Cibo Sei gradi di separazione
Dai Kreplach ai peperoni ripieni

Un gioco: ci affidiamo alla teoria dei sei gradi di separazione. E con lei compiamo un percorso in sei tappe (i gradi, appunto) che va dai ravioloni di carne fino alle verdure ripiene.

La cucina ebraica, si sa, è difficile da inquadrare. Sono troppi i legami con altre culture gastronomiche per individuarne dei caratteri distintivi. Gli unici riconosciuti sono l’osservanza della kasherut e delle feste, con tutti i significati simbolici che a quel punto il cibo accoglie. Per il resto, il campo è davvero sterminato. E a ciascun piatto si può teoricamente collegare un altro, a volte nato a migliaia di chilometri di distanza. Possiamo però provare a fare un gioco. Perché non partire da una pietanza e, seguendo una versione riveduta e corretta della teoria dei sei gradi di separazione, scoprire a quale altra prelibatezza ci conduce?

La festa ci offre la portata di avvio su un piatto d’argento. Anzi, in una zuppiera. Tradizione vuole infatti che oggi, settimo giorno della festa di Sukkot, si gustino i cibi tipici della vigilia di Yom Kippur. Tra questi, l’uso ashkenazita pone in primo piano i kreplach. Sorta di ravioloni dai ripieni più svariati, è una pasta dalle origini non del tutto chiare, anche se si sospetta che si sia affermata nell’Europa dell’Est passando dagli ebrei che nel Trecento giunsero in Germania da Venezia. La somiglianza con i tortellini, del resto, è lampante. Al punto che Claudia Roden nel parlarne fa cenno anche ai tortelli di zucca mantovani, mostrandosi propensa a credere che anche questi siano di origine ebraica. Ma questa è un’altra storia.
Tornando ai kreplach, questi avrebbero come elemento in comune l’impasto della sfoglia, a base di acqua, uova e farina, con ripieni che vanno da quelli di carne a quelli di formaggi o di patate fino ad arrivare alle versioni dolci alla frutta. Secondo quanto racconta Gill Marks, il nome avrebbe origini francesi, lingua parlata dai primi ashkenaziti prima dell’affermazione dello yiddish a partire da metà Duecento. La parola krepalach deriverebbe da krepish, termine con il quale si indicava un pezzo di carne avvolto nella pasta e poi fritto, qualcosa di molto simile a quello che poi avrebbe portato al knish. Concentrandosi invece sul krepish, la radice comune con il francese crêpe porterebbe a pensare che la sfoglia fosse una sorta di frittatina. Poi, grazie alle incursioni tartare dall’Asia o agli Italiani, nel Cinquecento si sarebbe passati a un impasto di acqua, uova e farina. Con il vantaggio non indifferente di poterlo bollire in acqua e non friggerlo, con tutto il risparmio che ne derivava.
Tornando al nome, l’etimologia popolare lo collegherebbe alle iniziali delle tre ricorrenze in cui si è soliti servire questi ravioli. K per Yom Kippur (tradizionalmente sono mangiati l’ultimo giorno prima del digiuno, a evocare la bontà divina, avvolgente come la pasta), R per Hoshaana Rabbah (settimo giorno di Sukkoth in cui i verdetti del giudizio divino sono sigillati) e P per Purim (altra occasione in cui questi ravioli andrebbero alla grande grazie al loro carattere nascosto, analogo al nascondimento del divino). Al di là di questa ricostruzione francamente opinabile, quel che ne risulta è che in effetti i kreplach sono un piatto della festa. E se è vero che il ripieno poteva essere un modo per recuperare gli avanzi, specie di carne, che sarebbe battuta così come le fronde del lulav, è anche vero che la loro lavorazione è abbastanza lunga e complessa da essere riservata ai giorni speciali. A seconda delle occasioni, delle tradizioni locali e della composizione, una volta bolliti i ravioloni possono essere conditi nella panna o rosolati con un fondo di cipolle, come si tende a fare con quelli dal ripieno di verdure, di patate o di formaggio. La loro più diffusa versione di carne, però, privilegia un’altra destinazione. E i kreplach finiscono così con l’essere tuffati nel brodo di pollo…

Cibo curativo dalle origini antichissime, citato fin dai libri di medicina cinese del II secolo a.C., il brodo di pollo è riconosciuto universalmente come la penicillina ebraica, panacea di tutti i mali. Comfort food per eccellenza, si è trasformato da quell’intruglio di carne bollita nell’acqua e spappolata (e, ammettiamolo, non così appetibile) raccomandata dal Talmud babilonese nel cibo medicina che Mosè Maimonide prescriveva ai deboli e ammalati nella Spagna del XII secolo, per diventare poi un alimento capace di evocare le più tenere memorie. E a proposito di Spagna, è interessante ricordare quanto questo piatto, ormai così legato alla tradizione dell’Est Europa da essere tutt’uno con gli ashkenaziti nell’immaginario americano, avrebbe in realtà origini sefardite. Le prime citazioni della zuppa di pollo o, per meglio dire, del caldo de galinha veja, ossia del brodo di gallina vecchia, arriverebbero infatti dalla Penisola Iberica e i primi a prepararlo nell’alto medioevo sarebbero stati i sefarditi e i mizrachi. Nessuno però lo avrebbe esaltato quanto gli ebrei delle regioni del Nord Est, che lo hanno fatto diventare parte integrante di ogni ricorrenza, dal pranzo festivo, a quello di nozze e del venerdì sera. Del resto, niente trasmette più benessere al cuore di una scodella di zuppa calda…

Di caldo in caldo non si può che pensare a un altro piatto tipico ebraico come lo cholent. Zuppa tradizionale di Shabbat, risponde con la sua particolare composizione eterogenea e la cottura prolungata (e, diciamo così, passiva) all’esigenza di consumare un pasto caldo anche nel giorno in cui il fuoco deve restare spento. A base di fagioli, carne, cereali, patate e altri ortaggi stufati per ore in un pentolone sigillato, come si evince dal nome sarebbe nato in Francia e da qui sarebbe passato prima in Germania e poi nell’Est Europa. Al pari del brodo di pollo, però, prima di diventare un altro dei simboli della gastronomia ashkenazita, sarebbe stato appannaggio della cucina tipica spagnola. Qui gli stufati di carne, cereali e ortaggi erano all’ordine del giorno in epoca medievale e prima di passare in Francia tra il XII e il XIII secolo venivano indicati con il nome di hamin…

Distinguere questo stufato da quello ashkenazita è oggi un’impresa ardua, anche perché spesso i due termini, cholent e hamin, sono usati come sinonimi. Parrebbe però che l’uso di raccogliere in un pentolone di coccio carne, cereali, ortaggi e legumi e di farli cuocere a lungo nel forno pubblico per poi consumarli ancora caldi il sabato sarebbe stata una usanza spagnola. E, prima ancora, mediorientale. Ai tempi, prima che gli ebrei della Spagna del Nord accogliessero questo tipico stufato del sabato nella propria tradizione, il piatto veniva preparato con grano spezzato, cipolle e carne di agnello fatti cuocere per una notte in una pentola di terracotta sigillata. Gli iberici vi avrebbero aggiunto dei legumi, inizialmente ceci o fave, unendo abbastanza liquido da trasformare il tutto in qualcosa di più simile alla zuppa. Poi, come sempre accade, ognuno ci avrebbe messo del suo. Aggiungendo o togliendo spezie o cambiando la qualità della carne. Ciò che caratterizzava però l’hamin spagnolo era la presenza di un ingrediente tipico della cucina sefardita…

Gli huevos haminados sono propriamente delle uova intere a lunga cottura, brasate. Si tratta di una preparazione citata anche nel Talmud: una volta quando parla della presenza delle uova negli stufati di carne e un’altra in riferimento alla cucina del sabato e alla cottura delle uova nella cenere calda o addirittura nella sabbia arroventata dal sole. Questi antichi metodi avrebbero fornito agli ebrei spagnoli lo spunto per cuocere le uova nelle ceneri ancora calde del focolare spento, accanto alla pentola in cui si scaldava l’hamin. Si trattava degli huevos hasados, arrosto, che il mattino dopo presentavano una colorazione brunita, consistenza più che soda e dimensioni pressoché dimezzate.
Qualcuno avrebbe avuto poi la brillante idea di inserire le uova direttamente nello stufato e lasciarle cuocere con questo per tutta la notte. Il risultato furono uova morbide e delle dimensioni originarie grazie all’umidità trasmessa dalla zuppa, che regalava loro anche una colorazione più tenue a fronte di un sapore in compenso decisamente più intenso. Unica controindicazione, il fatto che essendo cotte con la carne non potevano più essere mangiate con i latticini. All’inizio del XV secolo i sefarditi iniziarono dunque a cucinarle da sole, sempre per ore e a bassa temperatura, ma con sola acqua mescolata a bucce di cipolla. Cibo versatile per eccellenza, le uova sono comunque alla base di diversi altri piatti tipicamente ebraici. Anche di quelli derivati da altre culture gastronomiche…

Lo shakshuka ad esempio avrebbe origini ottomane. E in principio non conteneva neppure le uova, ma un mix stufato di verdure e carne macinata. A un certo punto la carne sarebbe stata eliminata e, con la scoperta dell’America e l’arrivo dei suoi prodotti, il composto si sarebbe arricchito di nuovi ortaggi. Diffuso in Turchia, Siria, Egitto, Balcani e Maghreb, lo shakshuka avrebbe conquistato il cuore degli ebrei che, eliminata definitivamente la carne, ne avrebbero fatto un piatto pareve accogliendo l’uso, già visto presso i turchi con il loro menemen, di arricchire il piatto vegetariano con le uova. Considerato parte integrante della colazione tipica israeliana, ma servito anche per un pranzo o una cena, sarebbe stato portato in Israele dagli immigrati maghrebini e rinforzato dal know how sefardita di cuocere le uova in uno stufato di ortaggi. Questi ultimi come già detto sono variati nel tempo, e se il pomodoro si è affermato per non andarsene via più, anche altre verdure si sono rivelate un’aggiunta irrinunciabile. Come ad esempio il peperone…

Giunto in Europa dall’America, questo ortaggio oggi così amato da tutte le popolazioni mediterranee (e non solo) all’inizio non era stato così apprezzato. Le specie che arrivavano dal Nuovo Mondo erano della varietà piccante e solo nel Settecento si sarebbero prodotte anche quelle dolci. Dalle forme e dimensioni più diverse, con una colorazione che dal verde può passare al giallo, all’arancio e al rosso, i peperoni si sono affermati in tutte le aree dal clima temperato, del Mediterraneo, dei Balcani e dell’Ungheria. A seconda delle regioni e delle culture gastronomiche preesistenti si è finito con l’introdurli in stufati, insalate e salse. Il loro impiego più caratteristico, però, è quello legato alla loro particolare conformazione. Nel Medio Oriente così come nell’Europa Orientale si erano presto accorti che la loro struttura cava li rendeva gli ortaggi perfetti per essere farciti. Dal formaggio alla carne, dai cereali ai legumi, dal Nord al Sud i cuochi ebrei hanno ideato preparazioni adatte di volta in volta a essere mangiate calde, come i peperoni ripieni di carne, o fredde, come quelli a base di riso, alla cucina di tutti i giorni così come a quella delle feste. Tra queste, ecco rispuntare le giornate di Sukkot, che celebrano tra l’altro anche la ricchezza del raccolto. E quale preparazione migliore di una verdura piena zeppa degli ingredienti più diversi? Carichi ma stabili, i peperoni ripieni possono inoltre essere trasportati facilmente dalla cucina alla Sukkah e qui essere consumati alle più diverse temperature. Eventualmente affiancati da un bel piatto di kreplach in brodo…

Kreplach

Ingredienti per 6

Per la pasta:
400 g di farina
2 uova
sale

Per il ripieno:
500 g di polpa di manzo macinata
1 uovo
1 spicchio di aglio
1 cipolla
birra scura o vino bianco
pangrattato
olio extravergine d’oliva
sale
pepe

Sbucciare e tritare l’aglio e la cipolla, poi soffriggerli in un tegame con un filo di olio caldo. Aggiungervi la carne, rosolarla e sfumarla con la birra o il vino, poi regolare di sale e pepe. Trasferire quanto preparato nel mixer e frullarlo fino a ottenere un composto omogeneo, unirvi quindi l’uovo con il pangrattato necessario a rassodarlo, regolare di sale e pepe e tenere da parte in fresco.
Preparare l’impasto mescolando nel robot da cucina o lavorando con le mani la farina con le uova, una presa di sale e l’acqua necessaria a formare un composto elastico e liscio. Formare una palla e lasciarla riposare coperta a temperatura ambiente per 30 minuti, poi stenderla in una sfoglia sottile.
Tagliare l’impasto in quadrati di circa 5 cm di lato, distribuirvi un cucchiaino di ripieno ciascuno, poi piegarli a metà lungo una diagonale e quindi unire e sigillare gli angoli formando delle specie di tortellini.
Cuocere i kreplach in acqua bollente salata per un paio di minuti, poi scolarli e servirli immersi nel brodo di pollo ben caldo o conditi con panna o cipolla stufata, a piacere.

Peperoni ripieni vegetariani

Ingredienti per 4
4-5 peperoni colorati
1 cipolla media
2 spicchi d’aglio
1 cucchiaino di paprica dolce
½ cucchiaino di curcuma
2 cucchiai di concentrato di pomodoro
120 g di riso basmati
120 g di ceci cotti
un ciuffo di prezzemolo e basilico
olio extravergine d’oliva
sale
pepe in grani

Per la salsa
300 g di polpa di pomodoro
2 spicchi d’aglio
olio extravergine d’oliva
sale
pepe in grani

Tagliare i peperoni a metà nel senso della lunghezza e privarli di semi e filamenti interni, poi disporli in una teglia, ungerli leggermente di olio e cuocerli in forno caldo a 220° per 10 minuti, fino a quando saranno leggermente dorati.
Sbucciare e tritare la cipolla e schiacciare l’aglio, poi rosolarli in una casseruola con un filo di olio caldo. Aggiungere quindi la paprica, una presa di sale, una macinata di pepe, la curcuma e il concentrato di pomodoro, mescolare e cuocere per un paio di minuti. Unire il riso con i ceci e 160 ml di acqua calda e portare a ebollizione. Completare con il prezzemolo e il basilico tritati, coprire e cuocere a fuoco basso per circa 10 minuti.
Nel frattempo preparare la salsa. Sbucciare e schiacciare l’aglio e farlo rosolare in una padella con un filo di olio, unirvi la polpa di pomodoro con una presa di sale e una macinata di pepe quindi cuocere per 10 minuti bagnando con poca acqua calda.
Riempire i peperoni con il riso cotto ai ceci, adagiarli nella teglia già utilizzata e versarvi sopra e tutto intorno la salsa preparata. Cuocere in forno caldo a 200° per circa 20-30 minuti, fino a quando i peperoni saranno dorati sui bordi e la salsa si sarà ridotta. Servirli caldi, tiepidi o freddi.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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