Cultura
Finale di partita

La vacanza di governo è oramai una costante della realtà d’Israele: ancora una volta ci si trascinerà alle urne sulla base di un referendum plebiscitario a favore o contro Netanyahu

In Israele si tornerà presto alle urne. Per la quinta volta in tre anni, in tutta probabilità nel mese di ottobre. La Knesset voterà a breve la legge di auto-scioglimento, chiamando quindi al voto gli israeliani. È questa l’autentica “non news” che si accompagna alla prevedibile crisi dell’esecutivo Bennett-Lapid – il «governo del cambiamento» – che, in fondo, al di là dei numeri formali, una vera e propria maggioranza parlamentare, se intesa come un solido ancoraggio, non disintegrabile a seconda dei molteplici processi di erosione “ai fianchi”, non l’ha per davvero mai ottenuta. Probabilmente non ci credeva troppo neanche una parte dei suoi deputati. Ragion per cui, l’avere gettato la spugna ad un anno dalla sua recente, tortuosa e sofferta costituzione, peraltro quest’ultima indotta dalle pressioni esercitate da una parte dell’opinione pubblica e delle stesse istituzioni, non può sorprendere più di tanto.

La vacanza di governo è oramai una preoccupante costante della realtà d’Israele e non si presta a facili giudizi, posto che essa manifesta, al di là delle sue specificità, uno dei più preoccupanti aspetti della farraginosità delle nostre democrazie. Il governo che aveva raccolto ben otto liste presenti in parlamento, dalla destra alla sinistra (per l’esattezza, i 7 seggi di Yisrael Beitenu, i 6 di New Hope, i 7 di Yamina, gli 8 di Kahol Lavan, i 17 di Yesh Atid, i 7 laburisti, i 6 del Meretz e, infine, i 4 del Ra’am) per 62 scranni nominali, in realtà ridottisi poi a 61, ha avuto una difficile navigazione, sgretolandosi progressivamente. Non solo per l’estrema differenza, ben presto trasformatasi in reciproca diffidenza, delle forze che ne componevano la maggioranza. L’approvazione del bilancio statale 2021-22, dopo una sessione di discussione durata due giorni, è stata senz’altro una delle chiavi sulla base delle quali i 27 dicasteri (occupati per un terzo donne: Ayelet Shaked agli interni; Yifat Shasha Bitton per l’istruzione; Mehirav Cohen per l’equità sociale; Orna Barbivai per l’economia; Merav Michaeli ai trasporti; Tamar Zandberg, per la protezione ambientale; Orit Farkash-Hacohen per la scienza, la tecnologia e lo spazio; Karin Elharar per l’energia) speravano di potere proseguire la collaborazione. La votazione aveva infatti messo fine ai tre anni trascorsi in assenza di un budget pubblico, consegnando l’attività dell’esecutivo ad interim all’«amministrazione ordinaria»: un difetto che si calcola sia costato non meno di 21 miliardi di shekelim, al cambio più di 6,5 miliardi di dollari. L’accordo programmatico tra Bennett e Lapid sottoscritto l’anno scorso prevedeva infatti lo scioglimento immediato dell’esecutivo solo in caso di mancata approvazione della legge di bilancio.

Le prime mosse, quindi, non si erano rivelate così inadeguate. Nella considerazione del pubblico israeliano, secondo l’Israel Democracy Index, l’esecutivo sembrava avere preso un po’ di quota (l’indice di fiducia si è attestato, nell’anno trascorso, al 27%), dopo l’esercito (78%) e il presidente d’Israele (56%), quest’ultima figura di garanzia che negli ultimi anni ha assunto vesti inedite, in parte interventiste, al pari – per alcuni aspetti – di quanto è successo nello scenario italiano. La presenza di un partito «arabo» (ovvero di una componente del quadro politico israeliano caratterizzata da un’offerta politica rivolta ad uno specifico segmento dell’elettorato, qualificato in base a peculiari caratteristiche etno-linguistiche) ha incrementato la disposizione d’animo favorevole di una parte degli arabo israeliani. Il tutto anche se l’indice di identificazione con la cittadinanza israeliana come fattore identitario prevalente è dell’84,5% tra gli ebrei e solo del 28% tra gli arabi; non di meno, tra le diverse faglie di rottura, ossia sinistra/destra, arabi/ebrei, ricchi/poveri, ebrei occidentali/ebrei orientali, religiosi/secolarizzati, sono le differenziazioni di ordine etnico – e non quelle di natura sociale o politico-ideologica – a costituire i maggiori catalizzatori di tensioni. Lo si è peraltro visto anche in tempi recenti, dove le violenze nelle città miste, a partire dalla Galilea, hanno costituito un riscontro di quel fuoco che cova sotto la cenere, supportato dal fatto che la tenuta dell’esecutivo sembra preoccupare di più gli israeliani di origine araba che non quelli ebrei.

Peraltro, dinanzi ai molti scogli della navigazione parlamentare, a novembre dell’anno scorso i due azionisti di maggioranza avevano deciso di procedere con una contrattazione collaterale, fuori dalle stanze della Knesset e affidata i rispettivi partiti, per cercare di predisporre una road map condivisa sui temi d’agenda aperti. Tra di essi, la costruzione di nuove unità abitative nei Territori e il rapporto irrisolto con diversi insediamenti in Cisgiordania; le ipotesi di riforma sulle questioni (in sé spinosissime) che chiamano in causa i rapporti e le rispettive sfere di potere tra religione e Stato; la risistemazione del Kotel; la commissione di inchiesta sull’acquisto dei sottomarini; il disegno di legge sull’incandidabilità di un cittadino sotto processo alla guida dell’esecutivo; la riapertura del consolato statunitense a Gerusalemme Est. Queste, ed altre, sono vertenze che vanno ben oltre i singoli aspetti che richiamano nella loro singolarità, semmai rifacendosi al tema – in Israele sempre aperto – del rapporto tra sovranità statale, cittadinanza giuridica e civile ed equilibrio tra i diversi poteri pubblici. Le scelte operate dal governo in quest’ultimo anno peraltro hanno spesso alimentato quel conflitto permanente al suo interno che ne è stata la caratteristica più significativa, posto che la mediazione tra destra e sinistra si è rivelata faticosissima. Lo stesso Naftali Bennett ha dovuto affrontare ripetutamente l’opposizione ostativa interna al suo partito Yamina, dove il consorzio politico con il Meretz, i laburisti e il Ra’am non è mai stato del tutto digerito e metabolizzato. Così come Benny Gantz, dinanzi ad alcune opzioni molto discutibili nei confronti delle Organizzazioni non governative palestinesi, accusate di fiancheggiare il terrorismo, o alla volontà di incrementare le unità abitative ebraiche in Cisgiordania, indirizzi che hanno molto irritato Washington, si è trovato di fatto a doverle difendere da sé, pur trattandosi di scelte politiche che avrebbero dovuto risultare di responsabilità collegiale. In più di un caso i ministri si sono mossi come se non ci fosse un vero domani, rivelando anch’essi di non credere fino in fondo alla tenuta della coalizione. La logica dell’orto di casa propria ha spesso prevalso.

Dopo che a maggio Ghaida Rinawie Zoabi, deputata arabo israeliana del Meretz, aveva deciso di abbandonare la maggioranza, portando quest’ultima a non essere più tale, con soli 59 voti su 120, le premesse per la sua decadenza si sono tradotte in dati di fatto. Il passaggio cardine, tuttavia, è stato il mancato rinnovo – per la defezione della stessa Rinawie Zoabi e di Mazen Ghnaim, del Ra’am – del West Bank Bill, il provvedimento legislativo, riconfermato ogni cinque anni, dal 1967 in poi, che estende ai cittadini israeliani residenti in Cisgiordania una serie di norme relative alla legislazione penale e civile vigente in Israele. Il pronunciamento parlamentare, infatti, aveva registrato 52 voti a favore di contro a 58 contrari (i tre rimanenti deputati del Ra’am e Idit Silman di Yamina, che aveva già lasciato la maggioranza precedentemente, non erano presenti in aula). I partiti di opposizione di destra, pur sostenendo in linea di principio il contenuto della misura, hanno votato contro, avendo ad obiettivo di fare tutto il possibile per dimostrare l’impotenza della coalizione, provocandone quindi la rapida sconfitta politica. Il provvedimento, che era in prima lettura, poteva essere riproposto all’aula con alcuni cambiamenti ma l’accelerazione della crisi ha fatto cadere qualsiasi ipotesi alternativa. Peraltro, le materie disciplinate dal West Bank Bill in assenza di una nuova deliberazione parlamentare, saranno prorogate ad interim.

A seguito del ribaltone parlamentare, il Likud di Benjamin Netanyahu aveva prontamente dichiarato, tramite twitter, che fosse ora «di riportare Israele a destra». Yair Lapid aveva risposto che «come sempre dopo una sconfitta, torneremo più forti e vinceremo il prossimo round». Il dibattito alla Knesset era durato più di cinque ore, tra accesi scambi di accuse, al suono della parola «tradimento», un termine assai diffuso, per il suo ripetuto utilizzo, nella politica israeliana. Il partito Yamina di Bennett ha quindi risposto accusando apertamente i membri dell’opposizione di essersi uniti al partito a maggioranza araba Joint List nel votare «contro i residenti» della Cisgiordania. «Il Likud brucerà il paese per i bisogni di Bibi». Promettendo che la coalizione avrebbe comunque resistito al colpo secco, Yamina si era anche impegnato a fare passare comunque il disegno di legge sulla Cisgiordania, così come era già riuscito a fare con altri progetti di legge che erano stati silurati nell’ultimo anno, prima di essere poi ripresi in successiva lettura.

La scelta di procedere allo scioglimento dell’esecutivo, tuttavia, pare sia stata operata in piena autonomia da Naftali Bennett. Dalla sua costituzione, il governo aveva subito la guerra ad oltranza che gli era stata mossa dal vero King Maker della politica nazionale, Benjamin Netanyahu. Il rigetto della sua trentennale presenza in politica rimaneva, d’altro canto, il vero collante di otto partiti altrimenti tra di loro così diversi da non riuscire a trovare un linguaggio comune, prima ancora dei singoli progetti. A tutt’oggi  l’ex primo ministro, la figura maggiormente carismatica nello scenario israeliano, si trova ad affrontare una situazione delicata poiché deve alimentare e rinnovare la storica alleanza tra il Likud e i partiti ultraortodossi che, a loro volta, stanno attraversando un periodo difficile, viste le riforme adottate dal governo e la loro mancanza di voce in capitolo nel determinare il budget. Gli elementi di forza di Bibi sono peraltro anche i fattori della sua debolezza strutturale. All’interno del suo partito, che ha superato la soglia della vecchia destra nazionalista per ricollocarsi in un’area sovranista-populista, con una sostanziale riformulazione della cultura politica di riferimento, il notabilato ha compreso che finché Netanyahu sarà capo indiscusso il Likud difficilmente tornerà al governo. Con l’attuale configurazione della Knesset, non potrebbe comunque costruire un’alleanza di maggioranza. La presenza degli haredim e degli ultra-nazionalisti, per nulla facilmente riconducibili sotto un unico cappello, è ben lontana dal garantire un’alternativa di governo, quanto meno in termini numerici. Netanyahu stesso, peraltro, deve costantemente confrontarsi con le vicissitudini penali che lo vedono ancora protagonista.

Detto questo, a fronte dello scioglimento per consunzione numerica dell’oramai ex maggioranza, il gioco dei sondaggi è già iniziato. Il primo di essi, licenziato il 21 giugno e commissionato da Radio 103 FM, nonché riportato dal quotidiano Maariv, indica una chiara preferenza di voto per il Likud (al quale sarebbero assegnati 36 seggi rispetto ai 29 attuali), seguito da Yesh Atid (20 sugli odierni 17), dal Religious Zionist Party (10 rispetto a 6), Kahol Lavan (che confermerebbe gli 8 uscenti), lo Shas (7), i laburisti (7), Yamina (7), United Torah Judaism (6), Joint List (6), Yisrael Beitenu (5), New Hope (4), United Arab List (4). Nessun seggio è attribuito al Meretz. Se fossero questi i risultati reali, quando ad ottobre si andrà a votare, nessuna delle due fragili coalizioni che si confrontano attualmente otterrebbero comunque la maggioranza parlamentare. A meno che non si proceda ad un loro spacchettamento, e ad una successiva riconfigurazione dei gruppi parlamentari, la situazione di stallo che da tre anni blocca il legislativo verrebbe di fatto ribadita dal nuovo risultato delle urne. L’unica via di uscita sarebbe quindi la formazione di un esecutivo di minoranza che dovrebbe negoziare, di volta in volta, la maggioranza dei voti parlamentari, in una navigazione che sarebbe comunque impervia, dinanzi al potere di ricatto che i singoli deputati continuerebbero ad esercitare.

L’orizzonte problematico che da molto tempo accompagna sul piano politico il Paese è anche figlio di un accentuato mutamento delle culture politiche dominanti. Da tempo, oramai, la partita conflittuale non è più tra una sinistra socialdemocratica e una destra liberal-nazionalista ma tra un centro laico, quello attualmente rappresentato da Yair Lapid e dal suo partito Yesh Atid (che ambisce comunque a conquistare voti nel tradizionale serbatoio della sinistra), e le diverse destre, sospese e divise tra il più abituale accento nazionalista, la connotazione anti-secolarizzante e il sovranismo radicale di radice messianica. Soprattutto tra queste ultime componenti – comunque legate alla visibilità di un qualche leader poiché prive di una piattaforma politica che non sia quella che rischia di favorire l’isolamento identitario del Paese (così, ad esempio, Itamar Ben-Gvir o Ayelet Shaked) – una parte dell’elettorato, anche giovanile, può cercare delle risposte alla domanda relativa alla propria rappresentanza. Ma sarà il voto, ovviamente, a dire quante di queste considerazioni hanno maggiore o minore fondamento.

L’attuale esecutivo aveva a bandiera delle sue posizione lo slogan «tutti tranne Netanyahu». Una tale posizione ha forse contribuito al rafforzamento del potere oppositivo dell’ex premier, che comunque ha sempre lavorato, a volte dietro le quinte, altre volte palesemente, per fare crollare il governo. Di tutte le abili volpi del parlamento israeliano Bibi Netanyahu è senz’altro la più scaltra, avendo alle sue spalle un’attività politica in prima linea di lungo corso e dimostrando una longevità imbattuta. Non di meno, rispetto ad una destra istituzionale e parlamentare che dagli anni Novanta in poi è andata radicalizzandosi, seguendo i trend delle destre europee e di quella americana, Netanyahu a tutt’oggi rappresenta il punto di sintesi ancora insuperato. Altre leadership sono nel mentre maturate ma il suo carisma nei confronti del magmatico elettorato di destra è imprescindibile. Anche a costo di uno svuotamento e di una riformulazione dell’indirizzo politico del vecchio Likud che, d’altro canto, nel momento stesso in cui non ha più trovato nella sinistra riformista il suo tradizionale antagonista, è andato sempre più spesso ricostruendo il campo elettorale della destra nazionalista come un ambito desecolarizzante. Ovviamente si è solo al primo giro di valzer, dipendendo molto dalle variabili che da qui ad ottobre interverranno sul quadro nazionale e regionale, solo in parte gestibili dai protagonisti della politica israeliana. Tuttavia, ancora una volta ci si trascinerà alle urne sulla base di un referendum plebiscitario a favore o contro Netanyahu. Un fatto, quest’ultimo, che già di per sé rappresenta una sua incontestabile vittoria, in un Paese che tuttavia rischia di rimanerne ostaggio ancora a lungo.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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