Cibo Sei gradi di separazione
Dalla zucca ai pletzlach: viaggio in sei tappe

Dall’ingrediente simbolo di Halloween ai Rahat Lokum fino alle famose caramelle ashkenazite

Che ci piaccia o no, anche quest’anno siamo arrivati ad Halloween. Possiamo benissimo ignorarlo, e non sarebbe neppure una cattiva idea, ma qualcosa di buono anche questa festa spuria e un po’ sgangherata ce la porta. Parliamo ovviamente del cibo, che vede come protagonista uno degli ingredienti simbolo non solo della famigerata ricorrenza ma anche della stagione autunnale. La zucca in questi giorni è ovunque, nei menu dei ristoranti e in quelli di casa, dal banco dell’ortolano alle vetrine dei negozi. Ma la posizione in cui preferiamo vederla è quella al centro del nostro piatto. La sua consistenza morbida e burrosa e il gusto dolce la rendono l’ingrediente perfetto per preparare deliziosi dolcetti e tortini così come ripieni per la pasta, gnocchi e puré.

Questa ambivalenza tra il dolce e il salato, però, è una sua caratteristica non universalmente riconosciuta. Ad allargarne l’ambito di impiego pare siano stati i sefarditi e gli ebrei italiani, che nel Cinquecento si dedicarono al commercio della zucca e cominciarono a utilizzarla in cucina prima del resto della popolazione. Motivo di tale predilezione era anche la sua economicità e praticità di conservazione, nonché la possibilità di utilizzarla persino come sostituto della carne o di altri ingredienti più costosi o non kasher. Secondo Gill Marks, la presenza della zucca nelle prime ricette europee a partire dal Cinquecento sarebbe da imputare a influenze sefardite. In Italia, in particolare, il suo uso si sarebbe diffuso nelle aree in cui gli ebrei iberici si erano inizialmente stabiliti dopo l’espulsione del 1492 e in quelle in cui erano più facili e frequenti i contatti commerciali.

Ecco allora che tra Ferrara e Mantova (la questione è ancora aperta) si sviluppa e perfeziona la ricetta dei tortelli di zucca, mentre a Venezia e in Veneto in genere nascono mille modi per utilizzare la zucca di Chioggia, chiamata qui “suca baruca”. Il nome deriverebbe secondo alcuni alla forma bitorzoluta, secondo altri dal termine baruch, ossia santo in ebraico. Che sia valida o no questa interpretazione, è un fatto che la zucca una qualche sacralità doveva pur averla se veniva scelta per alcune delle feste più importanti, da Rosh Hashanah alla fine del digiuno di Yom Kippur fino a Sukkot. Tra le ricette salate più semplici e diffuse emerge una purea presente in diverse delle zone citate, ma in particolare in Veneto e in Toscana. Si tratta della zucca disfatta, chiamata suca desfada dalle parti di Venezia e zucca sfranta in quelle di Grosseto o meglio ancora Pitigliano. E da qui che proveniva Edda Servi Machlin, scrittrice poi trasferitesi in America che la inserisce nel suo The Classic Cuisine of the Italian Jews. Dal canto suo, anche Claudia Roden ne parla, citando la zucca disfatta nel suo Book of Jewish Food e inserendola tra i piatti, e soprattutto gli ingredienti, giunti dalle Americhe che gli ebrei seppero apprezzare prima di tutti. Un po’ come era accaduto con il mais…

Anche la storia del cosiddetto granturco comprende un importante capitolo che riguarda gli ebrei. Come per la zucca, al suo arrivo non incontrò infatti un consenso unanime. Portato nel Vecchio Mondo dai navigatori spagnoli e dai mercanti portoghesi, raggiunge una prima popolarità in Nord Africa, dove conquistò l’Egitto si pensa almeno dal 1530. Nel Seicento fu portato nei Balcani e in Italia dagli Ottomani, che snobbavano semi e farina di mais a favore del più blasonato frumento. La definizione di grano turco potrebbe essere dovuta a questi intermediari, oppure al fatto che il nuovo cereale era qualcosa di esotico, indicato genericamente come “turco”. In ogni caso, a intravedere le potenzialità anche di questo ingrediente sarebbero stati anche in questo caso gli ebrei che, esclusi dalle corporazioni mercantili così come dalle proprietà terriere, si dedicarono all’attività di intermediari tra il Nuovo e il Vecchio Mondo. Da Venezia e dall’Olanda il mais raggiunse un po’ tutta l’Europa, sostituendo il grano e l’orzo grazie alla sua facilità di coltivazione. Tanto da diventare onnipresente nella dieta delle popolazioni più povere. Peccato però che queste stesse persone non conoscessero le tecniche utilizzate dagli americani per trattare il mais con la cenere di legno, rendendolo così non solo più morbido ma anche più ricco dal punto di vista nutrizionale.

Per non parlare dell’uso di abbinarlo ai fagioli, che insieme alla zucca e allo stesso mais componevano le cosiddette “tre sorelle della vita”. Presto la pellagra e altre malattie da carenza vitaminica portarono all’abbandono del granturco, che fu relegato all’alimentazione degli animali. Fecero eccezione quei luoghi appartenuti all’Impero Romano la cui cultura alimentare prevedeva il consumo di pappe di cereali abbinate a legumi e prodotti caseari. Due esempi per tutti, l’Italia e la Romania, l’una con la polenta e l’altra con la mamaliga. Si tratta di due prodotti simili, preparati entrambi cuocendo a lungo la farina di mais nell’acqua fino a ottenere una pappa della consistenza più morbida da una parte e più corposa dall’altra. Nel caso dei romeni, si tratta di un cibo simbolo del Paese, evocato con nostalgia dagli emigranti e che accomuna le genti di tutte le religioni e classi sociali. Ricordata in una delle canzoni più famose del teatro yiddish, Romania Romania di Aaron Lebedeff, questa pappa di mais avrebbe sostituito quella preparata con altri cereali dalla metà del Seicento, da quando cioè gli Ottomani presero il potere nei Balcani. Servita dalla prima colazione alla cena, non rischiava di creare deficit nutrizionali grazie al possibile abbinamento con i latticini, mentre la sua preparazione base rigorosamente pareve la rendeva perfetta per accompagnare i piatti di carne degli ebrei, che come si è visto abbracciarono in pieno le preparazioni a base di mais. Compresa un’altra tipica della Romania come il malai…

Variante in casseruola o in forno della mamaliga, la painea de malai o semplicemente malai (cioè mais) è un altro dei piatti onnipresenti nei menu romeni. Può essere proposto come un porridge cotto in pentola da servire per la prima colazione così come un vero e proprio pane dorato in forno. Si tratta in questo caso di un impasto che può risultare più umido e morbido per la presenza all’interno di prodotti caseari o dolce, per l’aggiunta di zucchero. Gli ebrei romeni ne hanno sviluppato diverse varianti, da quelle pareve da servire con lo shmaltz a quelle accompagnate da panna acida e burro. I pani lievitati, in particolare, possono essere consumati appena tolti dal forno o serviti freddi. È questo il caso dei malai gustati a colazione o a pranzo del sabato, dopo che le casalinghe romene di un tempo li avevano infilati nel forno dopo avere cotto il venerdì la loro brava challah…

Pane ebraico per eccellenza, la challah non ha bisogno di grandi presentazioni. Derivato dai pani che venivano portati al Tempio, e meglio ancora dalla porzione di impasto che doveva essere offerto per precetto ai sacerdoti, il pane del Sabato sarebbe il risultato di una lunga serie di trasformazioni, già trattate su queste pagine. L’aspetto più comune intrecciato, così come le tante altre sue forme hanno assunto un significato simbolico che si aggiunge alla sua stessa composizione. Questa è passata dal semplice anche se non scontato impasto di sola farina bianca, comunque riservata alle feste, all’impiego di nuovi ingredienti come le uova, l’olio e lo zucchero. Al pari della lavorazione in più parti più o meno intrecciate e assemblate, anche questi alimenti sono stati introdotti per dare alle challot più ricchezza e morbidezza, anche se non mancano le ragioni pratiche. Uova e olio, in quanto grassi, contribuivano ad aumentarne la conservazione, mentre lo zucchero, novità ottocentesca, oltre a dare dolcezza avrebbe anche ricordato la manna. Sempre al dono divino caduto dal cielo si rifarebbero anche i semini con i quali si cosparge il pane. Questi possono essere di sesamo o di papavero…

Il termine yiddish con il quale si indicano i semi di papavero è mohn, la cui pronuncia pare sia molto simile a quello che significa manna. Ma sono diverse le ragioni del successo di questi minuscoli grani neri nella cucina ebraica, sia sefardita sia ashkenazita. Comparso la prima volta nell’Europa sud occidentale, il papavero si sarebbe diffuso in Asia durante l’età del Bronzo, portando i suoi semi nella tradizione levantina. Perché la pianta che oggi conosciamo, chiamata pereg in ebraico, conquisti il Vicino Oriente si dovrà però aspettare i Greci o addirittura i Romani. Al di là delle tempistiche di diffusione, quello che qui interessa è che questa spezia è una delle poche coltivate storicamente anche in Europa e qui diffuse in cucina almeno quanto nella tradizione orientale. Utilizzati non solo per spolverizzare i pani ma anche per comporre impasti e, una volta pestati, per ottenere un olio, i semi di sesamo sono tra i protagonisti soprattutto della cucina centro europea. Essenziali nella gastronomia austriaca, ceca, tedesca e ungherese, sono il ripieno popolare di innumerevoli torte e dolcetti, compresi quelli tipici della pasticceria ebraica. Uno su tutti, le cosiddette tasche di Haman, le Hamantaschen, i biscottini triangolari farciti preparati a Purim. Questi pasticcini deriverebbero da una preparazione teutonica medievale chiamata mohnrache, proprio perché ripiena di semi di papavero; il loro nome, nonché la destinazione nella festa, pare si debba alla somiglianza tra il termine mohn con il nome di Haman, chiamato Hamohn in ebraico. Altra possibilità del successo per questi semini, occultati tra i tre lembi della pasta così come il divino è nascosto nel racconto di Purim, è che questi ricordassero la dieta della protagonista Esther, costretta a cibarsi di semi per rispettare la kasherut senza tradire a corte le proprie origini ebraiche. Non di soli semi comunque si compone il ripieno delle Hamantaschen. Oltre alla classica confettura di prugne, le più recenti varianti prevedono abbinamenti curiosi che fanno da ponte tra le culture. Uno dei più particolari è quello a base di lokum…

Chiamati anche Turkish Delight, i Rahat Lokum, letteralmente riposo per la gola, sono dolcetti diffusi in tutto il Medio Oriente. Onnipresenti nei mercati come nelle pasticcerie, si presentano come cubetti gelatinosi aromatizzati alla rosa nella loro versione classica e arricchiti da frutta secca e altre essenze nelle loro mille altre varianti. La loro invenzione si dovrebbe a un giovane pasticciere turco chiamato Ali Muhiddin Bekir che nel 1777 aprì un negozio nel centro di Istanbul e cominciò a produrre delle caramelle morbide ispirandosi alla tradizione persiana e turca. Dopo aver conquistato persino il sultano, Bekir sarebbe diventato capo pasticciere di corte mentre le sue creazioni furono rinominate “delizie turche” un secolo dopo, quando nel 1872 un inglese ne fece incetta e le mandò in patria. Al tempo la farina della ricetta originaria era stata sostituita dall’amido di mais e la melassa d’uva con lo zucchero. Per quanto non specificamente ebraici, i lokum sono entrati di prepotenza nelle celebrazioni delle principali festività, non solo degli ebrei del Medio Oriente ma dell’intero territorio dell’ex Impero Ottomano, dal Marocco alla Romania. Perfetti per celebrare le feste come le occasioni importanti della vita familiare, non sono comunque gli unici dolcetti che vengono offerti a ospiti e invitati. Tra i progenitori delle moderne caramelline ci sono ad esempio i pletzlach…

L’origine di questi bonbon sarebbe da attribuire agli Arabi e ai Persiani medievali che li passarono ai Turchi. Questi esportarono nei Balcani l’uso di bollire lo zucchero con il miele fino a ottenere uno sciroppo da mescolare a frutta secca e fare poi indurire. Nel XVII secolo tale tecnica raggiunse l’Europa orientale, dove diventò la base delle caramelle ashkenazite chiamate appunto pletzlach. Si trattava di dolcetti preparati prevalentemente con il miele, raramente e solo in parte sostituito con lo zucchero, persino dopo che questo era ormai diventato il dolcificante più diffuso. Il loro nome, al quale corrispondono in realtà anche diverse altre preparazioni, non necessariamente dolci, deriva dalla parola yiddish che significa “piccolo posto”, “piccolo spazio”. La ragione sarebbe da attribuire alle loro dimensioni finali ottenute dalla frantumazione dell’impasto al miele fatto solidificare in uno strato sottile. Al composto base possono essere aggiunte noci, nella versione standard, semi, compresi quelli di papavero, perfetti per Purim, frutta fresca, spezie e persino verdure. Gill Marks ricorda che la variante allo zenzero, chiamata ingberlach, viene citata nella Jewish Enciclopedia del 1903 con la specificazione che si trattava di caramelle “fatte in casa”.

Oggi che la confetteria casalinga è pressoché scomparsa, questa caratteristica fa di sicuro ancora più impressione che allora. L’industria dolciaria propone migliaia di caramelline di ogni forma, colore e sapore, molte delle quali sono state create o messe sul mercato proprio da ebrei, come si ricorda su My Jewish Learning per quanto riguarda l’America e su Joimag per l’Italia, con il caso emblematico delle Golia. Restando negli States, salta all’occhio la particolarità delle gelatine kosher, dalla inconfondibile forma a spicchio di frutta. Specialità tipicamente americana, queste ultime sono tra le più gettonate in epoca di Pesach, ma non sfigurerebbero accanto ai pletzlach in una delle prossime occasioni di festa. O, perché no, tra i dolcetti da barattare prossimamente con gli scherzetti di Halloween…

Zucca sfranta al forno

 Ingredienti:

1 grossa zucca

1 cipolla bianca
1 mazzetto di basilico

1 ciuffo di prezzemolo

1 spicchio d’aglio

3 uova

pangrattato

olio extravergine d’oliva

sale

pepe

Sbucciare la cipolla e affettarla finemente. Sbucciare l’aglio e tritarlo con le foglie del prezzemolo. Spezzettare quelle del basilico. Tagliare la zucca prima a metà e poi a fette, privandola dei semi e dei filamenti. Sbucciare ogni fetta e ridurla a tocchetti.

Trasferire tutti gli ingredienti preparati in una casseruola con un bicchiere d’acqua e un filo di olio e cuocere mescolando di tanto in tanto per 25-30 minuti, unendo se serve altra acqua, fino a quando la zucca si sarà ammorbidita.

Togliere la zucca dal fuoco, regolarla di sale e pepe, poi schiacciarla con una forchetta fino a ottenere una purea grossolana. Farla raffreddare leggermente, poi incorporarvi le uova, uno alla volta e mescolando con cura.

Ungere una pirofila e distribuirvi il composto preparato, livellarlo con un mestolo, poi cuocerlo in forno già caldo a 180 °C per circa 45 minuti, fino a quando la superficie inizia a dorarsi. Sfornare e servire la zucca sfranta ancora calda, tiepida o fredda.

Pletzlach allo zenzero

Ingredienti:

480 g di zucchero

320 g di miele

240 ml di acqua

2-3 cucchiaini di succo di limone

400 g di carote

2 cucchiaini di zenzero macinato

Mescolare lo zucchero e il miele in una casseruola media dal fondo spesso, aggiungere 240 ml di acqua con il succo di limone e cuocere a fiamma medio bassa per circa 5 minuti sempre mescolando fino a quando lo zucchero si sarà sciolto.

Alzare la fiamma al massimo e portare a ebollizione senza mescolare, aggiungere le carote raschiate e grattugiate con lo zenzero, mettere un coperchio e cuocere per circa 30 secondi. Scoprire il recipiente e fare bollire dolcemente, sempre senza mescolare, a fiamma medio alta fino a quando lo sciroppo raggiunge la temperatura di 135 °C per una consistenza gommosa o di 150 °C per ottenere caramelle dure.

Togliere dal fuoco e versare il composto in uno strato sottile su una placca oliata o su una lastra di marmo; lasciarlo riposare per alcuni minuti, poi inciderlo formando dei bastoncini, dei quadrati o delle losanghe. Lasciare raffreddare completamente, poi separare le caramelle e avvolgerle a piacere a una a una nell’apposita carta.

 

 

 

 

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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