Cultura Libri
Philip Roth, un anno senza il grande scrittore americano

Ripubblichiamo l’articolo di Costanza Jesurum scritto esattamente un anno fa. Una lettera, un saluto, un pensiero per ricordare l’autore di “Pastorale americana”

Se proprio m’avesse dovuta mettere da qualche parte, sarei stata una di quelle prime mogli da cui essere incantati per i primi dieci minuti della tardiva adolescenza del protagonista, per poi essere gloriosamente cornificate nella restante parte del romanzo e descritte con corposa malagrazia nelle comparsate di fondo trama. Oltretutto, io e le mie consocie, ebree o intellettuali abbastanza intelligenti da amare i suoi libri, alcune persino così brillanti da farci una carriera accademica attraverso, non avremmo neanche potuto blandamente concorrere al trono narrativo della Grande Madre, le pagine immortali del parzialmente riuscito Complotto contro l’America dove quella meravigliosa signora era stata capace di tranquillizzare al telefono il figlio di un’altra, mentre l’ossessione fascista incalzava allucinata e persecutoria.
Questo amore non corrisposto, questa nevrosi divenuta stilema non gliel’ho mai perdonata, la buona scrittura di Roth ha reso, sicuramente suo malgrado, il suo sessismo un contenuto politico, e come tale l’ho trattato e pensato – per quanto il mio sguardo professionale ne abbia sempre sospettato radici private più che culturali. Le madri ebree sono spesso intellettualmente forti, e molti colleghi di Philip ne hanno fatto ritratti pacificati e fedeli, capaci di gentilezza. Ma se fossi uno scrittore non vorrei che si facessero dietrologie analitiche su un privato mio altrimenti inaccessibile, mi sono tenuta le mie congetture professionali e il mio dispiacere narcisistico.

In ogni caso, col tempo ho guardato allargarsi l’irrimediabile distanza con l’autore di cui ho collezionato prime edizioni italiane. Col tempo l’ho pensato e trattato come un oggetto politico più che come un oggetto estetico, e anche ora che sono così dispiaciuta della sua morte, non me ne pento. Io sono una di quelle che per esempio riconosce la precisa matrice ideologica del Nobel, la sua connotazione storicizzata, il fatto che incarni una classe di valori rispetto ai quali il talento narrativo è solo secondario, e no, non mi sono mai stupita del mancato conferimento. Sotto un profilo politico sono stata soddisfatta di quell’assenza.

La letteratura è piena di scrittori reazionari e ben peggiori, chi per talento chi per cattiveria e certamente per conservatorismo, e la materna indulgenza con cui vengono stipati nelle librerie da chi combatte le battaglie che quella prosa non aiuta a vincere è proporzionale a un disinteresse, un affetto mancato, un assenza di parentela. Celine è un grazioso talismano, per dire, Ezra Pound un antico gioiello in fondo al mare, perle rare da mettere in teca, che niente hanno a che fare con la vita. Dopo di loro,  troviamo per lo più animali di talento misurabile con il righello, topini da esperimento accademico, e ancora più sotto,  insetti da inventario, libri senza ristampa, una sequela infinita di pane adatto più ai sociologi che ai critici letterari, o ai cosiddetti lettori forti.

Ma Philip Roth a una certa generazione di lettori, e in particolare di lettori ebrei, ha regalato la narrazione di un mondo, ma a dir meglio di un certo modo di essere ebrei: l’ebreo che non è ebreo ma lo è lo stesso, che litiga con i padri ma mai del tutto, che celebra mediante dissacrazione, e quindi come ogni dissacrazione che si rispetti, torna a sacralizzare: non c’è niente di più pio, di più edipico di una bestemmia. Alla nostra adolescenza culturale, noi ebrei figli di quelli con lo Shabbat di ordinanza e il Talmud in mano, con i nonni sudditi del collegio rabbinico e della dieta kosher, noi con un piede legato all’identità invincibile e atavica e l’altro nel magma di un presente laico, postmoderno, erotizzato, fluido, noi abbiamo trovato una città, una casa, una seggiola. O anche: una carta d’identità. O anche la letteratura sul nostro linguaggio sulla nostra levità, sul nostro umorismo. E posso immaginare che quella scrittura così precisa, esatta a descrivere un luogo della psiche e del paesaggio abbia dato un abbraccio affettuoso anche ai nostri fratelli atei figli di cattolici devoti, i nostri compagni di corso alle lezioni su Marx ed Hegel, i nostri amici di calcetto con la nonna a Messa che però a Messa non ci andavano più. Negli anni della morte delle grandi ideologie, noi che stavamo all’elettrizzante fresco dell’aria aperta ci sentivamo felici e nobilitati. Leggere Roth ci faceva sentire intelligenti, certe pagine riuscite con addolorata precisione, ci davano pensieri decorosi e non indegni, il cinismo – pane del mio mondo e della mia generazione – e certe sue romantiche dolcezze non erano più immorali, ma anzi l’esito di una consapevolezza perfino tragica. Quest’uomo con un talento importante per l’estetica e un consistente carattere di merda ci ha fornito una cuccia, ci ha fatto capire delle cose di noi stessi.

Di quella restituzione identitaria e del piacere nel trovarla così narrata, anche se per me e per tutte le giovani ebree non c’è stato mai gran posto, sono stata molto grata. Da Addio Columbus in poi,  ha edificato nella lettura una relazione e un affetto persino una gratitudine che ora mi commuove. Philip Roth come l’amico più grande degli anni più belli, Philip Roth come il ricercatore a contratto che spiega le cose agli studenti troppo amici, Philip Roth come il cugino fico con cui sperare di uscire una sera, quello giovane come te ma un po’ di meno da ammirare, perché parla di te.

Poi tu diventi un altro, l’affetto non si cancella, neanche una comprensione profonda, il tuo rapporto col sacro migliora più di quanto sia successo a lui, il tuo stare nella vita non si riconsce più nel suo, e rimane questo strano affetto, strano davvero tantissimo, persino tenero ora che se ne va e pure consapevole di questa distanza di carne di ossa, di pensieri, di stare al mondo. E forse questo non è un gran post di critica letteraria, io d’altra parte faccio un altro mestiere, ma testimonia di quella visceralità che c’è in certe letture, nella vita di un lettore forte.

Quindi ecco, Philip volevo dirti – Uffa. E poi ciao. Grazie.

Costanza Jesurum
Collaboratrice

Romana, è psicoterapeuta a orientamento junghiano. Si è laureata prima in filosofia con una tesi sulla scuola di Francoforte, poi in psicologia con una su psicoanalisi e femminismo. È anche scrittrice (l’ultimo suo libro è “Dentro e fuori la stanza”,MInimunFax) e bloggher.


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