L’internamento degli ebrei nel meridione d’Italia ricordato con la storia del campo e della cittadina salernitana di Campagna
Raccontare la memoria della Shoah in Italia significa anche confrontarsi con un fenomeno che si è evoluto in maniera dissimile e non omogenea durante la Seconda Guerra Mondiale. La storia dell’internamento degli ebrei nel meridione d’Italia è stata per lunghi decenni quasi completamente dimenticata per vari fattori: da un lato il più cospicuo numero di deportati e le tragiche modalità d’internamento nei campi di concentramento nazisti, dall’altro la maggiore diffusione demografica degli ebrei nel Nord del Paese, rispetto all’esiguità numerica del Sud. Così, per molti anni dopo la fine della guerra, la ricostruzione storica dell’internamento ebraico e la sua rappresentazione collettiva si è focalizzata principalmente sui lager nazisti, lasciando cadere nell’oblio l’altra modalità di persecuzione, sia pure meno drammatica, del confino o dell’internamento fascista nei paesi dell’Italia meridionale.
Al sud Italia e in particolare in Campania, i campi di concentramento istituiti sono stati in totale cinque, due dei quali nell’entroterra salernitano, a Campagna e a Sala Consilina.
Il caso di Campagna, su cui ci soffermeremo in questo articolo, ha costituito un esempio unico di solidarietà, condivisione e umanità. Infatti nei due campi istituiti a Campagna, gli ebrei non hanno subito particolari violenze, al contrario avevano la possibilità di ricevere la visita dei propri familiari e di oltrepassare i confini del campo, oltre che prendere parte ad attività sportive e religiose concesse ed organizzate insieme alle autorità locali. Si può affermare, a buon ragione, che il campo di internamento di Campagna, secondo le testimonianze e le fonti a disposizione, ha rappresentato uno dei rari casi in cui gli ebrei non hanno risentito eccessivamente della loro condizione di internati, essendo stati accolti e trattati benevolmente da tutta la comunità cittadina. Inoltre, le gravi condizioni igieniche e sanitarie in cui versava non solo il campo, ma tutto il paese, hanno impedito alle autorità locali l’applicazione del divieto di “esercitare” ai medici ebrei, che ebbero un grosso peso sia sul servizio sanitario del campo sia sulla sanità dell’intero paese, dove era particolarmente elevato il rischio di malattie infettive.
L’assistenza medica agli internati, così come nel resto del paese, era assegnata ad un medico locale, ma costantemente coadiuvata e spesso assegnata anche ai medici ebrei internati a Campagna, coordinati dal Dottor Maks Tanzer, supportato dal giovane medico Enrico Chaim Pajes.
Arriviamo all’8 settembre 1943, quando la radio diffonde in tutta Italia la notizia che è stato firmato l’armistizio tra lo Stato italiano e le forze alleate di liberazione. In quelle stesse ore, sulle zone costiere della provincia di Salerno avveniva l’operazione Avalanche: centinaia di navi dell’esercito alleato organizzavano lo sbarco. Si preparava una lunga battaglia, dura e spietata: alla fine, dopo più di una settimana di combattimenti, i tedeschi risultarono sconfitti per il peso determinante dell’aviazione alleata e per il fuoco massiccio delle navi di appoggio ancorate di fronte alle spiagge.
In quei giorni, tutta la costa salernitana ha subito ingenti bombardamenti: Eboli e ancor più Battipaglia erano state prese di mira. La maggior parte della popolazione era fuggita in luoghi considerati più sicuri, e tra questi c’era proprio Campagna, che presentava il vantaggio di non essere distante dalla Piana del Sele e nello stesso tempo ben difesa, perché circondata dalle montagne. Tuttavia proprio a Campagna, in quei giorni, i tedeschi tentarono una massiccia deportazione degli ebrei che si trovavano ancora nel campo, ma l’operazione fallì, perché la notizia riuscì ad essere carpita dai custodi del campo, grazie anche all’intervento del Vescovo Palatucci, e insieme riuscirono a far scappare gli internati che si dispersero proprio nelle montagne.
Ma il giorno della tragedia, per il piccolo paese salernitano, è stato il 17 settembre 1943. In quel giorno due grossi aerei americani hanno sganciato i propri ordigni in alcune zone del paese, tra cui la strada davanti al Comune, colpendo la folla riunita per ricevere la razione di pane. Gli aerei alleati lasciavano dietro di loro una dolorosa scia di sangue: più di centosessanta morti, a ciò si aggiunga che i soccorsi non sono stati tempestivi per il periodo di caos in cui tutto il mondo si trovava a causa della guerra, per la paura dei tedeschi e per il timore di altri bombardamenti. Fondamentale, in quelle ore, è stato l’intervento dei medici ebrei internati nel campo di Campagna, protagonisti di un momento tragico, ma anche eroi silenziosi, maestri di umanità e portatori del senso del dovere.
Quell’episodio tragico è stato raccontato poi da uno dei due medici molti anni dopo, Chaim Pajes, in un’intervista rilasciata a Judith Goodstein e Carlotta Scaramuzzi, per la rivista Il Sapere nell’ottobre del 2002. Mentre racconta della sua esperienza da internato, egli dichiara: «Quella cittadina, Campagna, fu bombardata; fu colpito anche il campo e un camion pieno di munizioni che provocò una carneficina tra le persone in fila per il pane. Decine di morti, e medici non ce n’erano, erano scappati tutti. Cosicché un mio amico, il dottor Tanzer, un infermiere, Bahl, e io organizzammo i soccorsi. Quando i tedeschi ci fermavano, mostravamo la croce rossa sul braccio e dicevamo: “Niente capire, niente capire”. Abbiamo tirato fuori dalle macerie decine di feriti e abbiamo messo su un ospedaletto nella sacrestia della chiesa. Ci aiutò il vescovo, una bravissima e coraggiosa persona. Mentre eravamo lì, ci sono stati altri due bombardamenti americani: bombe che cadevano, polvere, finestre che sbattevano, vecchi terrorizzati, feriti gementi, il vescovo che benediva i vivi e i morti. Lavorammo un giorno, una notte e un altro giorno senza mai fermarci, senza mai toccare cibo. Con coltelli da cucina abbiamo fatto tre amputazioni. Per le suture e le fasciature usavamo ago e filo da cucito e strisce di lenzuola bollite e strizzate. Lavorammo in questo modo quando arrivò un uomo gridando: “Gli americani!”. Anche adesso ricordando quel momento mi commuovo. Presi a correre come un pazzo finché incrociai una Jeep americana con quattro soldati, due bianchi e due neri. Gli corsi incontro sventolando un fazzoletto e anche se loro avevano puntato una mitragliatrice verso di me riuscii a raggiungerli e ad abbracciarli. Era la fine di un incubo».
La singolare esperienza di Campagna ha dimostrato come all’interno della più tragica pagina della storia dell’umanità, possa esistere una dimensione umana, e come la popolazione del paese abbia dato la possibilità agli ebrei qui capitati di vivere una sorta di “normalità”, lontano dall’intolleranza e agli antipodi della feroce persecuzione che caratterizzò la fase successiva dell’internamento ebraico in Italia, facendo in modo che gli internati trovassero una salvezza sia spirituale che reale. Così alcuni degli internati, in particolare i medici ebrei, aiutarono la popolazione duramente colpita dal bombardamento del 17 settembre, ringraziandola per la solidarietà dimostrata durante gli anni dell’internamento. I sopravvissuti di questa storia hanno raccontato ai loro discendenti gli episodi di questo periodo, permettendo anche a questi di sopravvivere alla storia, garantendo così la trasmissione del valore della memoria, valore ancora rintracciabile nell’era attuale, quella della postmemoria.
Distribuzione del rancio nel campo di concentramento di San Bartolomeo a Campagna (da G. Petroni, Gli ebrei a Campagna durante il secondo conflitto mondiale).
Classe 1991, è PhD Candidate dello IULM di Milano in Visual and Media Studies, cultrice della materia in Sistema e Cultura dei Musei. Studiosa della Shoah e delle sue forme di rappresentazione, in particolare legate alla museologia, è socia dell’Associazione Italiana Studi Giudaici.
Interessantissimo articolo su di una miracolosa pagina della drammatica storia della persecuzione degli Ebrei a opera del fascismo. Nel ringraziare la giornalista per le preziose informazioni, resto in attesa di leggere altri suoi approfondimenti. Cordialmente. Patrizia Martini
Grazie per l’articolo : mio nonno, Max Stern, fu detenuto nel campo d’internamento di Campagna (ivi trasferito dal confino a San Valentino d’Abruzzo). Ho delle fotografie di mio nonno a Campagna, alcune con Monsignor Palatucci.
Mio nonno fuggì alla notizia dell’armistizio, si uni’ a mia nonna ed a mio padre e ritornarono ad Abbazia. Sopravvissuto tutti e tre in clandestinità grazie a falsi documenti d’identità rilasciati da Giovanni Palatucci.
Sia il loro ricordo di benedizione.
Paolo Stern.
Sto facendo una ricerca storica sugli internati a Campagna, dove anche mio nonno fu internato. Mi farebbe piacere poterla contattare