Cultura
Edith Bruck: un incontro e un consiglio di lettura

Ritratto della scrittrice e del suo narrare

Edith Bruck è una scrittrice ungherese, conosciuta soprattutto per la tragedia che l’ha colpita, la morte della madre e l’internamento a Bergen Belsen. È una testimone importante del Novecento e ancora oggi, a più di novant’anni, è capace di scrivere libri intensi, apprezzati da lettori di età diverse, come è risultato evidente quando ha vinto nel 2021 lo Strega giovani con  “Il Pane perduto”. Ha uno stile poliedrico, a metà tra prosa e poesia e la capacità di parlare del male senza mai nominarlo, tanto che i suoi scritti, rivolti all’oggi, diventano spesso un’occasione di libertà e di incontro con chi legge. Andrebbe letta e riletta molte volte, soprattutto adesso che quella nuvola nera di cui spesso parla metaforicamente torna a manifestarsi nei cieli d’Europa, non troppo distante da noi.

Ma Edith Bruck è anche, così si legge su wikipedia,  “naturalizzata italiana”. Dagli anni ’60, dopo aver pubblicato nel 1959 con Lerici editori, la collana diretta da Romano Bilenchi e Mario Luzi, il primo libro autobiografico, “Chi ti ama così”, ha scritto e lavorato nel nostro paese, ha sposato il regista Nelo Risi; nel 2021 Mattarella le ha conferito il titolo di Cavaliere di Gran Croce dell’’Ordine al Merito, proprio per l’arricchimento che ha dato alla cultura italiana con un impegno che ha coinvolto la scrittura su molti fronti, dalla narrativa al giornalismo.
Risi stesso ha diretto uno dei suoi primi racconti, sceneggiato da Cesare Zavattini, “Andremo in città”, un film che ebbe per interpreti Geraldine Chaplin e Nino Castelnuovo. Bisogna contestualizzare l’Italia di quei tempi, gli anni sessanta: l’opera della Bruck – come quella di Levi – non era di immediato interesse commerciale. A parte “Kapo” di Gillo Pontercorvo, “Il giardino dei Finzi Contini” di Vittorio De Sica e “La lunga notte del ‘ 43” di Florestano Vancini (unico tentativo di parlare delle responsabilità del fascismo italiano)  il cinema si disinteressa bellamente della Shoah. L’Italia voleva dimenticare, non ricordare. E anche la risposta del mondo intellettuale è deludente. Ci voleva coraggio per un editore a pubblicare “Se questo è un uomo” – dopo la bocciatura autorevole di Natalia Ginzburg e Cesare Pavese che sostenne che c’erano già troppi libri sui campi di concentramento; e quel coraggio all’inizio non lo ebbe Einaudi, che respinse due volte il manoscritto, ma una piccola casa editrice, Francesco De Silva, diretta da Franco Antonicelli: solo duemilacinquecento copie.

“Andremo in città” da cui Risi trasse il film è quindi una scommessa coraggiosa. L’opera della Bruck è una raccolta di racconti che parlano soprattutto di adolescenza. Bambini, ragazzi e ragazze che passano attraverso esperienze di vita durissime. Viene spesso descritto il rapporto conflittuale con padri e madri ed infatti il libro è dedicato dalla Bruck “a mio padre che dalla vita non ebbe mai niente e da noi innumerevoli rimproveri”. Nel racconto che dà il titolo al libro e il soggetto all’opera di Risi, ambientato in Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale, viene descritta la storia di Lenka una ragazza che ha un  fratello cieco, Mischa. I due vivono da soli da quando la madre è morta e il padre è stato internato dai nazisti. La sorella sostiene il fratellino con tenerezza, lo protegge e lo accudisce nella soffitta dove sono nascosti, gli promette un’operazione che gli restituirà la vista e il bambino vive nella speranza di andare in città per essere curato.
Un sogno che non sarà mai realizzato perché i due saranno catturati. Nel finale straziante, durante il viaggio nel treno blindato, Lenka, per l’ultima volta, si fa interprete della realtà e la deforma per compassione; con l’approssimarsi della “città”, ovvero del lager, cercherà di tranquillizzare Misha prospettandogli la tanto sognata operazione grazie alla quale finalmente potrà vedere.
Un racconto duro, permeato di dolcezza ma anche aspro, dolente di rabbia. Gli ultimi tre capitoli della raccolta invece raccontano di adolescenti arrivati in Israele e delle difficoltà a costruirsi una nuova vita in un paese difficile – la stessa Bruck aveva provato a fare aliah nel 1948, si era sposata prendendo appunto il cognome, Bruck, dal marito, ma poi, non trovando affatto quel paese idealizzato della sua fantasia, stillante latte e miele, era andata a vivere a Roma.

La caratteristica di questa scrittrice “naturalizzata” che colpisce è proprio la ricchezza della lingua, la sua capacità di fare proprio l’italiano che non è l’idioma originario ma che ha sempre rappresentato per lei quasi un’opportunità di raccontare meglio, con distacco, esperienze che altrimenti sarebbe stato intollerabile descrivere. 
Edith Bruck oggi ha 92 anni. Se potete andate ad ascoltarla quando concede un incontro pubblico, è un’emozione. E se non potete, almeno leggetela.
Magari proprio questa raccolta di racconti, forse meno famosa degli altri libri, ma di una prosa che colpisce nel segno, come la vera letteratura deve fare.

Laura Forti
collaboratrice
Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Con Guanda nel 2022 pubblica Una casa in fiamme.

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