Cultura
La Resistenza ebraica in Europa

Daniele Susini ci ricorda come il popolo ebraico abbia cercato di opporsi alla sua distruzione: il solo fatto di rimanere in vita, di sopravvivere significava non abbattersi, non lasciarsi andare all’opera di annientamento psicologico, oltre che fisico, pianificata e attuata dai nazisti

Nei primi decenni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale le reazioni degli ebrei durante la Shoah sono state raramente oggetto di riflessione e dibattitto, fatta eccezione la rivolta del ghetto di Varsavia, episodio maggiormente conosciuto o, più in generale, per i combattimenti armati contro i persecutori, oppure l’opposizione politica al nazismo. Daniele Susini, autore del volume La Resistenza ebraica in Europa (Storie e percorsi 1939-1945, Donzelli, 2021, euro 28.00) documenta come le ribellioni armate siano state più numerose di quanto si è soliti pensare, inoltre considera altre importanti forme, poco conosciute, di resistenza.

Nel suo volume, dunque, vengono considerati gesti meno eclatanti e clamorosi della lotta armata, ma comunque assimilabili al fenomeno della resistenza, come ad esempio rubare o contrabbandare cibo e medicine, atti che dimostrano uno straordinario coraggio poiché in ogni caso, durante il regime nazista, erano vietati e inammissibili, e che quindi acquistano valore nell’intera storia della resistenza ebraica. L’autore insiste, nella prima parte del suo lavoro, sulla persecuzione senza precedenti perpetrata con la Shoah e sulla violenza inaudita che si è abbattuta sugli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, sottolineando la necessità di avere un quadro generale di quanto accaduto, per comprendere radicalmente la condizione degli ebrei, e cioè la minaccia dell’estinzione totale in un’Europa sostanzialmente indifferente al suo destino e dominata dalla Germania nazista e dai suoi alleati. Susini ci spiega come il popolo ebraico abbia cercato di opporsi alla sua distruzione: il solo fatto di rimanere in vita, di sopravvivere significava non abbattersi, non lasciarsi andare totalmente all’opera di annientamento psicologico, oltre che fisico pianificata e attuata dai nazisti, attaccarsi al più piccolo conforto o barlume di speranza significava mettere in atto una vera e propria rivoluzione. Quindi, dall’atto di adattamento continuo da parte degli ebrei, e cioè la capacità di fronteggiare giorno dopo giorno il pericolo, attuando sempre strategie diverse di sopravvivenza, al tentativo di ostacolare il corso delle cose con gesti di disobbedienza, possiamo dire che il grande eroismo, così come leggiamo nelle pagine di Susini, sia stato quello di cercare di rimanere il più possibile umani e normali in un mondo in cui i valori erano stati ormai completamente compromessi.

La resistenza ebraica, in definitiva, è stato il “semplice” restare in vita, una resistenza alla morte spirituale, psicologica e fisica pianificata dal nazismo. Pertanto, secondo l’autore, la storiografia della resistenza ebraica dovrebbe accogliere una pluralità di forme, ciascuna con le proprie peculiarità, che ci aiutino a capire la portata del crimine nazista e l’evoluzione avutasi negli studi dedicati al genocidio ebraico.

In una linea temporale che va dal processo ad Adolf Eichmann nel 1961, in cui per la prima volta si è data voce alle vittime, al crollo del muro di Berlino, nel 1989, vediamo come si incominciarono a considerare quali atti di opposizione non solo quelli compiuti dai partigiani armati, ma anche tutti quei comportamenti che, seppur in piccola parte, hanno contribuito all’opposizione verso il potere nazionalsocialista. «Gli ebrei, in maniera superiore rispetto alle altre vittime del nazionalsocialismo, hanno subito una violenza inedita, che ha influenzato le forme di resistenza e che spiega perché anche le reazioni minime, se non simboliche o intime, possono essere ricomprese in tale categoria» (D. Susini, pp. 7-8).

Il volume, il quarto della serie curata dalla Fondazione Memoria della Deportazione di Milano, «supera banalizzazioni interpretative e pregiudizi ideologici, con l’impegno di uscire dai sentieri già segnati, dagli indirizzi consueti, e con la volontà di rileggere la storia con lo sguardo nuovo di chi non ne è stato diretto protagonista […] Se vogliamo restituire alla storia quella complessità e quelle contraddizioni, che la rendono di grande interesse anche alle nuove generazioni, è necessario superare le letture superficiali e strumentali del fascismo, dell’antifascismo, della Resistenza e della Shoah, con l’impegno di abbandonarne i miti interpretativi, spesso sfruttati nell’agone politico», scrive nella presentazione Massimo Castoldi, direttore della Fondazione.

L’opera è costituita da tre capitoli: il primo dedicato alla rappresentazione che si contrappone alla realtà del popolo ebraico, rievocato nel titolo Come pecore portate al macello, il secondo rivolto alle differenti storie di resistenza, e l’ultimo intitolato la resistenza ebraica in Italia, arricchito dalla postfazione di Alberto Cavaglion. I mezzi con cui i nazisti misero in campo la repressione nei confronti degli ebrei e le reazioni di questi ultimi sono ben spiegate nel primo capitolo, in cui si leggono, sparse qua e là, come pezzi dello stesso mosaico, le significative testimonianze dei sopravvissuti: Elie Wiesel, Primo Levi, Jéan Améry, per citarne alcuni.

Daniele Susini tenta con perseveranza di rispondere all’insidiosa domanda: perché gli ebrei non si sono difesi? Perché non hanno opposto resistenza? La risposta è tanto semplice quanto inaspettata: «La condizione di rassegnazione manifestatasi ad Auschwitz e negli altri campi di sterminio […] è stata l’esito delle inumane condizioni di vita imposte dai nazisti ben prima. […] Prima ancora dei campi di sterminio e delle marce della morte, infatti, i nazisti calarono gli ebrei nel ruolo di vittime, stordendoli e atrofizzando le loro reazioni, inducendoli così a pensare che non ci fosse via di scampo, né salvezza» (D. Susini, p. 23), fino ad arrivare al mito della passività degli ebrei, sviscerato e smentito, nel volume, pagina dopo pagina.

Nel secondo capitolo, l’autore ci presenta un’ampia panoramica di “microcasi” di resistenza ebraica, che si snoda durante un lungo periodo di tempo: dalla ghettizzazione, alle leggi antigiudaiche, lo smembramento delle famiglie, fino alla deportazione nei campi, e quindi ripercorre ogni momento vissuto in condizioni estremamente drammatiche. Qui l’autore esamina le varie strategie di resistenza messe in atto dagli ebrei, attraverso storie quotidiane, individuali e collettive, che rendono conto delle due facce della resistenza ebraica: quella armata e quella senza le armi. La seconda, in molti casi, diventa una vera e propria strategia di sopravvivenza, che a volte risulta molto più efficace della prima: ad esempio in alcuni ghetti dell’Est Europa i movimenti clandestini riuscirono a mantenere attivi alcuni settori lavorativi e produttivi come il lavoro agricolo o l’attività di botteghe artigianali non controllate dai tedeschi.

Inoltre l’autore sottolinea come la resistenza ebraica non abbia interessato solo la sfera delle necessità primarie, ma ha avuto ampi risvolti culturali e sociali: spesso gli ebrei osservanti cercavano di seguire, per quanto possibile, alcuni precetti religiosi come mangiare kosher o fare i mikveh, è possibile rintracciare ancora una resistenza di tipo culturale come nel caso dell’artista ebreo tedesco Felix Nussbaum, che decise di rappresentare attraverso un’arte di denuncia la catastrofe che incombeva sugli ebrei. Infine, tra le forme di resistenza non armate, l’autore ricorda l’opera clandestina del gruppo Oneg Shabbat, creato nel ghetto di Varsavia dallo storico Emanuel Ringelblum, che riuscì a nascondere dentro alcuni bidoni di latta una cospicua parte dei materiali documentari, raccolti per far conoscere all’esterno quello che accadeva all’interno del ghetto. Per Ringelblum resistere significava documentare e far conoscere il male perpetrato quotidianamente contro gli ebrei in tutto l’Est Europa.

In tanti ghetti si è assistito ad atti di resistenza armata, ma l’autore si sofferma maggiormente su quanto accaduto in quello di Varsavia, considerato «un atto di estremo coraggio e dal grande valore simbolico per tutto l’ebraismo: per quelli che vissero la Shoah, per i sopravvissuti e forse ancora di più per quelli che sono venuti in seguito […] le élites politiche ebraiche erano interessate ad occultare la presunta accusa di passività degli ebrei, per cui quell’evento fu paragonato alle grandi battaglie storiche del popolo ebraico, come quella dell’epoca romana a Masada. L’Yishuv si appropriò di questo eroismo […] di modo che la resistenza e l’eroismo ebraico apparissero come frutti del sionismo» (Susini, pp. 117-118). La narrazione dei fatti storici legati alla resistenza si conclude con un paragrafo dedicato agli atti resistenziali avvenuti nei campi di concentramento e di sterminio, atti che hanno interrotto la catena di morte e che hanno dato un forte segnale al di fuori dei campi, dimostrando che anche nelle condizioni più estreme si era combattuto e resistito all’annientamento nazista, e un paragrafo, l’ultimo, focalizzato sul salvataggio o l’occultamento di ebrei, azioni considerate dall’autore come vere e proprie forme di resistenza, grazie alle quali si sono salvati tra il 5% e il 10% degli ebrei sopravvissuti alla Shoah. In queste pagine sono analizzati i differenti atteggiamenti nei paesi europei nei confronti della problematica legata alla presenza degli ebrei: tra le popolazioni possiamo scorgere esempi di diversa solidarietà verso il loro destino, dall’indifferenza ad una solidarietà più spiccata come ad esempio nel caso della Francia o dell’Italia, su cui l’autore si sofferma nell’ultima parte del volume. D’altronde non possiamo ignorare quei casi su cui l’autore si sofferma maggiormente, che riguardano il salvataggio degli ebrei da parte di altri ebrei e non ebrei, episodi che hanno avuto una rilevanza tale da averne riconosciuto ufficialmente i protagonisti con il titolo di Giusto tra le nazioni.

L’Italia, secondo Daniele Susini, rappresenta un contesto particolare in cui la solidarietà è stata più evidente, infatti l’autore riporta diversi episodi che riguardano sia l’impegno degli ebrei verso la necessità di partecipare alla resistenza insieme agli italiani, sia le azioni di sostegno e di aiuto di molti italiani nei confronti delle difficoltà fronteggiate dagli ebrei. Una parentesi nella macrostoria della persecuzione è stata la possibilità dell’internamento, soprattutto nei campi di internamento del Sud Italia, che ha permesso a molti ebrei di salvarsi, anche perché le località scelte erano quasi completamente sconosciute e isolate, come nel caso di Campagna, in provincia di Salerno.

La vasta opera di Daniele Susini risulta efficace sia per la facilità di lettura, sia per l’ordinata sequenza di aspetti proposti riguardo ad un argomento complesso, ha la capacità di fornire uno sguardo d’insieme, ma allo stesso tempo riesce a scendere nello specifico di ogni singola storia proposta, corredando inoltre il testo di un vasto repertorio di fotografie, di documenti e di cartine esplicative che offrono una panoramica immediata al lettore.

Eirene Campagna
collaboratrice

Classe 1991, è PhD Candidate dello IULM di Milano in Visual and Media Studies, cultrice della materia in Sistema e Cultura dei Musei. Studiosa della Shoah e delle sue forme di rappresentazione, in particolare legate alla museologia, è socia dell’Associazione Italiana Studi Giudaici.


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