Cultura
Di canto in canto: Rachel e il conforto della natura

La sua biografia ne ha surclassato l’opera, fino a farne un personaggio stereotipato. Ma a leggere i suoi versi se ne scopre la bellezza vertiginosa

Della travagliata esistenza della poetessa Rachel (1890-1931), soprattutto dei suoi amori infelici, già ho scritto tempo fa, nella recensione del bel romanzo di Nurith Gertz . È ora di tornare alle sue poesie, le quali ‒ lo confesso ‒ illuminano un poco i miei giorni in questo periodo oscuro.
La sorte toccata alla poetessa Rachel è davvero bizzarra. Morta prematuramente a Tel Aviv, lontano dall’amato mare di Galilea, la giovane pioniera di Saratov è divenuta subito un mito culturale in Israele, forse uno dei più radicati in assoluto, al punto che la sua biografia “leggendaria” ne ha surclassato l’opera, spesso riducendola ai versi malinconici della vittima di una sorte avversa. Del resto gli elementi fondamentali ci sono tutti: l’attaccamento viscerale alla Terra d’Israele; le passioni impossibili; la sterilità (vera o presunta); la tubercolosi, malattia “romantica” per eccellenza; la solitudine dovuta a quest’ultima, la stessa che oggi chiamiamo “isolamento sociale”. Basta considerare che soltanto negli ultimi vent’anni la critica le ha dedicato studi approfonditi, capaci di leggere veramente le sue poesie, riconoscendone la portata addirittura rivoluzionaria nel panorama letterario ebraico. Se Rachel non fosse esistita, Yehuda Amichai, Natan Zach, Dalia Ravikovitch e tutta la generazione poetica degli anni ’50 non avrebbero potuto scrivere nel modo che conosciamo.
Non voglio affermare che nelle poesie di Rachel la sofferenza sia assente. Al contrario: l’angoscia per un destino crudele è una presenza assidua nei suoi versi. Ciò che manca, però, è una rassegnazione completa, passiva al dolore. Pur nella disperazione più cupa, infatti, rimane un fremito di speranza. Tuttavia, non è nei rapporti umani che la poetessa trova il sostegno ai suoi giorni difficili. Più volte, infatti, le persone l’avevano tradita, respinta, rifiutata. Per la sua malattia, a causa della quale era stata costretta ad abbandonare la comunità agricola di Deganya. L’unica compagna fidata di Rachel è la natura della Terra d’Israele. I suoi amici più cari sono i semplici palpiti del paesaggio della Galilea. Non servono eventi straordinari: è sufficiente un albero in fiore o il sottile insinuarsi dell’alba dopo una notte insonne. E di nuovo la vita ‒ la stessa che avrebbe potuto essere bruscamente interrotta ‒ riprende a fluire.

Nelle notti senza sonno

Com’è fiacco il cuore nelle notti senza sonno,
nelle notti senza sonno com’è grave il giogo.
Stenderò allora la mano per recidere il filo,
per recidere il filo e finire?

Ma al mattino la luce, con la sua ala pura,
silenziosa bussa alla finestra della mia stanza.
Non stenderò la mano per recidere il filo.
Ancora un poco, cuore mio! Ancora un poco!

Sara Ferrari
Collaboratrice

Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).

 


1 Commento:

  1. Tante grazie a te, cara Sara, per questa bella traduzione ! Continua a tradurle, le poesie di Rachel ! Cari saluti da Michèle


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