancora trovato epilogo.

Nonostante il romanzo sia diventato un caso letterario sia in Italia che nel mondo anglosassone, e nonostante si tratti della vera storia di un padre israeliano e uno palestiense che perdono entrambe le figlie a causa della guerra per poi diventare, uniti dalla disperazione, grandi amici, il libro, di fatto, è stato stroncato sia dalla critica israeliana che da quella palestinese. Questa convergenza di opinioni – per quanto basate su presupposti agli antipodi – potrebbe (in parte) risultare un’importante chiave di lettura per cercare, se non di capire, quanto meno di districarsi nella matassa di un conflitto di cui troppo spesso si ignorano, o si sottovalutano, le radici.

Lo stesso McCann, in un’intervista per Haaretz condotta da Gili Izikovich, dichiara: «Non ho voluto, appositamente, entrare nel merito del 1948 o del 1967, perché volevo parlare della vera vita di Bassam e Rami, nel presente (…) Subito dopo averli incontrati ed aver ascoltato la loro storia ho cominciato a concepire il romanzo, che non è solo la storia dei due protagonisti e dei loro due Paesi: Israele e la Palestina sono una lente per comprendere molte altre cose. E più mi addentravo nella loro storia, più mi rendevo conto che non stavo parlando solo degli israeliani e dei palestinesi, ma del Bronx e del Kentucky, dell’Irlanda del Nord e dell’Irlanda del Sud, e di molte altre parti del mondo. (…) Ma volevo essere fedele alla loro biografia, perché penso che Rami e Bassam abbiano qualcosa da dire che attraversa la storia e che quello che stanno dicendo è molto necessario».

Questo libro, infatti, per quanto rientri nel genere del “romanzo” è stato scritto grazie ad un lavoro di quattro anni di ricerca e interviste a Bassam Aramin, il palestinese la cui figlia, Abir, di 10 anni, è morta dopo essere stata colpita alla testa da un soldato israeliano nel 2007, e Rami Elhanan, israeliano la cui figlia quattordicenne, Smadar, è stata uccisa in un attentato suicida nel 1997. Nel corso di questi quattro anni McCann, irlandese di origine ma newyorkese di adozione, ha fatto da pendolare tra New York e Tel Aviv per intervistare non solo i due protagonisti del romanzo ma per entrare, in profondità, nei loro mondi – tra Gerusalemme, Ramallah e altri luoghi aldilà del muro di separazione – che, assieme, danno vita a numerose storie che si intrecciano in una struttura poliedrica il cui centro è l’amicizia tra i due padri che, contro ogni previsione, diventano amici intimi e anche un simbolo di pace e convivenza, riconosciuto sia in Israele che all’estero.

Ancora oggi sono tra i relatori più noti del Parents Circle Families Forum, un’organizzazione per promuovere il dialogo tra le due parti i cui obiettivi, da anni, contraddicono la perenne divisione tra i due popoli, persino dopo il Sabato Nero.
«Il problema – spiega McCann a Haaretz – è che, dal 7 ottobre, sempre meno persone sono disposte ad ascoltare o a vedere le cose da un punto di vista diverso. Il primo pensiero che ho avuto il 7 ottobre è stato, ovviamente, per Rami e Bassam. (…) Sapevo che non avrebbero cambiato idea, che non si sarebbero separati, che il legame che hanno è davvero straordinario. E questo la dice lunga sulla possibilità di speranza. Come si può avere speranza dopo il 7 ottobre? (…) Il mio lavoro è parlare dell’umanità, non dare a nessuno una lezione di storia. Ho così tanto da imparare dal popolo israeliano. Mi siederò e ascolterò. E non voglio impegnarmi in una sorta di lotta, ascolterò anche il popolo palestinese. Questo è il mio lavoro: imparare ad ascoltare».

Oggi, più che mai, attraverso la lettura di questo romanzo emerge il messaggio centrale dell’opera, ovvero il potere dell’empatia e dell’amicizia, in grado di superare ogni barriera.
Tuttavia – e questo, forse, rimane uno dei problemi meno affrontatati nel lavoro di McCann – le barriere permangono, vengono distrutte, si innalzano di nuovo e più alte di prima, per tutta una serie di ragioni che lo scrittore decide di indagare ma solo fino ad un certo punto come se, nel continuo sforzo di decifrare il punto di vista di entrambi, quasi abbandonasse il punto di vista dei due popoli, che invece è emerso proprio a ridosso della pubblicazione del romanzo, con la scarsa accoglienza da parte dei due Paesi e dei loro editori, tanto che casa editrice israeliana Am Ha Oved, che aveva pubblicato in passato numerose opere dello scrittore, dopo aver letto il romanzo ha deciso di non pubblicarlo. Stando ad un commento rilasciato dall’editore a Haaretz: «Colum McCann è un autore meraviglioso che abbiamo sempre amato. Non abbiamo mai visto uno sforzo così serio da parte di uno scrittore straniero nel cercare di comprendere la prospettiva israeliana. Ma non ci sentiamo rappresentati per quanto riguarda la prospettiva palestinese, per come viene descritta nel libro. McCann si è assunto un compito colossale ma a nostro avviso impossibile da sostenere. Motivo per cui, dopo lunghe riflessioni, è stata presa la decisione di non pubblicare quest’opera».

Alla fine, è stata tradotta e pubblicata da una piccola casa editrice, November Books, grazie ad alcuni finanziamenti privati, e il libro, per ironia della sorte, è uscito a pochi mesi dal 7 ottobre, cosa che, probabilmente, ha reso la sua accoglienza ancora più fredda del previsto, specie da parte di quegli israeliani ancora fortemente feriti dal massacro di quel giorno.
McCann ha recepito perfettamente la delicatezza del momento, tanto che ha dichiarato a Haaretz: «Viviamo in tempi incredibilmente instabili, fratturati, spezzati, in cui tutti sembrano avere la malattia della certezza: c’è pochissima ricerca interiore e poca capacità di dire: ‘Non lo so’ o ‘questo mi confonde come essere umano, come pensatore, come poeta, come giornalista’. Sembra che le persone vogliano solo incanalarti nella loro corsia, ammanettarti ad un certo tipo di idea e che non si possa più parlare di quanto sia tutto, invece, incredibilmente complicato. (…) Penso che parte del significato di ‘Apeirogon’ consista proprio nel riconoscere la confusione».

Il complicato titolo dell’opera, in effetti, si adatta sia alla complessità dell’argomento, sia al modo in cui McCann ha scelto di raccontarlo. Il termine greco “Apeirogon”, infatti, descrive un poligono con infiniti lati, come infiniti sono gli incontri in cui i due amici testimoniano la loro storia, come se nil raccontarla più e più volte serva per tenere in vita la memoria delle loro figlie, come degli Scheherazade che raccontano ogni giorno una storia per 1.001 notti, finché non vengono redenti. Così, anche i 1.001 capitoli del romanzo sono stati organizzati in una struttura piramidale, numerati da 1 a 500 e poi contati alla rovescia a partire da 500. Alcuni capitoli sono più lunghi, e svelano monologhi ed eventi realmente accaduti. Altri sono costituiti da una singola frase, talvolta da un’immagine. Lo stesso incipit del libro rivela uno stato di enorme confusione, descrivendo, nello stesso tempo, il movimento di uccelli migratori, quello degli elicotteri israeliani in azione e l’ultimo pasto del defunto presidente francese François Mitterrand: frammenti che apparentemente non hanno modo di essere assemblati in una narrazione strutturata, fino a quando la confusione si trasforma gradualmente in un panorama, a 360 gradi, della storia di due popoli, attraverso la lente di due padri e la loro tragedia personale.
L’accuratezza con cui McCann indaga i fatti di entrambe le morti e la sua descrizione dettagliata delle due tragedie – come quelle dei due popoli – potrebbero essere la migliore risposta a coloro che mettono in dubbio il suo diritto di accedere a questo dolore incommensurabile.

McCann è meticoloso, cita nomi e aneddoti che probabilmente nessuno conosce tranne i parenti delle vittime assassinate, fornisce i report dei testimoni, dei medici e degli esperti forensi. Esamina i resoconti e gli articoli di giornale, in modo che nessun dettaglio venga trascurato, sia nel caso israeliano che in quello palestinese.
Eppure, è come se tutto questo non bastasse, né agli israeliani né ai palestinesi.

Se l’accoglienza in Israele è stata fredda, nei territori palestinesi è stata inesistente, anche perché, nonostante esista già da anni una traduzione in arabo del testo, il romanzo, ad oggi, non è ancora stato pubblicato  e le ragioni si possono, in parte, comprendere nell’analisi proposta dalla nota scrittrice palestinese Susan Abulhawa, pubblicata da Al Jazeera.
Secondo l’autrice di “Ogni mattina a Jenin”, per quanto nel romanzo di McCann venga descritta la reale amicizia dei due protagonisti, il punto di vista offerto resta comunque quello dell’“uomo bianco e colonizzatore” che in quanto tale, di fatto, legittima l’occupazione israeliana dei territori palestinesi: «Arriva un romanziere, che è così commosso da questa insolita amicizia, dalla storia dietro di essa e da ciò che secondo lui rappresenta una speranza per il futuro dei due popoli, che decide di scrivere un libro su di loro. È una sorta di sforzo per amplificare la voce della pace, nato dalla convinzione ostinata che qualsiasi cosa possa essere risolta dall’entusiasmo benevolo di persone ben intenzionate. Lo scrittore – prosegue la scrittrice nata in Kuwait e ora cittadina americana – non cerca di sorvolare sugli orrori inflitti ai corpi dei nativi, ma rappresenta piuttosto il volto del sangue e del trauma dei coloni. Ecco il trucco: presentare allo stesso modo la violenza di una ribellione dei nativi locali e l’insicurezza e la paura che i coloni bianchi devono tragicamente sopportare a causa della resistenza degli indigeni».
Abulhawa non mette in dubbio la “buona fede” dell’autore: «Non conosco McCann, e sono sicura che abbia scritto questo libro con un senso di solidarietà e il desiderio di favorire un ‘dialogo’. Ma è possibile causare gravi danni anche con le intenzioni più nobili. La retorica del dialogo può essere allettante: l’idea che parlare per trovare un’umanità comune sia tutto ciò che serve per smantellare il razzismo strutturale e le nozioni di supremazia etnocentrica. (…) Il dialogo e i negoziati – come i palestinesi sanno bene dopo aver fatto esattamente questo per quasi 30 anni – funzionano sempre a favore dei potenti. È chiaro che McCann ha svolto ricerche approfondite, comprese lunghe conversazioni con le personalità principali di questo romanzo e forse, raccontando una storia vera, ha cercato di affrontare le questioni etiche che riguardano l’appropriazione. Ma esiste un messaggio coloniale generale che parte dal presupposto di una simmetria tra le due parti che si presta alla propaganda sionista». Secondo l’autrice, dunque, rafforzando il concetto di un ‘conflitto complicato tra due parti’, l’autore legittima l’errore del soldato israeliano riconoscendo, implicitamente, il diritto di Israele di avere un esercito, condannato dall’autrice che, invece, sembra essersi dimenticata che la storia dell’IDF ha inizio con la fondazione, e la negazione, dello Stato di Israele, che non è cominciata il 7 ottobre, ma il 14 maggio 1948.

Se McCann, come Arianna, finisce avvolto nello stesso filo che cerca di districare, la rinomata scrittrice palestinese taglia la storia a fette e la tanto ricercata complessità proposta da McCann, riducendo tutto a “bianco” e “nero” – poco importa che il 50% della popolazione ebraica in Israele sia giunta da Paesi arabi – e in colonizzati e colonizzatori, nonostante la Gerusalemme di Rami sia stata abitata da ebrei fin dai tempi del primo esodo.
Ed è proprio la scelta da parte dell’autore di esplorare la complessità che, più di tutto, spiazza la scrittrice palestinese: «Nella storia sono intervallati frammenti disparati di informazioni messi insieme – dai modelli di migrazione degli uccelli e dagli antichi re, alla Cappella Sistina e agli esplosivi – in una sorta di profondità forzata che mira a legare insieme tutte le cose ovunque e in qualsiasi momento. Tutto, in qualche modo, diventa relativo al concetto di ‘Israele – Palestina’ e quindi, in altre parole, diventa tutto ‘molto complicato’ (…) offuscando quella che è la storia più semplice e più antica della storia umana: un potente gruppo di persone ha rubato una terra, l’ha colonizzata e sta cancellando i suoi popoli indigeni».
Forse Abulhawa ha ragione su un punto, ovvero che persino McCann, in questo suo grande sforzo di comprensione, ha dato per scontato ciò che non lo è ai più, e non soltanto per i palestinesi, ma persino per le Nazioni Unite che, infatti, il 7 ottobre, hanno, ancora una volta, per 75 anni, voltato le spalle ad un Paese di cui ancora si discute il diritto di esistere.

Colum McCann, Apeirogon, traduzione di Marinella Magrì, Feltrinelli, pp. 528, 22 euro

 

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


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