Lungo 53 metri e largo più di 26, il più grande luogo di preghiera ebraico in Europa, svetta su tutti gli altri edifici della strada da cui prende il nome, Dohány utca
Priva di torri, in una via secondaria e più bassa della più vicina delle chiese. Erano queste le caratteristiche che una sinagoga doveva avere, prima dell’emancipazione ebraica del 1867. Costruita a Pest, sulla sponda orientale del Danubio, nel 1859, quando il processo di parità politica ed economica nel Regno di Ungheria era ormai a buon punto, la Grande Sinagoga di Budapest si guarda bene dal rispettare tali regole. Anzi, le infrange platealmente.
Lungo 53 metri e largo più di 26, il più grande luogo di preghiera ebraico in Europa e il secondo o terzo (dipende dai parametri) del mondo, dopo quelli di Gerusalemme e di New York, svetta su tutti gli altri edifici della strada da cui prende il nome, Dohány utca. In particolare, ad attrarre l’attenzione anche dei più distratti sono le due torri della facciata, alte 44 metri e dotate di cupole a cipolla dal caratteristico stile orientale. Tutto intorno, scorre la vita di un quartiere, quello di Erzsébetvàros, nel settimo distretto della città, da sempre tradizionalmente territorio ebraico. Qui si concentra una buona parte della numerosissima comunità di Budapest, la più grande dell’Ungheria e tra le più importanti d’Europa, con un numero di abitanti di origine ebraica stimato intorno alle 100mila unità. Tra le vie e le piazze di questo quartiere dagli eleganti palazzi Liberty si possono trovare negozi e ristoranti kasher, mentre nei locali si organizzano concertini di musica klezmer.
Tra i monumenti più visitati della capitale magiara, il gigantesco tempio che domina il quartiere non è certo l’unico della zona e tanto meno della città, che comprende 23 luoghi di preghiera. Non troppo lontano, in Kazinczy utca, sorge l’omonima e incantevole sinagoga della comunità ortodossa. In via Rumbach, disegnando un triangolo ideale con gli altri due templi, si trova l’ormai inattiva ma splendida Piccola Sinagoga, disegnata dal maestro dell’Art Nouveau viennese Otto Wagner. Tra tutte, però, la sinagoga di Dohány utca è di certo la più spettacolare. Insignita nel 2018 del Marchio del Patrimonio Europeo in quanto pietra miliare della creazione dell’Europa attuale, è stata riconosciuta come “un simbolo di integrazione, ricordo e apertura al dialogo”. A proposito di integrazione e assimilazione, non va dimenticato che questo immenso edificio era stato voluto dai cosiddetti ebrei neologi, la corrente religiosa più incline fin dai tempi dell’emancipazione all’avvicinamento della comunità alla società ungherese. Con un’ampia rappresentanza tra le classi medio alte, questa congregazione aveva introdotto non poche variazioni alla vita religiosa così come a quella secolare dei suoi membri. E la sua sinagoga ne è una prova.
Progettata da Ludwig Förster, lo stesso architetto (non ebreo) già autore della Grande Sinagoga di Vienna (distrutta dai nazisti nel 1938), la Grande Sinagoga nelle intenzioni del suo creatore doveva raccogliere diversi stili, dal bizantino al romanico, anche se quello più evidente è il neomoresco, molto in voga all’epoca della sua edificazione, nel 1859. Dalla copertura esterna in mattone grezzo policromo, ha interni che possono in qualche modo ricordare quelli di una chiesa cristiana. Nelle sue tre navate trovano spazio circa tremila posti a sedere e, in fondo, svetta il Bimah, collocato di fronte all’Arca come indicato dall’ebraismo neologista invece che al centro della Sinagoga come avviene per gli ortodossi.
Allo stesso complesso religioso appartengono alcuni degli altri luoghi simbolo della comunità ebraica ungherese e della sua storia. Accanto al tempio e parte dello stesso edificio, in via Wesselényi 7, si trova il Museo e Archivio Ebraico. Allestito agli inizi del Novecento, aveva l’intento di far conoscere meglio la comunità in un’epoca in cui questa, con i suoi circa 200mila membri, rappresentava circa un quarto della popolazione cittadina. Le tragedie che si sarebbero abbattute sui suoi appartenenti segnano la destinazione degli altri spazi del complesso.
Ormai inseparabile dalla stessa Sinagoga e costruito nel 1931, il Tempio degli Eroi commemora i 10mila i soldati ungheresi di religione ebraica morti nelle trincee della Prima Guerra Mondiale e si presenta come un piccolo luogo di preghiera da 186 posti con struttura ad arcate. Sul lato sinistro della Sinagoga Maggiore, dietro al Museo, si trova invece un cimitero, affacciato su via Wesselényi. Caso più unico che raro nell’edilizia religiosa ebraica, che non prevede la sepoltura nel terreno di un tempio, la creazione di questo luogo è stata forzata da circostanze drammatiche.
Al momento della liberazione del ghetto, il 18 gennaio 1945, furono trovate le spoglie delle migliaia di ebrei che, scampati alla deportazione, avevano trovato la morte per fame, freddo e assassinio tra le mura erette dai nazisti nel 1944. Queste stesse mura, oggi distrutte quasi completamente, sono ancora in parte riconoscibili nei cortili di alcuni condomini del quartiere, mentre un loro tratto è stato ricostruito al 34 della stessa Dohány utca. Dei corpi rinvenuti in questa prigione a cielo aperto, di cui più di tremila sulla sola piazza Klauzál e tantissimi altri lungo le mura della stessa sinagoga, 1.140 riconosciuti e altri 1.170 senza nome sono stati sepolti in 24 fosse comuni scavate nel giardino della sinagoga.
Alla Memoria sono consacrati il Parco Commemorativo Raoul Wallenberg e il monumento che qui vi sorge, L’albero della Vita della Fondazione Emanuel. Finanziato dall’attore di origini ungheresi Tony Curtis e realizzato dall’artista ungherese Imre Varga, il memoriale ha le sembianze di un maestoso salice piangente in metallo sulle cui cinquemila foglie sono incisi i nomi delle vittime delle Croci Frecciate naziste nel ghetto di Budapest.
Il Parco è dedicato invece ai Giusti tra le Nazioni. Tra i nomi qui ricordati, anche quelli di tre italiani: l’arcivescovo Gennaro Verolino, il nunzio apostolico Angelo Rotta e Giorgio Perlasca. Quest’ultimo, commerciante dai trascorsi fascisti poi rinnegati all’epoca delle leggi razziali e dell’alleanza dell’Italia con la Germania, fu l’artefice di importanti operazioni di salvataggio. Introdottosi con astuzia nell’ambiente diplomatico spagnolo (conosceva perfettamente la lingua e godeva di assistenza presso l’ambasciata iberica per aver partecipato alla guerra civile spagnola), si spacciò per il sostituto del console Angel Sanz Briz, che nel frattempo aveva abbandonato l’Ungheria per non dover riconoscere il governo filonazista. Rilasciando salvacondotti fittizi, seguendo approvvigionamento e consegna di viveri e stringendo patti diplomatici con lo stesso governo ungherese, Perlasca riuscì a mettere in salvo migliaia di ebrei. La sua missione si affiancò a quella del più noto svedese Raoul Wallenberg, a cui è intestato il Parco, e del console svizzero Carl Lutz, la cui storia, al pari di quella di Perlasca, è stata resa nota solo in tempi relativamente recenti.
Tra gli stratagemmi messi in atto dai Giusti, quello delle case protette, i 76 “schutzhäuser”, dichiarati sotto immunità diplomatica nei quali furono accolti, nutriti e assistiti i tanti che non erano riusciti a fuggire. Un altro modo per evitare le deportazioni fu la distribuzione di false lettere di protezione consolari, emesse riproducendo i certificati di emigrazione per la Palestina rilasciati dalla Gran Bretagna. A Lutz è dedicato il museo presso la Glass House, ex fabbrica di vetro in via Vadász 29 da dove il console e i suoi collaboratori coordinavano le operazioni che portarono a salvare circa 62mila ebrei, metà di quanti riuscirono al salvarsi dai Nazisti a Budapest.
Ai 600mila ebrei ungheresi assassinati dai nazisti e, in particolare, agli abitanti del ghetto della capitale trucidati dalle milizie filonaziste è invece dedicato uno dei memoriali più strazianti della Shoah. Sono le Scarpe sulla riva del Danubio, un gruppo scultoreo dal realismo quasi insopportabile realizzato nel 2005 dal regista Can Togay insieme allo scultore Gyula Pauer. A grandezza naturale, con le punte rivolte verso l’acqua, le sessanta paia di calzature in metallo disposte lungo quaranta metri di banchina nei pressi del Parlamento Ungherese ricordano quelle degli abitanti del ghetto, donne, uomini e bambini, che furono prima imprigionati nelle loro stesse case e poi costretti a marciare verso il fiume. Qui, privati come ultimo affronto anche delle scarpe, furono fucilati e gettati nelle acque del Danubio.
Per concludere questo itinerario nella memoria, si può tornare nei pressi della Gande Sinagoga e ricordare uno dei figli più noti della città di Budapest. Giornalista e scrittore, Theodor (Tivadar) Herzl era nato nel 1860 nell’edificio in cui oggi ha sede il Museo dell’Ebraismo. Di origini ashkenazite, quello che è considerato il padre del sionismo moderno aveva conosciuto l’antisemitismo sia nella sua città natale sia a Vienna, dove con la famiglia si era trasferito nel 1878. Fino a quel momento, però, come molti suoi concittadini, aveva pensato che il modo migliore per superare la discriminazione fosse l’assimilazione.
Il lavoro come giornalista, prima a Vienna e poi dal 1891 a Parigi come corrispondente del giornale austriaco Neue Freie Presse, dove seguì l’affare Dreyfus, gli avrebbe fatto capire quanto l’antisemitismo fosse radicato in Europa. Da qui, pare, il cambiamento di rotta. Con la pubblicazione, cinque anni dopo, di Der Judenstaat, Lo Stato Ebraico, formulò la sua proposta ai governi europei di creare uno Stato di Israele (che, secondo lui, avrebbe potuto nascere anche in Agentina) perfezionando poi l’idea della sua realizzazione nei territori del mandato britannico palestinese con la fondazione, nel 1897, del movimento politico del sionismo.
Budapest ricorda formalmente Herzl con una targa posta all’esterno della sinagoga di Dohány utca, mentre lo stesso parco che circonda il tempio prende il suo nome. Più difficile da individuare, ma capace di strappare un sorriso è invece la minuscola statua in bronzo che da qualche anno lo ritrae, cappello in testa e calzoni alla zuava, accanto alla sua bicicletta. Si tratta di una delle piccolissime opere dell’artista Mihály Kolodko, le cui statuette di “guerriglia artistica” punteggiano i luoghi più impensati della città con i soggetti più diversi. Quella di Herzl si trova accanto al suo luogo di nascita, ma per individuarla è necessario aguzzare lo sguardo, perché è applicata al piedistallo di un altrimenti anonimo lampione.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.