Israele
Cronache da Israele: giorno 40

Tornare a casa. Una raccolta di voci di persone che hanno scelto di rientrare in Israele adesso e spiegano perché

Giorno 40. I giorni passano e, lentamente, cominciano anche a tornare tutti quegli itaiani che erano andati in Italia per Sukot, sono rimasti bloccati, hanno aspettato di vedere gli sviluppi di un incubo ancora in corso e alla fine, dopo un mese dall’inizio della guerra, hanno deciso di tornare, cercando di spiegare il perché di questa scelta così difficile.
Non solo da ebrei, ma anche da italiani che lavorano in Israele e hanno deciso di tornare per senso civico e di fratellanza.
Una raccolta di voci, di donne, ciascuna con la sua storia e la sua scelta.
Anche questo è Israele.

Nadia E.
Se devo dire cosa ho provato, appena atterrata all’aeroporto Ben Gurion, in una parola, è  “sollievo”.
Sollievo perché Israele c’è ancora.
Perché vissuto dal di fuori, il 7 ottobre è stata una violazione talmente brutale e talmente profonda di tutto quello a me più caro, che pensavo fosse scomparso tutto per davvero. L’attacco di Hamas ha distrutto tutti i miei valori, il sentimento di sicurezza personale, la nozione di controllo dello spazio fisico del Paese e soprattutto, l’ideale del “mai più”, rappresentato da uno Stato la cui promessa è sempre stata che dentro ai suoi confini saremmo stati al sicuro, per sempre.
Promessa che per me, terza generazione di sopravvissuti alla Shoah, era conditio sine qua non della mia Aliya, il “ritorno” in Israele.
Per questo, una volta distrutte tutte queste certezze, io che vedevo lo svilupparsi della guerra da lontano mi sentivo come se tutto il Paese fosse stato spazzato via, per sempre, il 7 ottobre. Come se non fosse rimasto più nulla a cui tornare. Ed ero terrorizzata di venire a scoprirlo di persona.
Da qui il sollievo: quando sono atterrata a Ben Gurion, quando sono arrivata a casa, quando ho rivisto persone care, ho ritrovato quello che pensavo fosse andato perso per sempre.
Una sola cosa non ho ritrovato: il rumore. Un silenzio così profondo, in Israele, non l’ho mai vissuto.
E questo indubbiamente parla di quello che alla fine è effettivamente andato perso, ma non nell’infrastruttura del Paese, bensì all’interno di ognuno di noi.

Giordana G.
Tornare a casa, anche sapendo che a casa c’è la guerra è un po’ come riprendere il respiro dopo una lunga immersione sott’acqua.
Per giorni mi sono chiesta se riportare le mie figlie in un Paese in guerra, dove cadono missili e si vive all’ombra delle sirene, chiedendomi se fosse la scelta di una madre irresponsabile. Allo stesso tempo a Milano, nella mia città natale, avevo comunque paura. Paura di venire attaccata perché ebrea.
Per me, terza generazione di sopravvissuti alla Shoah, questo ritorno ad un antisemitismo violento era insopportabile, tanto da avermi fatto tornare la voglia di tornare a casa, quella vera, in Israele, soprattutto per dare un mio qualsiasi contributo al Paese.
Appena atterrata a Tel Aviv ogni dubbio è evaporato. Ho ritrovato la città,  un po’ stanca e vuota, senza turisti e inusualmente silenziosa.
Eppure, allo stesso tempo, ho percepito uno spirito nuovo: una determinazione a ritrovare la forza per andare avanti, ricreare energia, vita, e soprattutto non dimenticare chi sta soffrendo immensamente e ancora più di noi: le famiglie delle vittime e dei rapiti.
Ognuno di noi ha scelto di partecipare a diverse iniziative di organizzazioni di volontariato: dal portare un dolce per Shabat alle famiglie che hanno qualcuno al fronte a raccogliere la frutta nei campi o portare da mangiare alle famiglie dei rapiti, che da settimane dormono in tende di fronte al Ministero della Difesa, e ora sono in marcia verso Gerusalemme.
Si dice che avere un senso di comunità e aiutare il prossimo siano gli ingredienti chiavi per avere una vita felice, anche se al momento nessuno qui è alla ricerca della felicità.
Gli sforzi di tutti si concentrano su come andare avanti, giorno dopo giorno, e superare il trauma del 7 ottobre.
Tuttavia, ogni singolo sforzo, all’interno di questa grande comunità che è Israele, è la chiave, se non per la felicita, per la speranza.
Ed è la speranza che ci tiene in vita.

Aeroporto Ben Gurion. Foto Maria Sica

Gaia M.
Atterrare a Tel Aviv questa volta ha assunto per me una dimensione molto particolare, composta di emozioni, colori, odori e suoni che ho registrato per la prima volta nella mia vita. L’ho vissuto come una nuova “Aliya”, su un terreno vergine e inesplorato.
La cortesia e la pazienza di tutte le persone intorno a me, una calma rara, un rispetto tra la gente nel timore che uno di noi fosse direttamente coinvolto tra ostaggi, feriti e soldati caduti, hanno dato forma a un nuovo circuito, una nuova forma di vita.
Il corridoio di Ben Gurion che porta all’ultimo controllo dei passaporti, stranamente vuoto, ma tappezzato con le immagini dei 239 ostaggi, è stato un risveglio alla realtà che questo Paese vive e respira da 40 giorni.
Solitamente corro frenetica quella discesa per recuperare i bagagli e uscire dall’aeroporto.
Ieri camminavo lentamente, guardando a destra e a sinistra, leggendo i nomi e l’età di ciascuno di loro.
Il tragitto su un’Ayalon piovosa e trafficata ha riacceso per un attimo un senso di “normalità” del quotidiano, con un arcobaleno che attraversava il cielo rendendo il panorama più clemente.
Il nostro tassista ci ha spiegato cosa fare nel caso la sirena fosse suonata mentre eravamo in auto ma i ragazzi gli hanno risposto di saper già quali sono le istruzioni. Sono molto più istruiti e preparati loro di noi adulti.
Pochi minuti dopo, appena arrivati a casa, ne è suonata una, e siamo corsi al riparo nel rifugio, dove abbiamo incontrato tutti i vicini di casa: ci siamo abbracciati stringendoci forte. Non vedevano l’ra che tornassimo, ci hanno detto.  E a questo punto posso solo rispondere: “anche noi”.

Maria S.
Chiunque abbia mai vissuto qui, anche se non ebreo, sa che Israele è un posto speciale, che rimarrà per sempre dentro di te.
La prospettiva cambia completamente se le ragioni del conflitto le osservi e le valuti da qui, e cogli subito la versione parziale, a tratti distopica, che ne viene raccontata dal mondo che è fuori.
Sono in tanti, tantissimi, nel Paese, a desiderare che il Medio Oriente possa trovare la sua strada per la pace e la convivenza. Ma sono tutti convinti che, per arrivare a questo, il terrorismo di Hamas vada sradicato dalle viscere della Terra dove si è insediato. Era così già’ prima del 7 ottobre e lo è ancor piú oggi.
Da Israele sono andati via turisti e pellegrini, ma tutti gli altri sono tornati.
I riservisti, gli intellettuali come Eskhol Nevo e anche chi era qui semplicemente per lavoro, come me.
Quando sono atterrata al Ben Gurion, a bordo c’erano per lo più giovani, da soli o con i loro figli piccoli.
Hanno applaudito a scatti il pilota, che ha grattato con forza la terra e assestato il velivolo con una manovra rapida e definitiva.
Eravamo tornati a casa.
All’interno dell’aeroporto pochissima gente e nell’ultimo corridoio prima dell’uscita i poster con le immagini degli ostaggi ancora in mano di Hamas. Mi guardavano negli occhi e mi dicevano: tu sei rientrata, noi non ancora.
Si, io sono rientrata.
Sono qui perché lo dovevo ad un Paese dove non mi sono mai sentita sola.
Ci sono arrivata in un momento difficile della mia vita personale e c’è stato sempre qualcuno che ha avuto per me un pensiero, che mi ha invitato a casa sua a shabbat anche se le sue preghiere non erano le mie.
Ho sentito che cosa significa essere parte di una comunità, ho visto la bellezza nascosta e l’unicità di essere una rete.
Questa non è la guerra solo di Israele, ma di tutti coloro che credono che la violenza non sia la soluzione.
Le persone che lavorano con me e intorno a me hanno tutte figli e mariti al fronte. Tornate dal lavoro stirano divise, preparano pasti, partecipano a turni di sicurezza nei quartieri e diventano snodo di informazioni da distribuire a tutti.
In questa comunità distrutta ma che non molla, tutti possiamo dare un contributo. Me lo hanno insegnato proprio loro, che tutti hanno un posto e tutte le vite sono utili.
Mantenere in vita il gruppo di lavoro serve ad indirizzare parte della loro tensione verso obiettivi diversi dal bollettino quotidiano di guerra e impegnarla in progetti, piccoli, che abbiano il fine di distribuire, a chi lo voglia, un momento di tranquillità dalle paure e dalle ansie continue.
Piccoli momenti di grazia, come li ha definiti proprio Eshkol Nevo. Segni di una solidarietà che arriva come una mano tesa verso chi voglia stringerla anche solo per un attimo. Dividere con gli altri la corsa al rifugio significa partecipare alle loro paure e condividere, dieci minuti dopo, il respiro della vita che riprende. Portare dolcetti italiani ai bambini, formaggi e paste fresche agli adulti…
Nel silenzio dei giorni più bui che hanno segnato questo conflitto inizia a trovare forma e spazio la speranza, in un intreccio di mani e di forza che è dentro tutti i figli di questa Terra.
Io ebrea non sono, ma dovevo essere qui per far sentire che in mezzo alle voci dell’ipocrisia in cui i buoni sono gli altri e i cattivi sono qui, le cose non stanno esattamente in questo modo e io ne sono consapevole.
Lo racconto agli altri e non mi stancherò di farlo perché le parole sono pietre, come diceva Carlo Levi.
Hanno peso, forma e servono a costruire altezze dalle quali vedere il mondo con i propri occhi.

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


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