Cultura
Dopo il giorno della Memoria, quello del ricordo

Riflessioni sulla storia della Repubblica, il presente e il suo immediato futuro

Con una consequenzialità che ha spesso generato perplessità, dopo il Giorno della memoria segue quello del Ricordo. Tra le due ricorrenze del calendario civile trascorrono non più di una quindicina di giorni. Vorremmo raccontare una storia alla quale poi fare succedere alcune riflessioni, sia pure veloci ma non sbrigative. Poiché la storia medesima spesso sanguina. Istituito dal Parlamento italiano con un’apposita legge, la numero 92 del 30 marzo 2004, la lettera della sua norma afferma che «la Repubblica riconosce il 10 febbraio quale Giorno del ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». La frase è lunga e composita poiché somma in sé più aspetti di quella dolorosa vicenda, i cui effetti non sono ancora stati del tutto sopiti. Si parla, infatti, di «tragedia degli italiani» per poi aggiungere «di tutte le vittime delle foibe» (che non furono solo italiane). A ciò si aggiungono, subito dopo, le vittime «dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra» nonché coloro che subirono gli effetti «della più complessa vicenda del confine orientale». Quest’ultima allocuzione è strategica poiché permette di contestualizzare le vicende storiche che sono il vero oggetto della ricorrenza, evitando quei fenomeni di interessata miopia che inducono certuni a denunciare la sofferenza degli uni dimenticando quella degli altri. Gli attori di quella storia furono infatti molti, così come ampio è l’arco temporale che va preso in considerazione.

Il primo dato da considerare, quindi, è di lungo periodo e rimanda all’Italia e all’indirizzo nazionalista assunto dalle élite liberali prima e fasciste poi. Non di meno, ed è dato che non può essere trascurato, vanno tenute in considerazione anche le istanze irredentiste avanzate da sloveni, croati e serbi. La drammaticità di queste pretese era moltiplicata, in quei territori che compongono l’Istria, la Dalmazia, il Quarnero e la Venezia Giulia, dal fatto che essi costituivano il luogo di confluenza tra comunità linguistiche e culturali distinte, destinate a coesistere su spazi condivisi o comunque limitrofi. Già l’Impero asburgico aveva incentivato le richieste di sloveni e croati, ritenuti nazionalità più affidabili della minoranza italiana nella lotta contro la politica di espansione perseguita dalla Serbia, mirante ad unificare gli slavi del sud in un’unica comunità politica. La fine della Grande guerra del 1914-1918, originatasi peraltro nei Balcani, e gli assetti geopolitici che ne derivarono comportarono l’annessione al Regno d’Italia di una parte delle terre da quest’ultimo rivendicate: Trieste, l’Istria, la città di Zara e alcune isole ma non la Dalmazia. I territori erano tuttavia abitati da consistenti minoranze slovene e croate. Ben presto si verificarono violenze ai loro danni, organizzate da gruppi di nazionalisti e dal nascente fascismo, che proprio in Venezia Giulia condusse alcune delle sue azioni più eclatanti, applicando la prassi del cosiddetto «fascismo di frontiera», basata sul ricorso sistematico alla violenza contro quanti erano ritenuti suoi avversari. Si trattava di una posizione radicale, che si proponeva come estremo baluardo dell’italianità minacciata dalle pressioni del mondo slavo, individuato fin da subito in quella sede come il principale nemico da combattere e distruggere. Una battaglia da portare avanti attraverso una politica basata sull’esclusione delle minoranze “straniere” dalla vita pubblica del Regno d’Italia, poiché ritenute inferiori culturalmente e socialmente.

Non a caso, quindi, già nel 1920 Mussolini ebbe a dichiarare, in un discorso tenuto a Pola, che «di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. Io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani». L’episodio più noto, nella lunga catena di violenze, fu l’incendio del «Narodni dom» (la Casa nazionale slovena) di Trieste, compiuto da squadristi fascisti, che assunse a posteriori un forte significato simbolico, in quanto fu vissuto come l’inizio delle violenze a danno degli slavi. Negli anni successivi la politica di cosiddetta «italianizzazione» portò ad una prassi di assimilazione forzata delle popolazioni locali, le cui specificità culturali furono integralmente conculcate nel mentre gli esponenti delle minoranze venivano esclusi dal governo e dalle amministrazioni locali. Altri provvedimenti vessatori avrebbero poi avuto corso successivamente, fino al tentativo di cancellare, nel nome di una «bonifica nazionale» che doveva corroborare un nesso immediato tra italianità e fascismo, ogni traccia linguistica locale.
Di fatto l’azione del governo fascista si adoperò per annullare l’autonomia culturale e linguistica di cui le popolazioni slave avevano ampiamente goduto durante la dominazione asburgica ed esasperò i sentimenti di inimicizia nei confronti dell’Italia, facendo maturare un forte risentimento nei confronti della popolazione italiana e italofona, stanziata perlopiù nei centri urbani e percepita, dalle campagne a prevalenza slava, come la radice di un dominio tanto tracotante quanto ingiustificato.

Con la Seconda guerra mondiale, e l’invasione delle truppe dell’Asse del Regno di Jugoslavia, l’Italia riuscì ad annettersi gran parte della Slovenia, la Dalmazia settentrionale e le Bocche di Cattaro. Inoltre occupò tutta la fascia costiera della ex Jugoslavia, con un ampio entroterra. In Dalmazia da subito fu applicata una ottusa e controproducente politica di italianizzazione forzata, a ricalco di quella già seguita nei territori annessi al Regno. Più in generale, l’esercito italiano si adoperò in ripetute attività antipartigiane, non lesinando nelle violenze, tra le quali vanno annoverati i trasferimenti forzati delle popolazioni locali e la fucilazione degli ostaggi.
Con l’8 settembre 1943 il sistema di controllo italiano collassò, nel mentre i tedeschi si assicuravano il controllo di Trieste, di Pola e Fiume, lasciando invece le campagne temporaneamente prive di controllo. I partigiani jugoslavi, già attivi negli anni precedenti, poterono così occupare una parte della regione, mantenendo le proprie posizioni per circa un mese. Nel settembre di quell’anno si ebbe così la prima ondata di infoibamenti, ai danni di circa 600-800 persone, perlopiù membri del locale fascismo, rappresentanti dello Stato italiano, autorità cittadine ma anche esponenti della comunità nazionale italiana. Più in generale, sia pure nell’ambito di sollevazioni spontanee, ci si adoperò contro quanti erano reputati come nemici della futura Federazione jugoslava, che si intendeva creare e consolidare anche in quei luoghi.
La pratica di infoibare consisteva nel gettare le vittime, vive o già decedute, nelle foibe, ovvero nei rilievi del terreno carsico, assai diffusi in quei luoghi. La caduta verso il basso per molte decine di metri, oltre ad assicurare la morte istantanea o per sopravvenuta inedia, garantiva anche l’occultamento dei cadaveri. Nel corso della prima settimana dell’ottobre del 1943 i tedeschi provvidero, con l’«operazione nubifragio», a scalzare i reparti partigiani, ricorrendo alle più efferate violenze contro la popolazione civile. Nel corso di tali eventi anche alcuni italiani furono colpiti dalla repressione nazista. Nell’anno e mezzo successivo l’occupazione tedesca dei territori del nord-est, che in parte erano ora sotto il diretto controllo amministrativo di Berlino, con la creazione della regione meridionale denominata «Zona di operazioni del litorale adriatico», insieme alla lotta antipartigiana, alla politica antislava e alle persecuzioni antiebraiche, raggiunse livelli di rinnovata e inaudita ferocia. La propaganda neofascista della Repubblica di Salò, di contro, diede da subito ampia notizia dei ritrovamenti di corpi nei rilievi carsici, fatto che suscitò una forte impressione popolare.

Fu da allora che il termine «foibe» cominciò ad essere associato agli eccidi, fino a diventarne sinonimo esclusivo, associato alla cosiddetta «barbarie slava», di una tragedia in parte già avvenuta e di un rumore di fondo angosciante per qualcosa che avrebbe potuto ancora ripetersi. Sul versante croato, sloveno e serbo al risentimento contro il nazifascismo si andò di nuovo associando l’avversione verso gli italiani visti, quasi sempre a torto, come minoranza privilegiata poiché integralmente fascista. Quando nell’ottobre del 1944 gli jugoslavi procedettero all’occupazione di Zara seguì l’eccidio di circa 200 nostri connazionali, alcuni dei quali tragicamente annegati in mare. Nella fase terminale della guerra, nel mentre il sistema di occupazione tedesco andava disfacendosi, le truppe della IV armata di Tito, che aveva da tempo costituito un vero e proprio esercito partigiano su base multietnica, si adoperarono per raggiungere le grandi città italiane della Venezia Giulia, per sottrarle al futuro controllo angloamericano. Tra il 30 aprile e il 1° maggio 1945 i reparti del IX Korpus sloveno occuparono l’Istria, Trieste e Gorizia. Da subito fu applicata una rigorosa e sistematica politica che aveva due obiettivi: mentre sul piano militare si intendeva stabilire una piena sovranità jugoslava sui territori conquistati, la polizia politica titina, l’Ozna, in massima autonomia e discrezionalità, doveva ora fare piazza pulita di quanti si sarebbero potuti opporre all’annessione della Venezia Giulia alla nascente Federazione jugoslava.
In tal senso gli esponenti più in vista delle locali comunità italiane, e tra questi non pochi antifascisti, furono da subito fatti bersaglio di una violenta repressione. Nel mese di maggio e fino a giugno inoltrato diverse migliaia di persone, nella misura di almeno 5.000, furono così infoibate. I massacri avevano però più motivazioni, non riassumendosi solo nel movente politico. Infatti, se da un lato dovevano concorrere a eliminare i reali o potenziali oppositori servivano anche per affermare il principio della predominanza delle nazionalità jugoslave nei confronti della popolazione di lingua e cultura italiana. In questo senso una parte di queste violenze ebbe anche uno sfondo etnico, laddove una minoranza, considerata dai vincitori come sconfitta e identificata tout court con il fascismo, doveva essere “normalizzata” e assoggettata ai nuovi poteri. Tuttavia non vi fu diretta persecuzione degli italiani in quanto tali, se non di coloro che erano ritenuti incompatibili con il potere titino. Contò infine lo spirito di rivalsa sociale che animava una parte dei repressori, provenienti dalle file del mondo contadino slavo, che vedeva nella persecuzione dei maggiorenti della comunità italiana un modo per “regolare i conti” con la borghesia urbana, la cui predominanza era ritenuta la causa delle proprie disgrazie.
Il movente politico, sommandosi a quello ideologico, storico, culturale e civile originò così una miscela esplosiva, che tuttavia non si fermò all’immediato dopoguerra. Il destino di quelle terre, benché definito politicamente con i successivi trattati di pace, risultava ancora incerto non tanto dal punto di vista della sovranità, oramai consolidata, bensì della composizione sociale e culturale. Le vicende della secca contrapposizione bipolare, percepite tanto più intensamente in territori di confine tra l’Occidente capitalista e l’Oriente socialista, sommandosi al ricordo della storia immediatamente compiutasi, innescarono l’esodo dall’Istria e dalla Dalmazia di un gran numero di persone. Tra i 200.000 e i 300.000 profughi, quasi tutti di origine italiana o comunque italianizzati, si riversarono nel nostro Paese, alla ricerca di una sicurezza che ritenevano di avere perduto una volta per sempre nei luoghi natali.

Come ha avuto modo di appurare la Commissione storico-culturale italo-slovena «in definitiva, le comunità italiane furono condotte a riconoscere l’impossibilità di mantenere la loro identità nazionale – intesa come complesso di modi di vivere e di sentire, ben oltre la sola dimensione politico-ideologica – nelle condizioni concretamente offerte dallo Stato jugoslavo e la loro decisione venne vissuta come una scelta di libertà». E ancora: «in una prospettiva più ampia, l’esodo degli italiani […] si configura come aspetto particolare del processo di formazione degli Stati nazionali in territori etnicamente compositi, che condusse alla dissoluzione della realtà plurilinguistica e multiculturale esistente nell’Europa centro-orientale e sud-orientale. Il fatto che gli italiani dovettero abbandonare uno Stato federale fondato su di un’ideologia internazionalista, mostra come nell’ambito stesso di sistemi comunisti le spinte e distanze nazionali continuassero a condizionare massicciamente le dinamiche politiche».

Cosa ci rimane di quella storia, la cui drammaticità ci appartiene non solo come italiani ma soprattutto in quanto europei? Prima di tutto la necessità di saperci raccontare i tanti aspetti di una vicenda che non è più oscura, cogliendo la complessità dei fenomeni storici, non riconducibili ad un’unica causa. Solo così si potrà costruire un terreno di comprensione, tale poiché edificato non sui coni d’ombra bensì sulle zone di luce, anche quando queste possono rischiarare eventi difficili e particolarmente sofferti. Mentre invece in questi anni sono stati molteplici gli attacchi che si sono dovuti registrare e subire nel merito di ciò che è stata equivocamente proposta come la «pacificazione» tra quelle che venivano presentate come «opposte ragioni» e, in quanto tali, simmetricamente omologabili. Ponendo i drammi e le tragedie che la storia ci consegna su un ipotetico piatto di una bilancia che pesa la morale collettiva, per poi da ciò immediatamente concludere che, posta la premessa per la quale crimini e responsabilità sono molte, non esista nessun vero colpevole. Di fatto, le pacificazioni («tutti uguali poiché tutti combattenti», quindi «stringiamoci la mano, senza più rancore») implicano le parificazioni delle responsabilità («non esistono veri colpevoli e comunque coloro che dovessero avere colpe non lo sono più di tanti altri, anche quando si parla di stermini come la Shoah») e, in prospettiva, la loro anestetizzazione e neutralizzazione.
Dopo di che, in una specie di orizzonte nebbioso, i carnefici di ieri, autoassoltisi, così come il loro apologeti nell’oggi, potrebbero rientrare in scena, fieri di se stessi, a rivendicare il falso onore del loro squallido operato. L’omologazione dei drammi e delle tragedie del passato va in questa precisa direzione: non rende il dovuto omaggio a quanti ne subirono i catastrofici effetti ma, stabilendo una sorta di competizione tra le vittime, ne cancella la specificità umana e morale, piegandola alle manipolazioni del presente, ai calcoli dell’immediato, alle meschinerie di chi vuole rimuovere, negare o, più banalmente, trivializzare il tempo trascorso. Una sorta di riscrittura di ciò che fu sulla base delle necessità del tempo corrente. Una riscrittura che finge di avere a memoria e trepidazione quanto invece piega ad esercizi di circostanza. Quasi a volere urlare che se anche la “propria parte” hai i “suoi morti”, in un gioco di rifrazioni che di storico non ha nulla, nessuno può rivendicare un autentico torto.

Si sarà inteso che non si sta discutendo della veridicità di un fatto storico bensì della sua trasposizione politica. Laddove tutto tende invece a scontornarsi, a perdere gli ancoraggi con i dati della realtà per divenire strumento di calcolate manipolazioni laboratoriali. La rilettura tendenziosa del passato gioca infatti su quel malinteso senso comune per il quale le passioni che furono di quell’epoca tragica che conosciamo come Seconda guerra mondiale non avrebbero oggi più ragione di essere ricordate se non per la loro equivalenza morale. In tale modo, in Italia prima ancora che resuscitare il cadavere del fascismo, si cerca di mettere in discussione i valori sui quali il nostro Paese si è ricostruito dopo le tragedie della dittatura e della guerra. Non va infatti dimenticato che a questi ripetuti tentativi di imporre per legge una nuova versione della storia – una specie di sortita dalla fortezza assediata della memoria del fascismo  – ha fatto da riscontro un perdurante, ossessivo tambureggiamento, soprattutto attraverso i mezzi di informazione di massa, di prese di posizione sulla presunta parzialità del modo in cui le vicende più recenti del nostro paese sarebbe stata raccontata da coloro che ne costituirebbero i «vincitori». Tra questi, “ovviamente”, quanti si sono riconosciuti nella lotta di Liberazione.
Le ancora recenti polemiche sul contenuto dei manuali scolastici di storia, periodicamente rilanciate dalla destra italiana, ne sono tra i riscontri più diretti, con i ripetuti tentativi di delegittimarne i contenuti poiché essi conterrebbero «una sola versione» e non anche quella degli sconfitti che, come d’abitudine si sostiene da parte dei loro apologeti, persero non per torto ma poiché soverchiati dalla potenza militare altrui. Se poi volgiamo lo sguardo oltre le pagine scritte possiamo agevolmente renderci conto che un altro ambito di permanente conflitto è la toponomastica, laddove alcune amministrazioni locali, hanno tentato a più riprese di titolare vie ad esponenti del regime fascista o, comunque, a personaggi poco raccomandabili del Novecento italiano, riconducibili, a vario titolo, al fascismo medesimo. Il tutto sospeso tra il finto candore e la maliziosa ingenuità che da sempre connotano le reazioni, peraltro molto risentite, alle dure repliche dell’antifascismo a queste deliberate provocazioni.
A ciò si accompagna l’irritante riproposizione, secondo un canone tanto pedissequo quanto manipolatorio, della propria «buona fede». Chi fece scelte già allora ritenute completamente sbagliate non sarebbe stato motivato da altro che non fosse una sincera intenzione di «servire la patria». A partire da questa premessa dovrebbe quindi essere giudicato tutto quello che da ciò conseguì, anche i fatti peggiori. Tale impostazione, palesemente auto-assolutoria, è fatta propria anche dai parlamentari che in questi anni si sono dedicati con solerzia a resuscitare l’ «onore» dei combattenti di Salò. Adducendo a motivo il fatto che alla base del proprio affannarsi nel presentare proposte di legge revisioniste vi sarebbe un sentimento genuino, privo di qualsiasi altra intenzione che non sia la volontà di concorrere  al «ristabilimento della verità». Se ne deduce che evidentemente la verità storica sarebbe ancora latitante. Poiché essa riposerebbe non nel senso degli eventi, chiari a chiunque, ma nelle intenzioni dei loro protagonisti, in questo caso i fascisti. Che anche un autorevole esponente della sinistra, Luciano Violante, già venticinque anni fa si sforzava di definire comprensibili (ancorché non condivisibili).
Si tratta, a conti fatti, di una deliberata falsificazione che si nasconde tuttavia sotto la petizione del ricatto sentimentale, con il richiamo ad una falsa evidenza di senso comune, quella per la quale la «verità» starebbe sempre nel mezzo e dimorerebbe comunque nell’animo degli uomini, quelli motivati dall’«idealità del sacrificio», non importa di quale colore o fede politica. Dal che ne deriverebbe che in fondo i torti sono di tutti (e quindi di nessuno) e che la storia costituirebbe il luogo dove si distribuiscono assoluzioni. Fin qui il senso della cosiddetta «pacificazione», alla quale una parte crescente della società politica ha prestato la sua volenterosa disponibilità, esercitandosi nel vaniloquio della «memoria condivisa», quasi a volere sposare la tesi che tra vittime e carnefici ci possa essere un comune terreno d’intesa.

Ma essa è in realtà solo una parte di una più complessa intelaiatura ideologica che sta dietro alle motivazioni dei tentativi di riabilitare, per più aspetti, il lascito del fascismo. Poiché di questo sui tratta e non di altro. Si ragioni quindi nel merito dei motivi di questo continuo sforzo di legittimare quei torbidi trascorsi. La morale è chiara: se ciò attenua le colpe dei carnefici diminuisce il valore dei resistenti, dei giusti, di coloro che non piegarono il capo. A volere invece dire che allora, semmai, c’era un confuso tramestio, laddove nessuno sapeva bene cosa fare e come comportarsi: chi sbagliò lo fece benché fosse animato da buone intenzioni; chi scelse la parte “giusta” è perché ebbe la fortuna di stare con i vincitori. I secondi non possono più giudicare i primi, che sono stati fino ad oggi condannati ai margini solo perché ebbero la sventura di perdere militarmente una guerra. Che l’avessero scatenata loro, e che fosse una guerra di sterminio razziale, sono cose che non vengono dette, riducendo il conflitto ad una sorta di partita di calcio e ammiccando, ancora una volta, a quel deteriore pregiudizio che induce alcuni a pensare di essere più furbi poiché pensano male: la storia è una finzione, i vinti di ieri sono i giusti di oggi e così via, in un rincorrersi di gratuite banalità che si alimentano del cinismo dettato da una voluta ignoranza.

Il fondamento resistenziale ed antifascista della Repubblica non solo è quindi deliberatamente omesso ma è escluso dall’orizzonte dei significati più importanti: la pace si associa alla «pacificazione» (a volere dire che alla base del nostro tempo non c’è una rottura, quella operata della lotta di Liberazione, ma un condono generalizzato, quello delle ripetute amnistie, che da clemenze giuridiche si trasformano in riabilitazione politica); le distruzioni derivano da una guerra che, nella ambigua retorica, si trasforma quasi in un cataclisma naturale, dove le responsabilità individuali e collettive si perdono nelle nebbie; il «popolo» esiste in quanto figura indistinta, destinata a subire il corso degli eventi, e non come protagonista di una cittadinanza consapevole e partecipata; i trascorsi esistono per essere dimenticati poiché l’imperativo è «rimarginare le ferite», in un omertoso «interesse dell’intera collettività» che per esistere deve tacere. Si tratta di una miscela di qualunquismo, conformismo, auto-indulgenza e deresponsabilizzazione; la miscela che riempie il serbatoio delle motivazioni dei becchini della memoria e dei necrofori della storia. A partire proprio da quella delle collettività che vissero sul confine orientale dell’Italia, ed oltre esso, pagandone un drammatico scotto, del tutto incolpevolmente. Delle quali si perde completamente la specificità della loro storia, le peculiarità dei loro drammi, la radice delle loro sofferenze, ricoperte da una spessa coltre di utilizzi impropri, di manomissioni di significati piccoli e grandi, di mistificazioni gratuite, volgari, indecorose.

Quel che quindi si consuma in tal modo non è il ricordo ma, piuttosto, il passaggio dalla tanto decantata «pacificazione» alla parificazione tra la ragione democratica e il torto degli aggressori. Una condizione raggiunta la quale, tuttavia, non si accompagnerebbe ad essa nessuna cessazione della vecchia ostilità politica: semmai quest’ultima farebbe da volano per avviare un ulteriore capitolo dello scontro, passando alla deliberata demonizzazione di tutto quel che resta dell’esperienza antifascista, a questo punto già svilita di ruolo e significato. A ciò, in ultima battuta, mirano gli estensori delle tante norme, variamente accolte, per la revisione dei manuali scolastici, per la toponomastica apologetica, per l’oblio istituzionale, per la censura della libera espressione nel discorso pubblico. Si tratta, a ben guardare, di una battaglia per il dominio politico sul senso storico. Poiché se alla destra radicale e sovranista è impossibile ottenere riscontro per sé dagli storici in quanto tali – dovendo emendarsi di un passato, quello fascista, con il quale dimostra di non avere fatto in alcun modo i conti – è più che prevedibile che cerchi quindi di ottenere consenso rivolgendosi direttamente alla platea del grande pubblico, di cui vellica gli irrisolti umori populistici e l’atteggiamento qualunquista. A questo livello si cerca di praticare una strategia dello sfondamento che non vuole sanare antiche ferite ma, semmai, riaprirle acutizzando le contrapposizioni. Il fascismo non è un capitolo trascorso della storia nazionale ma un problema che ci interroga nel presente, una patologia della società moderna che è ben lontana dall’essere consegnata al passato. La battaglia su chi rappresenta cosa non è una questione di lana caprina, uno scontro tra memorie anziane e anchilosate, ma un conflitto sull’oggi, su chi abbia la legittimità a guidare il paese. Non averne cognizione vuol dire non avere compreso quale sia la posta in gioco.

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


1 Commento:

  1. Analisi perfetta e sconfortante, nel delineare un percorso di revisione ideologica che, andando contro (anzi, mistificandoli) i dati storici punta – da parte di ampie forze di destra italiane – a giustificare, delegittimando le stesse ragioni fondanti della Repubblica, l’azione scellerata del fascismo ignorando ogni analisi corretta di quei complessi avvenimenti. Con la fatale, inspiegabile (se non leggendone la miopia e calcoli errati di ipotetiche ricomposizioni di quei traumi e, per alcuni, tornaconti politici personali) miopia delle concessioni a un impossibile “riconciliazione” nazionale. Complimenti al professor Vercelli per la lucidità delle sue considerazioni.


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