Cultura
Dina Wardi, analisi dell’identità dei figli della Shoah

Una lettura del libro – introvabile – “Le candele della memoria” della psicanalista israeliana

Tutti sappiamo che i libri possono essere compagni, amici che ogni tanto andiamo a ritrovare, con cui prendiamo un caffè.
Non con tutti gli amici però ci si sposa! Voglio dire, non tutti i libri ci seguono nella vita: ci sono libri che si alternano e che accompagnano certi periodi, poi magari li rileggiamo dopo un po’  e ci accorgiamo che non ci parlano più allo stesso modo perché siamo cambiati. Fanno parte di un pezzetto di viaggio.
Poi invece ci sono libri che incontriamo in momenti particolari di apertura, di cambiamento e allora ci si conficcano dentro. Hanno il potere di andare a toccare qualcosa di scoperto, di vivo, come se fossero attesi. Per me questo libro è stato “Le Candele della memoria” della psicoanalista israeliana Dina Wardi.
L’ho letto per la prima volta a circa trent’anni e mi è costato la quasi espulsione dalla Biblioteca Nazionale di Firenze. Sì, perché l’avevo preso in prestito e non riuscivo a restituirlo. Non potevo staccarmene. Me la cavai con una lavata di capo e una sospensione per un anno. 
Ero nel mezzo di una profonda crisi identitaria. Stavo cercando un modo mio di essere ebrea. Nata in un matrimonio misto, mia madre aveva scelto me, l’unica di quattro figli, per portare sulle spalle il peso della tradizione, della memoria. Mia madre è stata in un campo di concentramento? No, però dopo l’8 settembre 1943 si è nascosta,  ha perso tutto: la scuola, la normalità, i diritti, l’infanzia, si è ritrovata a fare il partigiano con una pistola in mano a soli quindici anni. Appartiene a quella generazione  (che ho tentato di descrivere nel mio romanzo, “Forse mio padre” edito da Giuntina), che uscì dalla guerra con qualcosa di irrimediabilmente spezzato dentro. Come dice giustamente Wardi – e qui torno a lei, dopo questa piccola digressione personale che motiva però questo articolo – anche se questi ebrei non furono portati materialmente in un lager, potenzialmente sono comunque dei sopravvissuti: avrebbero potuto fare la stessa fine. Quindi i sentimenti che hanno trasmesso ai figli sono legati a quell’esperienza complessa, magari subita da altri familiari e condivisa a livello inconscio. In ogni famiglia ebraica c’è un figlio che deve tenere accesa la luce della memoria, il ricordo della tragedia ed è un compito molto pesante, soprattutto in rapporto alla Shoah, perché si ereditano memorie storiche ma anche e soprattutto emozionali. 
Come ne sono usciti i nostri genitori? Quanto la tragedia è penetrata nella loro identità condizionando scelte, percorsi, modellando la loro personalità, i loro comportamenti, il loro modo di essere madri e padri? Il problema delle candele – continua Wardi – è che quando illuminano allo stesso tempo si consumano. Fino a sparire. E questo è il rischio che corrono i discendenti. Di introiettare il genitore interno, la sua rabbia implosa di vittima o la rimozione della sua fragilità di combattente, fino a annullare se stessi, non facendo cioè quel lavoro di confine, di costruzione dell’io che caratterizza ogni percorso umano adulto e sano di crescita e distacco. Il saggio ha come sottotitolo: “I figli dei sopravvissuti dell’Olocausto: traumi, angosce, terapia” perché l’autrice è in primo luogo una psicoanalista. E’ ancora viva, ha ottantuno anni, vive in Israele e continua a occuparsi di gruppi di ascolto e percorsi analitici individuali. Mi piacerebbe fare una seduta con lei! E mi piacerebbe che tutti quanti leggessero il suo libro. Anzi, dovrebbe essere obbligatorio, per gli ebrei e i non ebrei. Perché è forse lo studio più sistematico – se non l’unico pubblicato in Italia – su come lavorare nel difficile compito di dipanare quelle ombre del passato, riemergere e tornare alla luce. E’ un libro spietato ma onesto, sincero, deciso a arrivare alla verità, come ogni analisi dovrebbe essere. Per una volta le vittime della tragedia non sono soltanto i genitori o i nonni che l’hanno vissuta sulla propria pelle ma i discendenti, costretti a rinunciare alla propria identità per assumerne  – per dovere – una fittizia.
Il percorso che Wardi fa con ciascuna delle persone che descrive nel suo libro è commovente, pieno di amore: è una rinascita che avviene attraverso il sangue e le viscere ma che riporta vita e speranza. Ognuno di noi dovrebbe mettersi nei panni di quei figli e provare a fare un confronto con quanto  è accaduto, su quali schegge impazzite di dolore si siano conficcate dentro di noi a nostra insaputa. Mi piacerebbe che tutti leggessero, dicevo prima, ma purtroppo non sarà possibile. Il libro, edito da Sansoni molti anni fa, è introvabile e l’ultima copia l’ho comprata io su Ebay. Il fatto che non venga ristampato da noi in Italia la dice lunga su come ci occupiamo di trasmissione di memoria in questo paese. Lo trovate in biblioteca. Se in quella più vicina a dove siete c’è, non esitate a prenderlo in prestito. Ma occhio alla scadenza, non fate come me: se non lo restituite in tempo vi faranno una multa. Anche se, garantisco: ne sarà valsa la pena.
Laura Forti
collaboratrice
Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Con Guanda nel 2022 pubblica Una casa in fiamme.

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