Cultura Cibo
Dagli yiddish beygel ai pastelitos

Viaggio alle origini di prelibatezze che allietano le feste. E non solo…

Sarà per l’immediata associazione con il brunch all’americana, sarà per la sua diffusione nelle panetterie più alla moda, ma il bagel ha un’allure elegante in realtà piuttosto paradossale. Si tratta infatti di un pane dalle origini più che umili, in alcune occasioni pure penitenziali. E se è vero che si tratta di uno dei prodotti universalmente associati agli ebrei (soprattutto statunitensi), la sua nascita andrebbe però ricercata in un monastero.

Andando con ordine, pare che i bagel siano stati citati per la prima volta nel 1610 nei registri della comunità ebraica di Cracovia. Vi si diceva che questi pani rotondi erano i più adatti a essere donati alle donne che avevano appena partorito, vuoi come alimento nutriente, vuoi per la loro forma circolare, simile a un monile e simbolo del ciclo della vita. Ed è proprio dalla loro forma che deriverebbe il nome. Bagel è infatti l’anglicizzazione del termine yiddish beygel, derivato pare dall’alto tedesco bouc o bourg che significa, appunto, anello o braccialetto.

Altra caratteristica distintiva di questi pani è la loro cottura. Rigorosamente doppia, prima in acqua bollente e poi nel forno. Tale procedura sarebbe essenziale per dare loro una consistenza morbida e un po’ gommosa all’interno e una superficie liscia, brunita e croccante all’esterno. La bollitura eliminerebbe il lievito dal primo strato di pasta preservando poi la forma dei pani in forno. Una particolarità, questa, che nel 1956 autorizzava il New York Times a definirli “pani ebraici talvolta descritti come ciambelle con il rigor mortis”. Umorismo macabro a parte, così come la forma circolare, già presente in alcuni pani cucinati dagli ebrei dell’Asia centrale, anche la doppia cottura non sarebbe comunque un’esclusiva delle ciambelle polacche.

Già nei monasteri tedeschi dei primi secoli dell’anno Mille si preparavano pani seguendo questa procedura. Si chiamavano (e si chiamano tuttora) pretzel o bretzel e venivano cotti prima in acqua e soda e quindi in forno. Dalla forma non circolare ma incrociata, che ricorda quella delle braccia di un monaco in preghiera, sarebbero giunti in Germania dai conventi della Francia e dall’Italia settentrionale. Qui venivano realizzati, pare, con gli avanzi di impasto modellati a cordoncino e quindi intrecciati. Anche in questo caso il nome sarebbe derivato dalla forma, e anche qui c’entrerebbero le braccia, visto che il termine tedesco brezel deriverebbe dal latino bracellus.

Tornando ai fornai ebrei, pare che avessero accolto la precottura in acqua bollente per aggirare una legge che nel mondo cristiano vietava loro di toccare il pane, alimento sacro e quindi passibile di profanazione. Tale proibizione non riguardava l’impasto bollito, che a quel punto perdeva evidentemente le sue caratteristiche sacre. Comunque siano andate le cose, è un fatto che la bollitura, e soprattutto l’esigenza di ripescare facilmente i pani dall’acqua, giustifichi la creazione di un foro nella pagnotta. E mentre la regina polacca Jadwiga decretava che quei pani erano l’ideale per i regimi penitenziali, gli ebrei li preparavano per le feste e le ricorrenze più importanti dell’esistenza, dalle nascite ai funerali.

Si trattava ai tempi di prodotti perlopiù casalinghi, preparati dalle donne ed eventualmente venduti per le vie dai loro mariti e figli. Ci sarebbe voluta la migrazione degli ebrei dell’Europa orientale negli Stati Uniti per assistere alla creazione di un vero mercato del bagel: nel 1907 si giunse alla fondazione di un’associazione che riuniva i ben trecento fornai ebrei che li cucinavano nella sola New York City. Dall’iniziale lavorazione manuale si sarebbe passati, non senza resistenze, a quella a macchina, e dal consumo liscio, senza ripieni e tipico dell’Europa, a quello farcito. Negli anni Trenta si arrivò così a una versione kosher del brunch americano e con questo al matrimonio indissolubile del bagel con il formaggio cremoso…

Più ancora del pane a doppia cottura, la crema di formaggio non ha origini ebraiche, ma deve ringraziare gli ebrei per la sua diffusione. Sarebbe infatti il risultato dei tentativi di William A. Lawrence, un casaro di Chester, New York, che nel 1872 stava cercando il modo di ricreare il formaggio fresco francese. Finì con l’usare troppa panna, dando origine a un composto ancora più liscio, morbido e setoso che chiamò appunto crema di formaggio. Di lì a poco altri caseifici iniziarono a produrre la loro versione di questo latticino, creando nel 1880 quello che ancora oggi è noto come il marchio Philadelphia.

Il più grosso contributo da parte ebraica sarebbe arrivato nel 1907 con i fratelli di origine lituana Isaac e Joseph Bregstein. I due cominciarono prima a produrre la crema di formaggio nel loro piccolo stabilimento di Brooklyn, poi aprirono nel 1920 una struttura più grande e ad ampliare il commercio su vasta scala. Il loro marchio, Breakstone, sarebbe confluito nel 1930 nella Kraft. Al di là delle vicende imprenditoriali, quello che qui interessa è che in quello stesso periodo il formaggio spalmabile, noto in yiddish come schmear kaez, divenne popolare tra gli ebrei di New York, che iniziarono appunto a spalmarlo sui bagel o a inserirlo nel composto dei rugelach, che così diventava incomparabilmente più morbido. Ma la destinazione più golosa della crema di formaggio fu comunque la cheesecake…

Come nel caso dei bagel, quel che rende la cheesecake un prodotto ebraico è sia la sua diffusione presso le comunità americane, sia l’intervento determinante da parte degli ebrei su un piatto già esistente. Come vedremo più avanti, la torta di formaggio nasce più o meno con la storia della cucina, con le prime preparazioni testate risalenti alla Grecia antica, dove si cuocevano sulla piastra composti a base di ricotta, farina e miele. L’aggiunta di una crosta come base e spesso come rivestimento superiore sarebbe arrivata con i Romani, passando poi dagli italiani medievali, che arricchivano l’impasto con uova, zucchero, latte e burro, agli ebrei franco tedeschi dell’XI secolo.

La cheesecake sarebbe così diventata una specialità degli ashkenaziti, passando con loro in America e qui subendo la trasformazione fondamentale. Cassato definitivamente lo strato superiore di pasta, sarebbe arrivata anche la crema di formaggio, da poco introdotta sul mercato. Pare sia grazie all’intraprendenza di immigrati ebrei come Arnold Reuben se oggi la cheesecake segue la ricetta che conosciamo, con una semplice crosta friabile alla base e un ripieno di crema di latte e formaggio spalmabile. Vuole la leggenda che l’uomo, proprietario di una serie di ristoranti a New York, iniziò a inserire nei suoi menu questa versione della torta di formaggio nel 1929, dopo averla assaggiata in una cena privata. Da qui in poi anche gli altri ristoratori e fornai avrebbero cominciato a utilizzare il formaggio spalmabile e la panna per quella che ancora oggi è nota come la New York Cheesecake. Facendone così un prodotto nettamente distinto dall’altrimenti sterminata costellazione delle torte al formaggio.

Tra le tante progenitrici della cheesecake emerge una torta nota come fluden. Si tratta di una preparazione caratterizzata dalla presenza di due strati di pasta che proteggono un ripieno a base di formaggio. La pratica di consumare dolci composti da un involucro di impasto steso con una farcitura a base di ricotta risalirebbe agli antichi Romani e pare che sia il Talmud di Gerusalemme sia quello babilonese ne facessero riferimento, pur non specificando la natura del ripieno. Quel che si sa è che i primi ebrei a consumare per Sabbath dolci formati da un doppio strato di pasta sono stati quelli italiani e i sefarditi, che così richiamavano sia la doppia dose di manna sia la rugiada che la proteggeva sopra e sotto.

Solo in seguito la tecnica sarebbe stata accolta dagli ashkenaziti, che adottarono come loro dolce preferito il fluden, dessert al formaggio zuccherato nato in Francia e composto da più sfoglie sovrapposte. Il successo di questa torta e soprattutto del suo ripieno al formaggio sarebbe durato almeno fino al XVI secolo. Fino a quell’epoca gli ashkenaziti non lasciavano passare del tempo tra un piatto di carne e uno di latticini, limitandosi a sciacquarsi la bocca tra una portata e l’altra. In questo modo, il fluden poteva essere inserito senza problemi nei menu sia del sabato sia di Rosh Hashanah. L’obbligo di lasciare passare delle ore (dalle tre dei tedeschi alle sei degli ebrei dell’est) diede un brutto colpo alla popolarità del fluden, che non poteva più essere servito nei pranzi delle feste principali, tradizionalmente a base di carne.

Diverse le sorti del dolce presso gli ebrei Ungheresi e Rumeni, che invece continuarono a gustare nelle occasioni più importanti dolci composti da più strati di pasta farcita. I ripieni andavano dalla confettura alla frutta, sia fresca sia secca, mentre le sfoglie potevano essere numerose, eventualmente completate da zucchero e glasse. Limitato alle comunità ebraiche dell’Ungheria, il fluden non ha avuto grande diffusione al di fuori dei confini nazionali, quasi scomparendo tra molti degli stessi ebrei trapiantati in America. C’era tra l’altro un altro dolce ungherese che gli poteva fare concorrenza: lo strudel.

Come avviene per tanti monumenti della gastronomia internazionale, anche la paternità dello strudel è piuttosto dibattuta. Oggi diffuso un po’ in tutti gli ex territori dell’Impero austroungarico, questo dolce può essere accostato al fluden per quanto riguarda la presenza di un ripieno nascosto tra più strati di sfoglie, così come per l’impiego, nella farcia, di mele, uvetta e altra frutta secca. L’uso di pasta stesa e sovrapposta si dovrebbe alle popolazioni nomadi dell’Asia centrale, che preparavano pani sottili e impilabili per nutrirsi durante i loro lunghi spostamenti. Nel XV secolo i cuochi ottomani avrebbero aggiunto un filo di olio agli impasti per renderli più morbidi e più facili da stendere sottili, sovrapponendo poi le sfoglie tra strati di ripieno.

Conquistati dai turchi, rumeni e ungheresi ne adottarono anche le tecniche culinarie, sostituendo però le sfoglie sovrapposte con quelle arrotolate. Non si sa chi abbia modellato il primo rotolo farcito, ma di sicuro quando gli austriaci presero in Ungheria il posto degli Ottomani anche i dolci locali furono assorbiti da Vienna. Prendendo il nome che ancora oggi utilizziamo, che significa vortice e si riferisce, pare, a quello che il Danubio forma a monte di Vienna. Amato da tutte le classi sociali, a partire da metà Settecento lo strudel conquistò la corte così come il popolo, dall’Italia del nord alla Germania, diventando onnipresente nelle pasticcerie austriache. E siccome ai tempi gran parte dei pasticcieri erano ebrei, presto questa loro specialità diventò parte del repertorio ashkenazita. Del resto, l’abilità di questi artigiani nel lavorare gli impasti in sfoglie finissime ha origine in tempi e luoghi lontani…

Alternativa alla più grassa pasta sfoglia, la pasta fillo sarebbe stata perfezionata nelle cucine del palazzo reale di Istanbul. I Turchi diffusero l’uso di queste sfoglie in tutti i territori dell’Impero Ottomano acquisendo nei Balcani il nome con cui ancora oggi le conosciamo. Molto amata dai greci, che la portarono in America negli anni Sessanta del secolo scorso, la fillo accomuna da questa parte dell’Oceano culture e cucine anche diversissime. Sefarditi e soprattutto mizrahìm utilizzano queste sfoglie sottilissime per torte e dolcetti serviti nelle più importanti celebrazioni. Ma anche la cucina salata non ne disdegna l’uso, anzi.

Tra le specialità tipiche del Marocco, ad esempio, troviamo la pastilla, un tortino dall’involucro di pasta fillo e il ripieno di carne di piccione o di pollo. Nata in Spagna, dove veniva preparata con la frolla, la pastilla arrivò nel Maghreb con i sefarditi, che qui iniziarono a prepararla con la fillo, nel frattempo introdotta dagli Ottomani. Dalla lavorazione elaborata, è una preparazione riservata alle feste, in particolare di Sukkot e Hanukkah, e ai matrimoni. Il ripieno prevede che la carne sia sminuzzata e mescolata con il mix di spezie ras-el-hanout, una salsa all’uovo e mandorle tritate. Il suo gusto leggermente dolce viene accentuato a Fez dall’aggiunta di zucchero, sia nella farcitura sia nella guarnizione finale, dove si sposa alla cannella. La cottura è al forno, anche se in mancanza di questo un tempo si poteva anche friggerla.

Tornando alle origini della pastilla e spostandosi quindi in Spagna, si ritrova l’antica ricetta dei pastelitos. Come suggerisce il nome, si tratta di mini tortini di pasta il cui ripieno è principalmente di carne, ma può spaziare anche dal pesce agli ortaggi e i latticini. Al pari della loro versione grande, il pastel, erano preparati con una base di pasta frolla e facevano parte della tradizione culinaria degli ebrei spagnoli da ben prima della loro espulsione. Dopo il 1492 i sefarditi portarono entrambe le preparazioni in Nord Africa e nei paesi dell’Impero Ottomano e successivamente in America Centrale e nei Caraibi. Simile nel ripieno, il pastel è più facile e veloce da preparare rispetto alle sue versioni mignon ed era per questo consumato anche durante la settimana.

I pastelitos sono invece più comuni per Sabbath, feste e occasioni speciali, dai matrimoni ai bar mitzvah, e assumono farciture diverse a seconda dei casi in cui sono serviti. Quelli per la colazione del sabato e per Hanukkah, ad esempio, contengono crema di formaggio o ricotta, mentre per il pranzo di Sabbath sono più comuni quelli alla carne. Citati in una canzone popolare in ladino, che li vuole accostati agli huevos haminados, per molti ebrei greci i pastelitos farciti al formaggio e melanzane rappresentano l’essenza della gastronomia sefardita.

Pretzel Bagel

Ingredienti:

1 bustina di lievito per torte salate

1 cucchiaio di miele

1 kg di farina per pane

olio extravergine d’oliva

2 cucchiaini di sale

Per la cottura:

bicarbonato di sodio

2 cucchiai di miele

Per spennellare:

1 uovo grande

2 cucchiai di sale pretzel (in scaglie grandi)

Sciogliere il lievito in una ciotola con 360 ml di acqua e il miele. Coprire e lasciare riposare per per 5 minuti, fino a quando si sarà formata una schiumetta in superficie. Setacciare la farina con il sale e unirvi l’acqua con il lievito, a poco a poco e sempre mescolando. Impastare a lungo, a mano o con la planetaria, fino a ottenere un composto liscio ed elastico.

Formare una palla e trasferirla in una ciotola leggermente unta di olio. Coprire con un canovaccio e lasciare lievitare per circa 2 ore in luogo tiepido ma non caldo, fino a quando l’impasto avrà raddoppiato il suo volume.

Dividere l’impasto in 8 pezzi uguali, poi modellarli con le mani formando delle palle e lasciarle riposare per 5 minuti su una placca foderata con carta da forno.

Mescolare 2 litri abbondanti di acqua in una pentola capiente con 1/3 di cucchiaio di bicarbonato e il miele. Portare quindi a leggera ebollizione. Usando l’indice e il medio fare un buco al centro di ogni pallina di pasta, allargandolo fino a raggiungere un diametro di 3-4 cm.

Tuffare 2-3 bagel nell’acqua in leggera ebollizione, cuocendoli per 1 minuto su ciascun lato. Scolarli con cura e adagiarli nuovamente sulla teglia. Ripetere l’operazione con il resto dei bagel. Spennellarli con l’uovo sbattuto con un 1 cucchiaio di acqua e cospargerli di sale a scaglie.

Trasferire la teglia con i bagel nel forno già caldo a 200° e cuocerli per circa 20-25 minuti, fino a quando saranno dorati, girando la teglia a metà cottura. Sfornare e lasciate raffreddare prima di servire.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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