Cultura
Fughe in avanti e ritirate strategiche: dove va il Governo di Israele?

Il senso della tregua legislativa voluta da Netanyahu in un Paese sull’orlo del blocco totale, a partire dalle funzioni pubbliche, ma anche di una divisione che potrebbe rivelarsi profonda e irreversibile

«Quando c’è la possibilità di evitare la guerra civile attraverso il dialogo, mi prendo una pausa per il dialogo». Così Benjamin Netanyahu, per coprire, quello che oramai molti commentatori, anche prossimi alla sua stessa posizione, definiscono come un disastro politico. «Un’auto-immolazione come questa da parte della destra non si vedeva da queste parti da molto tempo», ha scritto la columnist conservatrice, Sara Haetzni-Cohen, anima del gruppo di attivisti My Israel. Una dozzina di settimane di mobilitazioni, piazze e vie delle grandi città stracolme di persone pacifiche ma determinate, l’inusuale pronunciamento di non poche autorità e amministrazioni pubbliche di contro alla radicalizzazione del clima politico, un’apoteosi di bandiere israeliane, un premier – navigato e abilissimo politico – che deve infine intervenire, con una dichiarazione tardiva, dai contenuti intermittenti, a molti parsa come poco o nulla spontanea, per cercare di arrestare l’onda lunga delle oramai infinite proteste.

Un Paese non solo oramai sull’orlo del blocco totale, a partire dalle funzioni pubbliche, ma anche di una divisione che potrebbe rivelarsi irreparabile. L’iter di approvazione della contestatissima legge di riforma della giustizia è stato temporaneamente sospeso. Così, almeno, un Netanyahu imbarazzato, senz’altro spiazzato, probabilmente ricattato. Dai membri della sua coalizione. A partire dagli estremisti del Tkuma. Il ministro della Sicurezza Itamar Ben Gvir, minacciando di ritirare l’appoggio dei suoi deputati al governo – cosa che ne avrebbe comportato la caduta e, quasi certamente, il ricorso alle urne per l’ennesima volta –  ha chiesto ed ottenuto dal premier la costituzione di una «guardia nazionale». Ha reso di dominio pubblico la notizia lui stesso quando, in una lettera rivolta ai mass media e firmata dallo stesso premier, datata lunedì 27 marzo, risulta l’impegno di quest’ultimo nel permettere la costituzione di un tale organismo alle dipendenze del ministro. Questa stessa domenica se ne dovrebbe discutere nella riunione di gabinetto del consiglio dei ministri. Netanyahu, da parte sua, non ha fatto alcun riferimento diretto a tale impegno nel suo discorso di lunedì sera, quando ha invece dichiarato che il percorso di analisi e votazione della legge di riforma sarebbe stato interrotto fino al ritorno dei deputati alla Knesset il giorno dopo la Pasqua. Non a caso, già lunedì mattina Ben Gvir aveva già twittato che «la riforma sarà adottata. Sarà istituita la Guardia nazionale. Il budget che ho richiesto per il ministero della Sicurezza nazionale sarà stanziato per intero. Nessuno ci spaventerà. Nessuno riuscirà ad alterare la decisione che è stata presa dal popolo». A tale riguardo, Gilad Kariv, deputato di Avodah (il partito laburista), ha criticato da subito la promessa di Netanyahu a Ben Gvir, scrivendo sullo stesso social network che «la guardia nazionale deve essere posta agli ordini della polizia, non sotto il controllo dell’estrema destra Lehava e del resto dei kahanisti ” – riferendosi ai discepoli del rabbino estremista e razzista Meir Kahane, assassinato a Manhattan nel 1990 ma a tutt’oggi, più che mai, modello e ispirazione delle destre radicali israeliane. Lo stesso Kariv ha esortato lo Shin Bet, il controspionaggio e servizio di sicurezza interno, ad opporsi «alle milizie private di Ben Gvir».

Chi conosce la destra radicale presente in Israele, a partire dagli stessi funzionari di polizia, che da sempre la monitorano con crescente preoccupazione, sa che ciò che va chiedendo Ben Gvir (del suo già vicino alle posizioni più oltranziste di natura anti-araba del partito Moledet e poi del Kach, fatto quindi oggetto di una grande numero di inchieste, incriminato una cinquantina di volte, esentato dal servizio militare obbligatorio proprio per il suo radicalismo) è semmai «una milizia privata che soddisferà le sue esigenze politiche» (così Moshe Karadi, già commissario generale di polizia (tra il 2004 e il 2007), citato da Times of Israel del 28 marzo). A tale riguardo, non esiterebbe a reclutare tra le sue fila «giovani estremisti delle colline», ossia quei gruppi che si adoperano per l’occupazione e l’espropriazione illegale delle terre altrui usando tutti i mezzi coercitivi a loro disposizione.

Il disegno che accompagna questi gesti unilaterali non è solo un moto anti-arabo (in genere risolto nell’affermazione: «i palestinesi non esistono») ma anche, e soprattutto, la volontà di mettere lo Stato d’Israele dinanzi al fatto compiuto, in prospettiva incidendo sui suoi stessi equilibri istituzionali e politici. Lo stesso Karadi ha aggiunto: «è impossibile avere una forza operativa che non dipenda dal capo della polizia». Esattamente quello che, invece, vorrebbe il ministro Ben Gvir, noto per le sue posizioni eversive. Il quale da tempo va professando la necessità, a tale riguardo, di creare per l’appunto una sorta di milizia paramilitare, alle sue stesse dipendenze, basata sull’adesione perlopiù di volontari e rivolta essenzialmente a sedare i disordini provocati dalla componente araba, in Israele così come nella Cisgiordania. In altre parole, una specie di polizia “etnica”, che opererebbe selettivamente, intervenendo soprattutto sulla base dell’origine dei tumultuosi e dei riottosi. A gennaio, già insediatosi sulla poltrona di ministro della Sicurezza (le cui deleghe operative derivano dallo spacchettamento di funzioni altrimenti attribuite ad altri dicasteri), aveva quindi presentato un progetto a tale riguardo, che conteneva alcune caratteristiche simili a quelle evidenziate in una ipotesi di accordo proposto dal suo predecessore, l’ex ministro della Pubblica sicurezza Omer Bar-Lev, e dall’allora Primo Ministro, Naftali Bennett. Tuttavia, questo piano prevedeva che la polizia di frontiera lavorasse a fianco della guardia nazionale e non ne facesse in alcun modo parte. Sia Bar-Lev che Bennett si erano quindi spesi per la creazione di una «guardia israeliana», ossia di una nuova istituzione di sicurezza, composta da ufficiali in servizio così come riservisti, oltre che da volontari addestrati da professionisti della Border Patrol, la guardia di frontiera (Mišmar Ha-Gvul), a tutt’oggi parte del Mišteret Yisra’el, il sistema di polizia che, in quanto forza armata, assolve tuttavia a funzioni di ordine essenzialmente civile. Dopo di che, dall’annuncio che è stato fatto nel giugno del 2022, l’idea aveva faticato a trovare un’eco.

Nel gennaio di quest’anno Ben Gvir aveva quindi affermato che la costituenda guardia nazionale sarebbe passata sotto il comando del commissario generale di polizia Kobi Shabtai e che non sarebbe stata posta sotto la diretta autorità del ministro della Sicurezza, così come proposto dall’accordo di coalizione siglato tra il Likud e Otzma Yehudit («Potere ebraico»). A febbraio, Ben Gvir aveva invece dichiarato l’intenzione di incorporare l’intera polizia di frontiera nella nuova guardia nazionale. Va ricordato al lettore che quest’ultima è comunque – formalmente e operativamente – parte della polizia, essendo soggetta all’autorità di un commissariato generale indipendente (ovvero non rispondente ad un singolo ministro bensì al governo nel suo insieme, così come alle autorità civili), sebbene parte delle sue unità possano sempre e comunque agire, previo accordo, con il comando operativo dell’esercito israeliano. L’intero disegno di Ben Gvir subordinerebbe invece il commissario generale di polizia al ministro della sicurezza nazionale, di fatto privandolo della sua indipendenza operativa.

Questo è il background della spasmodica contrattazione politica intervenuta da gennaio in poi. Ci si intenda: quella che Benjamin Netanyahu ha dichiarato nei giorni scorsi, sospendendo l’iter legislativo, è solo una tregua, in occasione della ricorrenza delle festività pasquali e della temporanea chiusura della Knesset. Dopo di che, a maggio, in tutta plausibilità, è verosimile che la ruota torni a girare. Tuttavia, non necessariamente per il verso che ha mantenuto in questi ultimi mesi.

Detto tutto ciò, ci sono diverse considerazioni da avanzare al riguardo. Cercando di fare un po’ di ordine tra la ridda di immagini, parole, sensazioni, dichiarazioni ed emozioni. La questione, per capirci, non è quella di uno scontro tra ciò che chiamiamo con il nome di «destra» e quanto attribuiamo alla cosiddetta «sinistra». Siamo semmai ben oltre, trattandosi di un confronto tra chi difende le prerogative di uno stato di diritto e chi, un po’ ovunque, ne vorrebbe invece fare strame. Dichiarandosi espressione «del popolo» quando, invece, tutela solo gli interessi suoi e del suo ristretto gruppo di appartenenza. Veniamo quindi al dunque, nel caso israeliano: il governo presieduto da Benjamin Netanyahu, che può a tutt’oggi contare su una maggioranza parlamentare di 64 seggi, ha prestato giuramento alla fine di dicembre dell’anno scorso. Per molti israeliani, a prescindere dai propri personali convincimenti politici e dalle conseguenti scelte elettorali, tutto ciò segnava la conclusione di un lungo periodo, durato più anni, di incertezza, determinata soprattutto dall’impossibilità di creare solide e durature maggioranze parlamentari. Va da sé che non si trattasse solo di un problema tecnico bensì politico ed istituzionale. Nel solco di un consolidamento della maggioranza di destra uscita dal voto del 1° novembre 2022 (e quindi del suo programma elettorale), il ministro della Giustizia Yariv Levin già il 4 gennaio aveva pertanto presentato una radicale riforma della giustizia. Ne abbiamo già parlato, su queste pagine, ripetutamente. Peraltro si sapeva che le opposizioni avrebbero fatto comunque fuoco di sbarramento.

La destra, premiata dalle urne, tuttavia confidava non solo nel suo robusto seguito di consensi ma anche in una nuova legittimità, basata sull’autorevolezza acquisita attraverso l’assenso del «popolo», ovvero di coloro che si recano alle urne votando. In fondo, la vera radice delle destre odierne rimane infatti l’appello plebiscitario all’assenso plebiscitario della collettività, attraverso il ricorso al medesimo strumento – per l’appunto il voto – dal quale sa trarre profitto ben oltre il mandato stesso che esso dovrebbe conferire. Ottenuta la maggioranza per formare un governo, quindi, l’attuale coalizione di destra radicale ha avviato immediatamente il suo iter politico e, quindi, legislativo. Il ridimensionamento dei poteri della Corte suprema israeliana si inscriveva di per sé non solo in un programma di «destra» (accentramento nell’esecutivo dei ruoli decisionali, limitazione dei sistema di bilanciamento dei poteri, appello permanente alla legittimazione “popolare”) bensì in una logica per la quale, in una Paese che non ha Costituzione, le formazioni della nuova destra, molto diverse dal conservatorismo tradizionale, si pongono l’obiettivo di un deciso ribaltamento nel complesso e delicato sistema dell’equilibrio tra poteri istituzionali.

Già il 4 di gennaio il ministro della Giustizia Yariv Levin (del Likud) – alfiere, insieme a Simcha Rothman (del Partito nazionale religioso nonché presidente della commissione parlamentare competente) del progetto di riforma – aveva annunciato i caratteri di fondo del progetto di legge. La coalizione di governo, pur sapendo che avrebbe incontrato una forte opposizione non solo negli altri partiti ma anche in una parte della società israeliana, confidava tuttavia sul fatto che l’evidente azione di supplenza politica assunta da una parte della magistratura potesse essere ridimensionata attraverso il ricorso allo stesso voto parlamentare. A tale riguardo, alzando i toni della polemica, molti esponenti della Knesset avevano parlato, in sé del tutto impropriamente, di una «dittatura giudiziaria», in accordo con la polemica che da sempre anima i populisti, non solo in Israele, contro ogni forma di potere non elettivo. Dopo di che, il panorama della discussione pubblica è velocemente cambiato, assumendo pieghe e indirizzi altrimenti impensabili. Da un legittimo dibattito sui poteri delle istituzioni di garanzia, si è passati ad uno scontro tra opposte visioni del mondo. La destra non si è avveduta del baratro che essa stessa andava scavandosi con le sue medesime mani. Probabilmente convintasi che il voto è tutto in una democrazia, quando quest’ultima, invece, si basa anche su molto altro. Una specie di auto-illusione, destinata a rivelarsi fragorosamente come tale in breve tempo.

Così pensando, non ha quindi capito la celere evoluzione degli eventi. Un fattore decisivo, al riguardo, è stata la scelta di azzerare ogni dibattito, nonostante le richieste, manifestate da più parti, e le perorazioni espresse da autorevoli istituzioni (prime tra tutte la presidenza dello Stato), a favore di una discussione sul merito dei contenuti del disegno di legge. Benché lo stesso Netanyahu pare fosse perplesso su una tale procedura, gli alleati di coalizione hanno infatti optato per non trattare, temendo anche che da ciò sarebbero potute derivare controproposte e, più in generale, il rischio di una minore compattezza dello schieramento a favore di una riforma radicale, riconosciuta come tale dai suoi stessi estensori.

Levin è stato quindi l’artefice principale di una road map senza tappe intermedie, forzando la già quasi inesistente discussione parlamentare, impedendo un qualsiasi confronto, invitando ad un’inesistente negoziazione (non essendo accennato neanche il merito di ciò che si sarebbe potuto eventualmente rivedere), accelerando l’iter complessivo e chiudendo infine a qualsiasi commento da parte della stampa. Ciò che ben presto ne è derivato, anche per voce degli stessi sostenitori della riforma, è stata quindi l’impressione che si volesse procedere per la via delle spallate allo stato di diritto. Così, quanto meno, è quel che una parte crescente della società israeliana ha iniziato a percepire, con crescente disagio. Un disegno di trasformazione quasi coatta e coercitiva dei delicati equilibri tra poteri.

Benché l’attuale esecutivo di destra sia sostenuto dalla maggioranza dei deputati della Knesset (64 su 120), più della metà degli elettori si sono espressi per le altre liste. Su 4.794593 cittadini che complessivamente sono andati alle urne (pari al 70,63 degli aventi diritto), hanno votato per i quattro partiti della coalizione 2.304964 israeliani. Il surplus di seggi è derivato dalla ripartizione dei medesimi secondo il sistema elettorale vigente nel Paese. Gli altri elettori hanno quindi visto nella radicalità delle procedure, e dei contenuti della riforma, un’evidente forzatura politica. Una percezione che è andata velocemente diffondendosi, tra gennaio e febbraio, posto che gli inviti a cercare un terreno di confronto, evitando lo scontro diretto in parlamento, sono immediatamente caduti nel vuoto. «Nessun compromesso» era lo slogan su cui la strategia d’azione della destra puntava per chiudere al più presto, con una clamorosa vittoria sul campo, la partita della riforma. A quel punto, tuttavia, le piazze si sono messe in movimento.

L’impianto ideologico sul quale la destra israeliana ha investito tutte le sue carte («noi siamo il popolo, noi lottiamo contro le élite di potere») ha quindi iniziato a scricchiolare. Il populismo del governo, e dei suoi sostenitori, si è improvvisamente trovato di contro una parte dello stesso popolo. A tale riguardo ha scritto Dan Perry su Israel.net/Ynet.news del 27 marzo: «in Israele, come in altri paesi, la destra si è tramutata dal conservatorismo di vecchia scuola in un movimento populista che per definizione si batte per mettere le masse contro coloro che hanno conseguito risultati e successo. Il che si collega al cinico presupposto che coloro che hanno successo sono sempre una minoranza, per cui istigare contro di loro è una tattica che garantisce tornaconto politico. Quando la destra populista fa appello ai nostri più bassi istinti e peggiori spiriti con idee orrende profondamente radicate nel suo DNA, quasi tutti coloro che hanno istruzione ed esperienza le rigettano. E’ una caratteristica costante, non un’anomalia: diversi studi negli Stati Uniti e in Europa mostrano che all’aumentare del livello di istruzione, diminuisce il sostegno alla destra populista. Ma i più istruiti sono, come previsto, una minoranza. Quindi la destra populista attacca dapprima la competenza e l’istruzione, poi i fatti stessi. […] Il che ci porta a Israele e al suo ottuso governo di estrema destra. La linea di fondo è che il governo vuole che il popolo, quando sente la parola élite, intenda “laici” o “ashkenaziti”. A un livello più micro, fomenta un conflitto titanico con chi ottiene risultati e successo e con chi è esperto praticamente in ogni campo».

Il timore che dietro un procedimento parlamentare si nascondesse un attacco alla democrazia ha quindi iniziato a prendere corpo. La tattica di attaccare le «élite», affermando che le risposte più astiose provenissero da esse, come tali decise a non perdere i propri privilegi, a quel punto non ha più funzionato. Così come qualsiasi tentativo di rettifica, ammesso che l’attuale maggioranza fosse ancora in grado di metterlo in campo, era già vanificato a priori dalla crescente mobilitazione. Così ancora Sara Haetzni-Cohen, già citata in esordio di articolo: «salta fuori che la coalizione di destra che abbiamo eletto e per la quale abbiamo pregato non capisce la portata del momento. Quasi ogni giorno ci ritroviamo con un’ennesima proposta di legge idiota o un’imbarazzante dichiarazione pubblica prodotta da questa coalizione. Continua ad allungarsi l’elenco dei disegni di legge gretti ed egoistici, il cui scopo è solo preservare il potere o servire interessi limitati. La legge sui doni [che consentirebbe regali incontrollati a dipendenti pubblici], la legge detta francese [che renderebbe immune il primo ministro dall’azione penale], la legge contro le registrazioni [che vieterebbe ai giornalisti di pubblicare registrazioni di politici senza consenso], la legge Deri [che consente a politici condannati di prestare servizio come ministri], la legge sul Dipartimento investigativo della polizia [che indebolirebbe la supervisione della polizia in caso di violenze degli agenti], la legge per prendere il controllo della Commissione elettorale centrale, la legge sul Muro Occidentale [che prevedrebbe condanne detentive per le donne vestite in modo non abbastanza morigerato nel luogo sacro di Gerusalemme], la legge sul lievito [che consentirebbe agli ospedali di vietare il cibo non kosher durante la Pasqua ebraica] e altro ancora». Ed ancora: «ci sono proposte di legge che sono populiste al punto da essere davvero pericolose, come quella sull’immunità per i soldati che in realtà consegnerebbe i nostri migliori figli e figlie nelle mani della Corte dell’Aia. Sembra che tutto venga fatto con leggerezza, con superbia e con arroganza, guidati dal capriccio e dal desiderio di avere i titoli dei mass-media per un momento. Parlamentari che abbiamo eletto per portare il cambiamento e un nuovo messaggio ci hanno procurato principalmente imbarazzo». L’impressione che se ne è ricavata da più parti è che la condotta politica fosse fuoriuscita non solo dalle righe della consuetudine parlamentare ma avesse preso un indirizzo decisamente eversivo. Nel complesso, ad oggi sono stati presentati quasi centocinquanta progetti o disegni di legge da parte della maggioranza tra i quali norme che, qualora fossero approvate, consentirebbero alla polizia di effettuare perquisizioni in abitazioni private senza un mandato

Benjamin Netanyahu, in un tale marasma, è apparso confuso e privo di un reale aggancio con la realtà. Benché fin dall’insediamento del suo settimo esecutivo avesse dichiarato che era impegnato a tenere «entrambe le mani sul timone» del governo, avallando e sottoscrivendo le condotte dei suoi ministri, nei fatti si è comportato secondo un criterio personalistico e autocratico. Nel caso controverso della legge sui doni a funzionari delle pubbliche amministrazioni e a politici, quasi da subito è parso a molti che ci potesse essere un suo calcolo di interesse personale. La celerità con la quale la proposta è andata avanti nella discussione in commissione competente e poi in aula, a molti è sembrata il calco di una legge ad personam, avendo interessi individuali in gioco (tra i quali quelli legati all’eredità di un cugino).

La goccia che ha fatto traboccare un vaso oramai stracolmo è stato il “licenziamento” di Yoav Gallant (a volte traslitterato con una sola T nel cognome), ministro della Difesa, già generale molto stimato, garante, tra le altre cose, della rappresentanza degli umori di una parte dell’esercito all’interno dell’esecutivo. «Re Bibi», dopo avere accolto con grande fastidio la richiesta, da parte di quest’ultimo, di congelare il processo di approvazione della legge di riforma, ha reagito a ciò che evidentemente ha vissuto come un atto di lesa maestà, con l’unico strumento che riteneva di avere a disposizione, ossia l’estromissione dal governo di  un uomo   Naturalmente, in una tale dinamica sono entrati anche altri fattori, tra i quali, se ne può stare certi, le pressioni che dalle componenti maggiormente radicali dell’attuale maggioranza si manifestano contro ciò e quanti esprimessero una qualche propensione alla mediazione. Anche per questa ragione è emersa, anche tra il pubblico dei suoi elettori, una nuova immagine del premier.

Sia sufficiente dare la parola, ancora una volta, al Times of Israel del 27 marzo scorso. Si tratta, infatti, di colui che «ha sistematicamente sventrato la democrazia interna e le istituzioni del Likud e che ora non tollera disaccordi nei ranghi del partito. Se Netanyahu ha davvero il controllo, sta diventando sempre più difficile – e non solo per l’opposizione – intravedere il vecchio Netanyahu liberale, sepolto sotto tutto questo caos. […] È possibile azzardare uno schema di base dell’opinione pubblica israeliana: una maggioranza significativa sembra sostenere un qualche tipo di riforma giudiziaria, ma una maggioranza significativa si oppone a questa specifica riforma promossa dal governo. Ad esempio, in un sondaggio del fine settimana del giornale economico Globes solo il 17% ha dichiarato di sostenere la riforma così com’è, mentre il 25% ha dichiarato di sostenere “alcuni dei suoi elementi” e il 43% si è detto completamente contrario alla riforma.

È poi evidente che nell’opposizione c’è molta preoccupazione e mobilitazione. Alla domanda se avessero partecipato personalmente a una manifestazione di protesta, ben il 19% degli intervistati ha risposto di sì: vale a dire un israeliano su cinque. […] È stato in questo contesto tumultuoso – con una base di attivisti di destra sempre più amareggiata e convinta che il governo, più che l’opposizione, abbia creato questo scompiglio, e di fronte a un crescente movimento di protesta a cui già partecipa attivamente un quinto della popolazione – che Netanyahu ha estromesso il suo ministro della difesa a causa del suo appello a sospendere l’iter di approvazione della riforma. È stato il catalizzatore che ha rivelato quanto potesse crescere il movimento di protesta. Twitter in ebraico ha iniziato a riempirsi di nuove voci: persone di destra, elettori del Likud, persino sostenitori delle riforme, improvvisamente stanchi del governo e disposti a prendere posizione. E la cosa ha avuto quasi immediata ripercussione nella sfera politica. “Abbiamo pagato un prezzo pesante” ha lamentato Miki Zohar, del Likud, per “non aver spiegato” la riforma. Reso cauto dalla sorte di Gallant, Zohar non ha chiesto un congelamento, ma ha esortato a sostenere Netanyahu se dovesse decidere per un congelamento. L’idea che il governo, e non la “sinistra” o gli “anarchici” accusati da Netanyahu, fosse responsabile del disastro è diventata improvvisamente ovvia per tutti. “Dobbiamo ammettere onestamente che abbiamo preso la direzione sbagliata – ha detto il ministro per gli affari della diaspora Amihai Chikli, del Likud – [poiché] il nostro errore non è nella urgente necessità della riforma, che è più necessaria ora che mai, ma nella sua attuazione”. Il ministro dell’economia Nir Barkat, pure lui del Likud, ha espresso un concetto simile: “sosterrò il primo ministro nella decisione di fermarsi e riconsiderare. La riforma è importante e la faremo, ma non a costo di una guerra civile”.

Alcuni opinionisti di destra tra i più favorevoli sono giunti alla stessa conclusione. E ora dove va la destra israeliana? Ha annunciato un drammatico cambiamento dell’ordine costituzionale del paese come si dichiara una guerra. Ha promosso una guerra-lampo nel corpo di un paese profondamente diviso, annunciando a gran voce l’intenzione di abolire basilari tutele liberali. È partita con una versione estrema della sua riforma, che alcuni dei suoi stessi sostenitori ora sostengono fosse una mera tattica ma che in pratica avrebbe vanificato la Corte suprema e smantellato la maggior parte dei pesi e contrappesi del sistema politico. Non ha aperto un dibattito, non ha dato ascolto, non ha cercato di convincere contrari e dubbiosi fino a quando la partita era molto avanti, finché non si è spaventato per i contraccolpi. Finché era troppo tardi. E ha fatto tutto questo in un paese dove i sondaggi rilevano un ampio sostegno a una qualche versione della riforma giudiziaria (ma non questa). Mai nella storia del paese, così tanto capitale politico e un successo elettorale conquistato con tanta fatica, sono stati così rapidamente e ampiamente sperperati. Ogni minuto trascorso dal 4 gennaio è stata una corsa testa a testa tra la precipitosa fuga in avanti legislativa di Levin-Rothman-Netanyahu e l’emorragia del capitale politico della destra. Tutto è ancora in alto mare. Nessuno sa esattamente dove approderanno le cose. Ma non importa chi vince la gara: il danno causato dagli ultimi tre mesi di follia e arroganza non sarà rapidamente riparato».

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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