Cultura
Yona Friedman e la fragilità dell’abitare. Un’idea per la contemporaneità

La lezione dell’architetto ungherese per leggere le esigenze abitative nelle città ai tempi del Coronavirus

L’allestimento nel 2016 a Loreto Aprutino, nei pressi di Pescara, dell’opera, No man’s land di Yona Friedman costituisce oggi, dopo la recente scomparsa dell’architetto, una sorta di testamento. Conclusione e ripresa dei temi a lui cari nel corso della sua vita e della sua attività: il rapporto dell’uomo con la natura e il suo habitat alla ricerca di un equilibrio e un rispetto reciproco. Natura, città, territorio sono all’origine dei suoi progetti e dei suoi scritti. Il terreno del “site specific” è occasione per una messa in atto di tutti gli elementi che si ritrovano nel progetto e nella pratica di “Architettura povera”: alberi di bambù piantati a segnare un confine come quelli del museo senza pareti (Museum of Simple Technology, Madras; India); sassi bianchi di fiume a segnare figure umane di vaga ispirazione preistorica; alberi con incise le parole chiave di Friedman come una sorta di alfabeto linguistico che costituisce l’ossatura dei suoi manuali per l’auto-progettazione e l‘auto-pianificazione.

Spazio e scrittura dunque; architettura, linguaggio e comunicazione; architettura come spazio della relazione senza la ricerca della forma assoluta. No man’s land è il nome infatti che definisce l’installazione e che viene ripreso dai suoi progetti per una architettura povera, come spazio di relazione nel villaggio e tra villaggi vicini, segnati da confini precisi a presidiare l’armonia e la convivenza degli abitanti. No man’s land, in definitiva, come spazio della relazione fra ipotetici villaggi confinanti in una struttura modulare e mutante secondo necessità, in una aggregazione e scomposizione teoricamente infinita. Bidonvillage è il nome con il quale Friedman designa nei suoi scritti e nei progetti e disegna con linguaggio incisivo e immediato, il modulo d’abitazione aggregabile in più unità, cioè una struttura con un tetto in comune sotto il quale gli abitanti autodefiniscono le forme, gli usi, la distribuzione degli spazi. E’ una risposta al tema della città povera che si rivolge anche alla città ricca e che da quella può trarre insegnamento; costruire nuclei abitativi in armonia con l’habitat naturale in una dimensione di scarsità di risorse.

Scenario possibile in una economia come la nostra basata su risorse non rinnovabili. I progetti di Friedman sono coerentemente rivolti sia alle città povere nelle quali l’intervento dell’autore non è la predeterminazione di una forma assoluta, ma la predisposizione degli elementi essenziali con i quali è possibile l’auto-pianificazione e l’auto-progettazione delle abitazioni private e degli spazi comuni; ma sono rivolti anche alla città ricca nella quale è possibile intervenire con elementi modulari e macro strutture che si sovrappongono ad edifici preesistenti in una sorta di palinsesto urbano che si accumula per necessità contingenti. Il tutto riducendo gli elementi dell’architettura agli elementi primari: tetto come copertura comune per tutti i nuclei, elementi di sostegno recuperati anche dai legni della foresta, distribuzione a labirinto nella pianta del villaggio nel rapporto tra alloggi e spazi comuni, la adattabilità a terreni e ad ambienti differenti in piano o in pendenza, la relazione con l’acqua, i fiumi e le dighe di protezione e i recinti. E tutto ciò in una perfetta modernità e attualità di intervento in collaborazione con l’Onu e l’Unesco, dagli anni Settanta ad oggi. Se ci sono richiami alla tradizione dei villaggi e degli insediamenti preistorici sono espliciti nei suoi scritti, non per riprendere tipologie antiche come citazioni, ma per guardare al modo di vivere e di abitare come un insegnamento per perseguire il fine di ottimizzare i risultati a partire da disponibilità limitate di materiali. Scrive Yona, “L’architettura arcaica e antica è sempre stata architettura di sopravvivenza”.

Il punto originario del suo pensiero e della sua azione è la libertà come presupposto imprescindibile del vivere dell’uomo. Libertà da assaporare in tutta la sua pienezza per dare dignità all’uomo. Libertà conquistata dall’architetto dolorosamente dopo la tragica esperienza di prigionia in Ungheria nel secondo conflitto mondiale. Vera misura della vita che gli si apriva davanti in tutta la sua dimensione storica nuova quando va a vivere in Israele (1948) dove studia architettura a Haifa; disciplina e metodo di studio coniugati alla ricostruzione e ridefinizione di una identità. Principi come quelli delle cellule aggregative delle sue architetture di sopravvivenza si generano in una dimensione di pratica costruttiva inserita in un forte senso di comunità. Avversione peraltro maturata in Israele per una pratica di insegnamento troppo dogmatica contro la quale germoglia in Friedman quel suo appello tipico all’auto-costruzione, all’auto-pianificazione e alla responsabilità degli abitanti. Auto-costruzione sulla base della partecipazione; guardare al bene comune come risorsa da proteggere per i bisogni di tutti. La terra, l’ambiente e l’habitat come patrimonio ereditato da saper far fruttare e migliorare: “Droit à la ville, mais sachez la conserver”. Nonostante il ribaltamento di prospettiva della figura dell’architetto, non più demiurgo della forma abitativa e urbana, nella quale fare vivere gli abitanti, ma tecnico a fianco dei soggetti primi della pianificazione e del progetto, vi sono molti fecondi accostamenti con l’opera di un Maestro dell’architettura e dell’urbanistica come Le Corbusier.

La sua ricerca paziente nel corso della vita di artista e di architetto è volta alla definizione della casa per l’uomo moderno a partire dagli Anni ’20, quando forti movimenti di popolazione dalla campagna alla città richiedono alloggi e servizi. La casa per l’uomo, la città per l’uomo sono il suo riferimento costante. Il processo creativo si risolve in una forma precisa che non consente mutamenti. In Friedman pur nella trasformabilità delle sue forme abitative c’è analogamente profonda attenzione all’uomo e al suo bisogno di abitare, ma a partire da una società fortemente diseguale. Per Le Corbusier il sogno di una città che consente un respiro nuovo all’uomo contemporaneo (La Ville radieuse) inscrive la dimensione dell’abitare nel ciclo astronomico delle ore di sole e di buio. Biologia e natura come criterio per il progetto.
In Yona, nella sua proposta di architettura e urbanistica, analogamente vi è la costante della natura come fonte di energia e risorse (sole, luce, acqua, piante, coltivazioni) e come criterio dell’organizzazione degli spazi. In Le Corbusier è costante l’attenzione alla abitazione collettiva come matrice di una relazione multipla urbana; Unité d’habitation di Marsiglia è il suo lascito più significativo. In Friedman alcune sue architetture richiamano la dimensione dei progetti di Le Corbusier, ma nascono da bisogni che mutano e richiedono trasformazioni dell’edificio quanto quelli dell’architetto svizzero restano segno perentorio. L’architettura di Friedman vuole essere una architettura senza traccia, lontana da ogni monumentalismo; ma come per Le Corbusier nasce in Friedman da una altrettanta “ricerca paziente” sui bisogni della città contemporanea: l’architettura, l’urbanistica come metodo integrato per risolvere i problemi dell’abitare, ma mettendosi al servizio dell’auto-pianificazione e dell’abitante. E se Le Corbusier credeva profondamente nella società industriale, per contrasto emerge invece in Friedman un atteggiamento di radicale critica all’industrializzazione, alla luce del percorso storico dal XIX secolo ad oggi. Da qui il tema dell’architettura povera e di sopravvivenza in una dimensione di scarsità di risorse. Ma in entrambi gli autori il motore dell’agire e del progettare è l’ascolto e l’interpretazione dei bisogni dell’altro. Da qui anche il tema della comunicazione e degli strumenti linguistici, compresi quelli disciplinari e della comunicazione attraverso i disegni. Esemplari sono quelli di Friedman affidati ai fumetti illustrativi delle soluzioni proposte. Singolarmente simili nella carica persuasiva a quelli di Le Corbusier, ma tanto diversi quanto a interlocutori e abitanti.Un disegno che sollecita la responsabilità, quelli di Friedman; un disegno che persuade e offre una soluzione univoca quella di Le Corbusier. In entrambi è presente la volontà di offrire con il progetto dell’abitazione risposte ai bisogni primari: aria, luce e riposo, intimità, protezione e relazione con il mondo esterno e con il lavoro. Per Le Corbusier i dettami dei Cieam (Congresso internazionale di architettura moderna), Atene 1933; per Yona “una sorta di Carta d’Atene povera”: “La Carta di Atene è progressivamente sostituita da una carta di sopravvivenza (…) e l’architettura di sopravvivenza (…) è l’oggetto di questa carta. Il tetto e il cibo sono i due elementi base di questa architettura”. Per entrambi la lezione da apprendere è quella dall’arcaico, dall’antico e dal passato che rendono la lezione della storia nutrimento per il presente. Per entrambi la volontà di afferrare la realtà complessa con metodo rigoroso verificato nel tempo e sempre verificabile alla prova dei fatti. Metodo che in Friedman va nella direzione di un servizio per gli abitanti perché si autodeterminino nelle soluzioni abitative.

Costituisce una sorta di alfabeto della libertà di costruire, una guida per decidere e un orientamento, lasciando in dote un’attrezzatura concettuale che è la premessa per la soluzione abitativa. Quando per esempio nei manuali, Utopies réalisables e Votre ville est à vous Sachez comment la conserver, parla di tetto comune nell’unità bidonvillage, un’unità autosufficiente della città povera, come riparo e raccolta per l’acqua, ma anche come copertura per gli spazi pubblici comuni, piazze nella città dei ricchi, come Parigi (Halles e Beaubourg), cioè sia per i progetti leggeri in paesi poveri, sia per i progetti di trasformazione della città odierna in momenti di transizione (Foto 3). Yona riprende elementi base dei villaggi antichi o contemporanei, come per esempio quello degli Indios: come: le recinzioni, i confini tra privato e pubblico, tra villaggio e villaggio e quindi la definizione di una grandezza di misura che sola può garantire lo scambio, la relazione e l’armonia. “L’architettura di sopravvivenza degli Indios è perfetta. I tetti delle loro case raccolgono l’acqua; le loro coltivazioni a terrazze garantiscono l’approviggionamento di cibo. La difesa dei villaggi è facilmente garantita, ecc… Il villaggio Indio è dunque un buon esempio di architettura di sopravvivenza, ma (…) è fragile”. Ancora quindi un guardare all’antico con grande attenzione per ricavarne insegnamenti per l’oggi. Anche qui una relazione feconda con Le Corbusier: quando questi studia l’abitazione nuova per l’uomo moderno nei batiments di più cellule negli anni ’20 (Immeubles-villas) trova una dimensione ottimale per assicurare agli abitanti nello stesso tempo condizioni di isolamento privato e rapporto con la natura e la città, tra privato e pubblico, tra interno ed esterno. Trova appunto armonia e a quella forma affida e verifica compiti prefissi. E, come è noto, il primo spunto per questi progetti gli venne dalla visita a un convento fiorentino medievale dell’ordine benedettino (Certosa d’Ema), dove studia e rileva la perfetta organizzazione di celle monacali affiancate, ma isolate tra di loro, distribuite su due livelli, con giardino per coltivare le piante, con lo sguardo alto protetto dal muro sull’orizzonte, con accesso attraverso corridoi coperti al chiostro centrale e alla chiesa. Una piccola città-comunità, difesa, ma comunicante con il resto del mondo. Anche qui, guardare all’antico e assimilarlo nel presente è tipico del metodo di Le Corbusier. Ancora fecondo è il suo rapporto tra la logica dell’abitazione che arriva a sopraelevare la casa su pilotis perché possa partecipare la superficie d’appoggio con la natura circostante e la progressione degli spazi fino alla percorribilità del tetto-giardino e lo studio delle coperture leggere in Friedman che si appoggiano su strutture ad uno o due piani con spazio libero al di sotto. Oppure strutture multipiano che assicurano insieme l’uso delle abitazioni e l’introduzione dell’agricoltura urbana sia nella città ricca che nella città povera.

In tutta l’opera di Friedman lo sguardo è rivolto verso una società fragile, dove la relazione fra città povera e ricca è la dimostrazione di un costante possibile passaggio dall’una all’altra anche in tempi rapidi, dello scambio diseguale di modelli, opportunità e risorse e di una dipendenza dell’una dall’altra. I modelli abitativi della città ricca sono fragili anche e soprattutto quando si pretendono indifferenti all’habitat dell’insediamento. L’attualità di questo pensiero di Friedman è stringente in questi tempi di crisi sanitaria mondiale dove viene sospeso il sistema circolatorio dell’organismo urbano su scala planetaria. Cibo, acqua, lavoro, scambi di merce, relazioni, agricoltura, fabbriche, medicinali, habitat, animali: tutti elementi base dell’abitare che improvvisamente diventano beni scarsi o irraggiungibili. Eloquenti le parole di Friedman quando, per definire la sua idea di cellula, villaggio urbano, bidonvillage, parla di “scialuppa di salvataggio” bene attrezzata per sopravvivere in mare aperto. Il pensiero e l’azione di Friedman alla luce di una lunga vita spesa su questi temi è non solo attuale, ma anche profetica. Fragilità e vulnerabilità impongono una capacità di risposta che parte dall’assunzione di responsabilità nei confronti dell’organismo urbano e del territorio, un dovere di cura e attenzione presente fin dal progetto e dal concetto di abitare. Una cura del corpo urbano, villaggio, territorio come parte di sé.


1 Commento:

  1. Ottima riflessione critico scientifica, nonché uno spunto di ricchezza umana ed esistenziale, quanto mai essenziale in un momento di crisi globale per l’umanità intera, quale quello che stiamo attraversando.


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