In Israele esiste una coalizione implicita che intende emarginarlo dal ruolo di primazia di cui ha goduto, al governo o all’opposizione, dal 1996 ad oggi
Dalle stelle allo…stallo. Fin troppo facile la battuta che, tuttavia, non vuole essere greve. Semmai grave. Poiché il panorama politico israeliano, dopo le elezioni del mese scorso, sembra essere consegnato all’immobilismo. Ma si tratta solo di un’impressione di superficie. Poiché è un po’ come certe paludi, dove poco o nulla si muove, anche se si percepisce che sottotraccia ci sia una fauna predatrice che, al momento buono, è pronta a scattare fulmineamente per sacrificare la vittima di circostanza.
Il fuoco del disaccordo, che non dura certo solo dall’ultima chiusura delle urne, dopo quella precedente del 9 aprile, è il destino di Benjamin Netanyahu. Il cui futuro politico sta divenendo uno psicodramma nazionale. Certo, ridurre la complessità dei processi in corso ad una sola figura, quella del primo ministro ancora in carica (presiedendo per gli affari correnti il suo quarto governo, quello che ha esaurito il mandato politico con le elezioni di sette mesi fa), nonché incaricato, ossia delegato dal Presidente dello Stato a formare il nuovo esecutivo, senza riuscirci, non ci restituisce appieno la delicata complessità del panorama israeliano. Tuttavia, ci dice quale sia lo stato dell’arte, per così dire.
Netanyahu non ha maggioranza parlamentare né, in tutta probabilità, la otterrà. Ha fallito – com’era abbondantemente prevedibile – poiché esiste una coalizione implicita (ovvero: non un insieme omogeneo di forze, alleate tra di loro, bensì un allineamento di partiti e individualità politiche eterogenei, quindi anche distanti su tutto il resto) che intende emarginarlo dal ruolo di primazia del quale ha goduto, al governo o all’opposizione che fosse, dal 1996 ad oggi.
Non ha ancora restituito il mandato al presidente Rivlin, forse confidando nella possibilità, di qui alle prossime due settimane, di riuscire in extremis a tirare fuori ancora qualcosa dal cappello a cilindro. Con uno di quei suoi colpi di mano coalittivi per i quali è stato a lungo riconosciuto come il «mago Bibi», il grande prestigiatore delle alleanze. Ma il tempo gioca oramai a suo esclusivo sfavore. Le due ultime tornate elettorali, ravvicinate, tra aprile e settembre, se le è peraltro giocate come un referendum sulla sua persona. Volutamente. Non le ha completamente perse ma non è riuscito a vincerle. Se il suo obiettivo era necessariamente il secondo, non l’ha quindi raggiunto. Cosa potesse implicare la sua vittoria, oltre ad un risultato migliore, in termini di seggi, per il suo partito, il Likud, è presto detto: un netto ammorbidimento di quei potenziali alleati di una coalizione di governo a venire, che gli riconoscessero di nuovo il premierato. Non è derivato nulla di tutto ciò. Poiché molti politici non vogliono più Netanyahu alla presidenza del consiglio dei ministri. Punto e a capo. Se l’asse politico prevalente rimane posizionato ancora a destra, le elezioni del 17 settembre ne hanno in parte mitigato gli equilibri più radicalizzati, con un buon risultato delle liste arabe (incentivato proprio dalle aspre posizioni assunte dal premier uscente) e l’accettabile performance (ancorché non decisiva) del “partito dei partiti” centrista Kahol Lavan, Blu e bianco.
Ma l’ago della bilancia, anzi, l’ego della bilancia, continua a ruotare intorno al rifiuto di Avigdor Lieberman di fare convergere i suoi otto seggi nella supercoalizione di destra nella quale, un sempre più affaticato Netanyahu, ha invece continuato a riporre le sue residue speranze. Per poi aprire ai laburisti, forza oramai molto contenuta, vedendosi dire di no. È già storia, peraltro. Perché tutto questo sta avvenendo, lasciando un paese come Israele senza un’effettiva guida politica? Si possono individuare più ragioni ma di certo due sopravanzano le altre.
La prima è il carattere divisivo del premierato, almeno per come lo ha esercitato Netanyahu nel corso del tempo. Il secondo è la fine di un ciclo politico. È bene quindi entrare nel merito delle questioni facendo innanzitutto qualche corposo accenno al profilo biografico del premier uscente. Poiché Bibi è oramai il capo di governo più longevo nella storia del Paese. Ha superato anche David Ben Gurion, nella sua lunga durata. Benché sia nato a Tel Aviv nell’ottobre del 1949, quindi a più di un anno dalla Dichiarazione di Indipendenza, figlio di una famiglia aschenazita con qualche ascendenza sefardita, nonché secondo di tre fratelli, di fatto intellettualmente si è formato negli Stati Uniti. Un paese al quale è sempre rimasto legato. La famiglia risiedeva in Pennsylvania. Il padre, infatti, insegnò a lungo discipline umanistiche – a partire dalla storia ebraica – tra l’ateneo di Denver e la Cornell University. La sua famiglia era comunque soprattutto parte dell’universo politico e culturale del sionismo revisionista.
Il genitore Benzion Mileikowski Netanyahu, era stato segretario di Vladimir Zeev Jabotinsky, nonché caporedattore del periodico Betar, una delle anime pubblicistiche della destra sionista. Per intenderci: il vero humus politico d’origine, ovvero quello paterno, gli è stato offerto da quell’ebraismo dell’Europa orientale nella parte che non si riconosceva nei socialismi come neanche nei populismi bensì in un acceso nazionalismo. Dai toni fortemente radicali, debitori del tracciato neonazionalista novecentesco, particolarmente vivace tra le due guerre mondiali. Dopo la maturità, il giovane Benjamin tornò in Israele per svolgere il servizio di leva. Furono sei anni, compresi tra il 1967 e il 1972, in cui maturò una sua professionalità di militare, della quale comunque non avrebbe poi menato troppo vanto pubblico, benché giudicato dai suoi superiori capace e intraprendente. Non a caso si trovò ad agire nella Sayeret Matkal, unità operativa di élite. Giunto ai ventitré anni, tornò quindi negli Stati Uniti.
Intrapresi gli studi di architettura al Massachusetts Institute of Technology di Boston, li interruppe quasi subito per andare a combattere nella guerra di Yom Kippur. Nel 1975, di nuovo negli States, consegue la laurea breve (il Bachelor) nella metà del tempo necessario, per poi proseguire negli studi in economia, alla Sloan Scholl of Business, acquisendo un Master in Business Administration ed in seguito seguendo un dottorato in scienze politiche ad Harvard, interrotto dalla morte del fratello Yonathan, durante l’operazione Thunderbolt, per la liberazione degli ostaggi di Entebbe (1976). Di fatto il giovane Netanyahu è a quel punto un versatile e colto umanista, incline però anche alla cultura tecnica, con una grande attrazione per la politica. Ed un carattere molto deciso, al limite della spregiudicatezza. Di lui un suo docente del MIT avrebbe detto: «si adopera egregiamente; è decisamente brillante. Organizzato. Forte. Determinato. Sa cosa vuole fare e come realizzarlo».
Non sono gli unici complimenti che raccoglierà. Indirizzato speditamente verso la carriera in ambito economico, tra i bostoniani, in quegli anni stabilisce e fortifica una duratura amicizia con Mitt Rommey, futuro antagonista di Barack Obama nelle presidenziali del 2012. Entrambi si considerano “creature” del Boston Consulting Group, azienda multinazionale che fornisce consulenza manageriale e strategica. La formae mentis è rigorosamente “americana”, basata sulla velocità, l’intraprendenza e il calcolo sia tattico che strategico. Nonché sulla competenza nell’analizzare i dati, cosa in cui Bibi sembra eccellere. Nel 1978 ritorna in Israele, dirigendo fino al 1980 il Jonathan Netanyahu Anti-Terrorism Institute, struttura non governativa che fornisce consulenze sulle pratiche contro il radicalismo e la violenza politica. Il Think Tank è modulato sulla scorta delle scuole aziendali e di pensiero manageriale. Sono gli anni della rivoluzione islamica in Iran e lo sforzo di Netanyahu è di influenzare il pensiero americano in materia, cercando di indirizzarlo verso le scuole di pensiero che stanno radicandosi in Israele. Troverà maggiore comprensione, dopo la presidenza Carter, in quella di Ronald Reagan.
Dove lo strategic thinking prevalente si rivelerà molto più prossimo alle sue posizioni. Di certo il radicarsi dell’islamismo sciita in Iran (e poi nel Libano, dal 1982) è stato uno snodo importante, poiché nel contribuire attivamente a mutare la scena regionale ha anche reso più plausibile l’approccio di cui molti, prima dello stesso Netanyahu, si faranno artefici: giocare su più piani, al medesimo tempo, nella concorrenza tra sciiti e sunniti; intendere l’antiterrorismo non solo come miscela di intelligence (prevenzione) e azione (repressione) ma anche come strumento per influenzare la condotta degli avversari; porsi il problema delle alleanze tattiche e strategiche nello stesso campo arabo; affrontare, cercando di ridurne l’impatto a livello internazionale, l’evoluzione del nazionalismo palestinese; riformulare la questione dei confini d’Israele lavorando sullo snodo della profondità strategica, sia in ordine alla dimensione territoriale del Paese sia in rapporto ai processi di trasformazione sociale, culturale ed economica che stavano coinvolgendo Israele.
Tra il 1980 e il 1982 lavora come direttore del marketing nelle Rim Industries di Gerusalemme. È peraltro proprio in questo periodo che intensifica i suoi rapporti con alcuni esponenti della classe politica nazionale, tutti collocati a destra, a partire da Moshe Arens. Ed è quest’ultimo a nominarlo vice capo missione all’ambasciata isrealiana a Washington, contando sulla sua buona conoscenza degli Stati Uniti. Due anni dopo, nel 1984, diventò ambasciatore alla Nazioni Unite, ricoprendo tale incarico, con toni battaglieri, fino al 1988. Tra parentesi, risale a quel secondo periodo di tempo di “cattività americana” la sua duratura amicizia con Fred Trump, il padre di Donald.
La guida spirituale di Bibi, a quel punto, diventa il pensiero mistico e messianico espresso dal rabbino Menachem Mendel Schneerson (1902-1994), il «Rebbe», leader carismatico dei Chabad-Lubavitch. Nel 1988 ritorna in Israele ed entra in politica, nel Likud. Viene eletto per la prima volta alla Knesset con la dodicesima legislatura (1988-1992), quando il suo partito totalizza un terzo dei 120 seggi a disposizione. L’indisponibilità di Netanyahu nei confronti di una parte del suo partito si rivela nelle frizioni con l’allora ministro degli Esteri David Levy (nel suo primo mandato, svolto tra il 1990 e il 1992). Durante la prima guerra del Golfo (1990-91), Bibi è peraltro tra i più gettonati interlocutori nella calca dei media americani che affollano la platea mediorientale.
Non solo la sua eccellente conoscenza dell’inglese ma anche e soprattutto la sua capacità di parlare al pubblico statunitense sapendo toccare i giusti tasti, il suo physique du rôle, la cura nell’aspetto e nell’abbigliamento, il tono al medesimo tempo perentorio e rassicurante, piacciono a molti spettatori d’oltreoceano. Di contro alla precedente generazione di likudnikim, aveva capito che le televisioni potevano fare la differenza. Non a caso, in quei mesi emerge come il portavoce di una nazione, il vero frontman, consolidando la sua autorevolezza. Nel mentre, partecipa ai primi colloqui che avrebbero portato agli accordi con i palestinesi negli anni Novanta, entrando quindi a fare parte dell’ufficio del primo ministro Yitzhak Shamir. Con la vittoria laburista nelle legislative del 1992 all’interno del Likud si arriva ad un vero e proprio cambio generazionale. Nelle primarie interne Netanyahu la spunta su Benny Begin, figlio di Menachem, su David Levy e sullo stesso Ariel Sharon, quest’ultimo alla ricerca già negli anni Ottanta di una posizione di primissimo piano nella politica israeliana.
Ma la vera consacrazione si avrà con la vittoria della destra alle legislative del 1996 (le prime in cui gli elettori sceglievano direttamente il premier, a seguito della riforma elettorale introdotta nel mentre), dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin e la deludente performance del primo ministro uscente Shimon Peres, in una terribile stagione di attentati contro i civili. La campagna elettorale che Bibi condusse, come candidato del Likud, fu impostata sulla base delle indicazioni di Arthur Finkelstein, spin doctor e guru del partito repubblicano: basata sulla velocità, sull’attacco verbale contro gli avversari, sulla ripetizione di una serie di affermazioni che assumevano il carattere non solo di slogan ma di verità inoppugnabili, cercava di mettere in rilievo soprattutto le debolezze degli avversari piuttosto che identificare i punti forti del proprio programma politico. La parola chiave era «sicurezza». Ovvero, «vota Netanyahu, per una pace sicura» (e per la neutralizzazione del potenziale politico internazionale di Yasser Arafat). Il tutto gli valse le critiche di molti ma anche la cosa che più gli importava, ossia la vittoria alle urne. Era ciò che cercava. Incoronato nel ruolo di capo di governo, il più giovane tra quelli nati in Israele, iniziava la sua lunga strada da «Re Bibi», malik Yisrael.
Troppo intelligente e scaltro per non negoziare anche con il diavolo, a conti fatti Netanyahu, da allora ad oggi, ha sempre usato, nei rapporti con le controparti d’Israele, una miscela tra l’intransigenza e la capacità di adattamento alle circostanze date. Ben sapendo che la durezza, se diventa spietatezza, rischia poi di sbriciolarsi dinanzi alla pressione degli eventi. In tutta probabilità avrebbe concesso di più ai palestinesi se lo stallo e poi il declino della stagione negoziale, insieme alla crescente concorrenza, interna alla destra, esercitata da Ariel Sharon, non lo avessero posto nella condizione di ridisegnare continuamente il suo perimetro politico, stringendo progressivamenteil campo d’azione rispetto al destino della Giudea e della Samaria. Un altro punto debole, insieme alle discusse vicende famigliari, che vedono come autentica primadonna sua moglie Sara (non troppo amata da molti israeliani), è il ripetersi delle accuse di corruzione o comunque di disinvoltura nella gestione di una parte dei fondi pubblici. Perlopiù archiviate nel passato, oggi invece rischiano di essere la pietra sepolcrare delle sue residue ambizioni.
Si diceva del carattere divisivo della sua leadership così come della conclusione di un lungo ciclo politico. Nel primo caso Netanyahu ha giocato frequentemente al rialzo della posta della comunicazione, ossia dell’oggetto sul quale concentrare l’attenzione degli israeliani. È un criterio che ha acquisito dalla sua esperienza americana. Per aggirare un ostacolo concreto si concentra un fuoco di sbarramento contro un altro target, in genere di scarso riscontro effettivo. Così nel caso, tra gli altri, della controversa dichiarazione nella quale affermava che la vera anima nera dello sterminio nazista sarebbe stato il muftì gerosolomitano Amin al-Husseini (di cui Yasser Arafat era nipote), che avrebbe convinto Hitler, altrimenti disposto alla deportazione ma non necessariamente al genocidio, nel procedere verso la «soluzione finale della questione ebraica». La questione, così posta, pur non avendo nessun riscontro storico né tanto meno un imprimatur di ordine storiografico, ha sollevato un polverone, esacerbando lo scontro politico.
Alla divisività come strumento di gestione della politica, Netanyahu ha sempre coniugato la sua capacità di costruire coalizioni. Nelle elezioni del 2013, aveva dimostrato, dopo estenuanti trattative, prorogatesi nel tempo, di riuscire a mettere insieme partiti diversi. Oltre al Likud e ad Yisrael Beiteinu, anche Yesh Atid, Focolare ebraico di Naftali Bennet e Hatnua, con una maggioranza di 68 parlamentari su 120 seggi. Tuttavia, la sua figura si è sbiadita in questi ultimi anni. Non sono solo le vicende giudiziarie che ancora lo accompagnano. Così come una crescente allergia per l’autonomia dei poteri. È semmai l’elemento della conclusione di un ciclo politico, avviatosi con la morte di Yitzhak Rabin nel 1995 e con il progressivo collassamento della prassi negoziale con i palestinesi. In venticinque anni la politica mediorientale, di cui Netanyahu è stato un protagonista, è infatti mutata. Non solo essa, peraltro. Re Bibi ha collaudato, a suo beneficio, quei processi di «americanizzazione della politica israeliana», basati sul ricorso inflattivo alle immagini e alle rappresentazioni pubbliche, a fronte di un crescente ridimensionamento dell’intervento pubblico in una società che, a sua volta, è cambiata ed ancora cambierà. Così come cambia la sua politica.
Netanyahu ha cercato in tutti i modi di avvalersi dello sgretolamento del sistema delle relazioni internazionali basato sulle mediazioni delle grandi organizzazioni multilaterali per privilegiare i rapporti bilaterali. Lo sviluppo economico del Paese lo ha aiutato in tale senso. Non però quello demografico e culturale, dove la spaccatura tra laici e ultraortodossi è una questione sulla quale si misura una frattura irricomponibile. E per la quale Netanyahu non ha soluzione da offrire. Così come, per rimanere nel campo di una divisività che rischia adesso di riversarsigli addosso come una padella di olio bollente, si pone la questione della controversa legge su «Israele stato nazionale degli ebrei», punto di arrivo dell’etnicismo in politica. Laddove le critiche non sono mancate, anzi, si sono rafforzate in accesi rifiuti, soprattutto quando, in tutta probabilità per fidelizzare i rapporti con la destra più radicalizzata, ha lasciato che l’antiarabismo di quest’ultima si esercitasse anche contro la corposa minoranza arabo-israeliana. In un pericolosissimo gioco di specchi sui temi della lealtà e della fedeltà nei confronti del Paese e delle sue istituzioni pluraliste.
La questione è che a raccogliere i frutti dei cambiamenti si stanno comunque candidando altri soggetti. Così come, prima o poi, una risposta al tema aperto del destino dei territori della Giudea e della Samaria, dovrà essere data. Anche perché le forze politiche ebraiche che operano in essi, sono oramai da tempo del tutto autonome dal Likud, ponendosi semmai l’obiettivo non solo di influenzare ma di risultare determinanti nelle scelte politiche di Gerusalemme per gli anni a venire. Se Netanyahu non dovesse farcela a garantirsi il quinto premierato, è molto difficile che possa sperare di tornare in seguito in campo con un ruolo che non sia subalterno. La sua generazione, essendo Bibi adesso settantenne, intercetta con crescente difficoltà il complesso e stratificato pluralismo della società israeliana. Lo ha alimentato, a modo suo, ma rischia di esserne in qualche modo “divorata”. Anche se sarà un avvicendamento lungo, pieno di ostacoli e irto di difficoltà.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.
Il curriculum vitae di Nethaniahu è ben fatto, ma temo che la realtà politica di questo abile personaggio sia più complessa e mancano diversi riferimenti che, invece, coloro che abitano in Israele conoscono bene.
Non voglio scrivere un saggio sul tema, ma mi limito a rilevare che in questo profilo mancano informazioni chiave.
Innanzi tutto i tre casi di possibile incriminazione per corruzione, falso ideologico e violazione della fiducia. I legali di BN sono appena stati ascoltati nell’udienza preliminare ed ora la magistratura deciderà se aprire i processi e per quali reati.
Oltre a questi, c’è il fatto che BN ha assunto la responsabilità di ben quattro ministeri, in barba alla collegialità del Governo, ma gestendoli in maniera molto discutibile. Infatti la Sanità pubblica fa acqua da tutte le parti, l’economia da segni di cedimento con i prezzi al consumo in continua, incontrollata crescita e l’assenza di una strategia industriale, il Ministero degli Esteri è affidato ad interim a Katz, nomen omen, figura esecutiva di scarso peso, prima Ministro dei Trasporti, noto per non essere riuscito a risolvere i gravi problemi del traffico su gomma e per essere riuscito a far partire la linea Gerusalemme Tel Aviv con un anno di ritardo, con gravi ritardi e disservizi. Come Ministro degli Esteri ombra, Nethaniahu vede collassare la sua “amicizia” con Trump, rivelatosi a tutti gli Israeliani un voltagabbana pericoloso, mentre è molto probabile che la sponda Russa ci riservi altre nuove e amare sorprese, a parte la grande cordialità mediatica presentata da BN.
Gli Israeliani del Likud se ne sono resi conto e molti hanno votato per Azzurro-Bianco di Ganz (partito che non è affatto di centro bensì di destra moderata, una sorta di Likud pulito da corruzione) o per Liberman. All’interno del Likud, secondo un sondaggio del notiziario online Walla! della settimana scorsa, a fronte di elezioni primarie il 54% degli elettori voterebbe BN, mentre il 24% voterebbe Gidon Saar, suo concorrente alla guida del partito. Si noti che BN prima delle ultime elezioni ha obbligato (sic) i membri del Likud a firmare un patto di fedeltà e sostegno alla sua persona. Un vero sincero democratico.
La domanda più interessante di questo sondaggio è stata: Nel caso di una presidenza nel Likud di Saar, dati per invariati i programmi di tutti gli altri partiti, per quale partito voteresti? Le risposte (tutti gli intervistati) sono state: per Azzurro-Bianco 33%, vs. 26% per Likud a presidenza Saar. Pertanto sulla carta BN sarebbe già fuori dai giochi. Ma nella realtà ci sono interessi economici: con il denaro pubblico BM sembrerebbe aver garantito finanziamenti ai partiti ultra religiosi e di destra estrema, e indennità personale per i ministri indagati per corruzione e riciclaggio (Deri dello Shas) e favoreggiamento e falso a favore di una stupratrice seriale ricercata in Australia (Rav Litzman di Yahadut HaTorà). E anche per questo sono in molti elettori del Likud che criticano il partito, un tempo partito laico, oggi usato da BN per compiacere a oltranza i partiti religiosi e gli Ortodossi in cambio della propria immunità dai processi.
In conclusione, BN non è più lo statista di un tempo, ma un politicante cinico, si dice anche manipolato dalla moglie Sara, che appare sempre più negli eventi pubblici con ruoli quasi di governo.
Alberto Corcos
Direi che le considerazioni di Corcos integrano con un punto di vista Israeli inside le considerazioni contenute nel pezzo. Grazie del corredo di opinioni. Va da sé che un fenomeno politico possa essere osservato in modo diversi a seconda dei distinti punto di osservazione.