Joi in
Elezioni Ucei: la parola al candidato milanese Yitzchak Dees

Obiettivo: recuperare chi ha abbandonato la comunità. Per dare voce a un’identità forte e a un’appartenenza “orgogliosa”

Yitzchak Dees è un nome nuovo nel panorama dei consiglieri Ucei. Si candida per la prima volta con la lista Gesher – Ponte, dove mette a disposizione le sue conoscenze professionali e del mondo ebraico internazionale. In Italia da dieci anni, ha vissuto negli Stati Uniti e in Israele, già studente in una yeshivah, è stato dirigente scolastico di una scuola ebraica negli USA. Attualmente insegna in una scuola internazionale milanese. Abbiamo parlato con lui del suo programma, una lista che si definisce apolitica, attenta al futuro delle comunità e ai bisogni dei loro iscritti e soprattutto di quelli che invece le comunità le hanno abbandonate. La sua ricetta? A poterla sintetizzare in maniera estrema, basterebbero due parole: jewish pride

Partiamo da qui, quali sono secondo lei le causa dell’abbandono e della disiscrizione alle comunità?
“Me ne sono molto occupato negli Stati Uniti e spero che il mio lavoro possa essere utile ora. Qui in Italia abbiamo un grosso problema: nessuno sa perché il sistema non è adeguato alle esigenze di chi abbandona le comuità. La prima cosa da sapere è proprio questa: parlare con le persone e conoscere le loro motivazioni. Poi c’è un problema di leadership”.

Ovvero?
“In questi casi penso come un businessman e mi chiedo prima di tutto se qualcuno vuole il mio prodotto. Attenzione, qui c’è una sottigliezza: credere che il proprio desiderio coincida con quello di tutti. Se io voglio una cosa, significa che tutti la vogliono… ma non funziona così. Nel caso delle comunità e dei loro iscritti, bisogna capire cosa vogliono gli iscritti dalle comunità (e cosa vorrebbero quelli che le hanno abbandonate). Quello che serve, secondo me, è sviluppare un’idea di identità positiva. Mi spiego meglio. Qui si parla sempre di bisogni laici e di bisogni religiosi, come se si trattasse di due diversi popoli. E se esiste e viene praticato un sistema forte per modellare l’identità religiosa da parte del rabbinato, poco si fa per i laici che invece vogliono potersi sentire orgogliosi della loro identità laica. Allora occorre porsi un’altra domanda. Cosa significa ortodossia? Io credo che per dare questa risposta ci si debba interrogare su cosa intendiamo per identità”.

Ha una risposta a questa domanda sull’identità?
“No, ma ciò che è interessante è capire se il nostro sforzo identitario nasce dal sentimento della paura o se invece vogliamo proporlo al positivo, come orgoglio ebraico. Certo, se guardiamo al passato, chiaramente la paura diventa importante. Il ruolo delle comunità allora è esclusivamente quello di proteggere i propri iscritti dall’antisemitismo. Ma oggi per fortuna l’antisemitismo non è così forte e non è una ragione sufficiente per restare dentro la comunità”.

Questa è dunque la prima spiegazione dell’abbandono da parte di alcuni iscritti?
“Sì. Questo tipo di identità basata sulla paura non ha futuro. Oggi la sfida è svilupparne una positiva, che offra ragioni positive per rimanere nella comunità anche a chi se ne sente distante. E con positiva intendo bella, fatta del piacere dell’appartenenza, di una forma di orgoglio”.

Ha una ricetta?
“Sconfiggere la paura. Allora si svilupperà una forte identità. Faccio un esempio. Un fatto che mi ha colpito molto stando qui in Italia è la paura che gli ebrei hanno della chiesa. Ma la chiesa in verità è molto debole, persino i preti non conoscono la Bibbia, figuriamoci le persone comuni! Nel confronto si forma e fortifica la propria identità e nel confronto con la chiesa, l’identità ebraica ne esce fortissima. Posso raccontare un altro piccolo aneddoto?”

Certamente.
“Anni fa venne in Italia il rabbino capo di Francia. Fu accolto con tutti gli onori in sinagoga per lo Shabbat e venne introdotto alle usanze locali (per esempio, quella di dire una preghiera per le donne). Ma lui rimase colpito dal fatto che non venisse pronunciata la preghiera per il proprio governo, come accade in tutti i siddurim del mondo. Rav Momigliano allora gli spiegò che naturalmente c’era anche in Italia questa preghiera, ma che dal giorno della promulgazione delle leggi razziali si era deciso di non pronunciarla più. Il rabbino di Francia fu molto colpito da questa risposta: ma come, era il suo pensiero, nel momento del bisogno non chiedete aiuto a Dio? I punti di vista sono molto diversi: la preghiera è un modo per dare onore a un governo, oppure la preghiera è una richiesta a Dio di aiutare il governo a prendere le decisioni giuste? Anche questo ha a che fare con l’orgoglio di avere un’identità ebraica e con l’unità dei bisogni, laici e religiosi: esistono entrambi, ma sono comunque i bisogni di un solo popolo, Israele”.

Quindi, quali sono i compiti dell’Ucei?
“Deve occuparsi delle comunità italiane, che sono troppo piccole per potersi sostenere da sole. L’Ucei ha la visione d’insieme delle singole realtà e questo è molto utile per vincere la sfida di riunire tutti coloro che hanno abbandonato la propria comunità. Ci vuole un progetto nazionale che si basi sulla formazione, ma da realizzare attraverso un rapporto personale. Ci vogliono delle persone, degli insegnanti, che lavorino regolarmente con la comunità e si relazionino con gli iscritti. L’Ucei deve inoltre occuparsi dei rapporti con lo stato e con la chiesa, fondamentali per il nostro futuro e per formare una identità positiva dell’ebraismo”.

Una curiosità: perché definisce la sua lista apolitica?
“Penso che entrando nel dibattito politico con la mia opinione, non risolverei nulla. Sono convinto invece che si debba lavorare per trovare elementi comuni a tutti, capaci di stimolare le persone a rimanere nelle comunità e a risolvere la contrapposizione tra laici e religiosi. Questo per me è prioritario, un progetto a lungo termine, che ha a che fare con una versione dell’identità con il segno +”.


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