Cultura
Geula Cohen e la destra radicale in Israele #1

Storia a puntate della “leonessa”, dalla clandestinità alla Knesset, a pochi giorni dalla sua scomparsa

Lei: «Sapevo che c’era il pericolo che il governo potesse restituire la terra. Per me non è terra. È la mia identità. Il mio futuro». E Moshe Dayan, su un foglietto di carta che, narrano le cronache dei bene informati, pare le abbia passato furtivamente: «Geula, come uomo che vede con un solo occhio, sono consapevole dei detti legati alla visione, ai ciechi, e così via. E su un argomento in particolare: nessuno è più cieco di chi non vuole vedere». Si stava arrivando all’accordo con l’Egitto per la restituzione del Sinai. Era nel 1978. Se ne stava parlando alla Knesset, il parlamento israeliano. Geula avrebbe detto, in una successiva intervista: «Posso vivere senza una mano, posso vivere senza un polmone; posso vivere senza una gamba, senza un occhio, senza due occhi, ma non posso vivere senza il mio cuore. Senza la mia anima. Puoi dirmi che si vive senza la “Palestina”. Ma la mappa della “Palestina” è nelle nostre anime». Questo dichiaravano, più di quarant’anni fa, l’una e gli altri. «Il fuoco che arde in Geula si è spento stanotte», ha invece detto il presidente d’Israele Reuven Rivlin, nei giorni trascorsi, elogiandola come «combattente per la libertà israeliana nel senso più profondo dell’idea, fonte d’ispirazione per me e per tutti noi». In immediato riflesso il premier Benyamin Netanyahu ha dichiarato che la sua voce comunque «non tacerà» poiché «conserveremo il ricordo della sua grande lotta per la libertà di Israele e la sua dedizione e amore per la Terra di Israele». Più volte è quindi risuonato il motivo «Hayelim Almonim» («Soldati anonimi»), scritto dal fondatore del Lehi, Avraham Stern, su cui avremo ancora modo di tornare.

Ma concretamente, di chi stiamo parlando? Al di fuori delle reazioni politiche immediate, scarsa eco ha raccolto la notizia della morte, il 18 dicembre scorso, di Geula (o Geulah, a seconda delle traslitterazione, un nome che significa «redenzione» come anche «liberazione») Cohen, oramai prossima al suo novantaquattresimo compleanno. Benché fosse molto conosciuta in Israele, terra nella quale era nata e della quale aveva concorso a fare una parte non secondaria della sua storia, già da tempo si era ritirata a vita privata. C’è chi soprattutto l’ha conosciuta come madre di Tzachi Hanegbi, esponente politico di rilievo del Likud (con un periodo di militanza in Kadima, tra il 2006 e il 2010), attuale ministro delle Comunicazioni, presente nella Knesset ininterrottamente dal 1988, ossia dalla dodicesima legislatura. Le generazioni più giovani, al di fuori del Paese, di fatto invece non hanno avuto modo di conoscere a fondo la storia personale di Geula Cohen. La quale, a suggello del suo trascorso ruolo politico, nel 2003 aveva ricevuto l’Israel Prize, il riconoscimento pubblico che le massime autorità dello Stato d’Israele annualmente, in occasione del Giorno dell’Indipendenza, assegnano a quelle figure che nei campi della letteratura, delle arti, della cultura, delle scienze, della comunicazione, dell’educazione degli studi giudaici e, non di meno, del «contributo alla nazione», si sono distinte nel corso della loro esistenza. Nel 2007, inoltre, aveva poi ottenuto un altro riconoscimento prestigioso, lo Yakir Yerushalayim (traducibile come «cittadino modello di Gerusalemme», trattandosi di un termine la cui radice deriva da un passo del Libro di Geremia, dove è posta la domanda: «è Efraim un caro (yaqir) figlio per Me?»). Come spesso capita, i premi ad un’intera carriera, in questo caso politica, sono al pari dei proverbiali guantoni appesi al chiodo, segnando di essa la sua conclusione, quanto meno sul piano dell’impegno attivo.

Nata a Tel Aviv il 25 dicembre 1925 in una famiglia di origine mizrachi, ossia di «ebrei orientali», Edot HaMizrach, comunità ebraiche di antichissimo ceppo dell’Est arabo-musulmano (ma anche di quello maghrebino), Cohen aveva mosso i suoi primi passi proprio durante l’era mandataria, quando l’area palestinese era sotto la diretta giurisdizione britannica, costituendone una sorta di prolungamento indiretto. Il padre era immigrato nell’Yishuv, l’insediamento ebraico-sionista, dallo Yemen, mentre la madre apparteneva ad una famiglia marocchina, proveniente quindi dal Nord Africa. Parte della sua passione, del suo impegno, della sua “devozione” nazionalista, Geula Cohen stessa riteneva provenisse dal suo background ebraico orientale. In altra parte, tuttavia residua, lo attribuiva anche all’essere una donna, senza paura di esprimere i suoi sentimenti. Ma soprattutto, affermava, ciò che era divenuta lo doveva al fatto che suo padre fosse stato un organizzatore politico. Quindi, chiosava, «per tutta la vita ho avuto una mentalità politica. Tre volte al giorno quando andavamo a tavola, abbiamo ringraziato Dio, non solo per il nostro pane ma per Gerusalemme, per la Terra Santa e per avere portato il popolo in Israele. Non abbiamo chiesto nulla per noi stessi. Sono stato cresciuta con la storia di questa terra. Tutti gli eroi di Israele sedevano con noi al tavolo. Faceva parte del nostro pane, una parte della vita di tutti i giorni».

Negli anni della formazione – interrotti durante il secondo conflitto mondiale e successivamente ripresi – Geula aveva studiato al Levinsky Teachers Seminary (scuola di eccellenza per la formazione di insegnanti, sorta nel 1911 a Neve Zedek, poi trasferita in prossimità della città marittima di Yafo ed adesso nel centro di Tel Aviv), per poi ottenere un master di Studi ebraici (letterature, filosofia e biblistica) all’Università di Gerusalemme. Un curriculum tipico di chi, fin da piccolo, aveva mangiato il pane della vita lavorato con il lievito della militanza sociale e politica. Per ben cinque legislature (tra il 1973 e il 1992) è quindi stata membro del Parlamento israeliano, prima nel Likud e poi nel partito Tehiya («rinascita»), quest’ultimo conosciuto anche come Banai, un acronimo di «Alleanza dei lealisti per la terra di Israele», ovvero Tehiya-Bnai, formazione ultranazionalista.

In un primo tempo, giovanissima, intorno ai dodici anni, divenne membro dell’organizzazione giovanile Betar (per meglio dire Be-TaR, acronimo di «Brit Trumpeldor», ossia l’«Alleanza Trumpeldor»), l’organizzazione pionieristica nazionalconservatrice che si rifaceva all’esempio del sacrificio di Yosef Trumpeldor, morto nel 1920, insieme ai suoi compagni di lotta, nella difesa dell’insediamento di Tel Hay dall’assalto di un gruppo di arabi. Fondata nel 1923 e affiliatasi al movimento revisionista, aveva il suo centro, antecedentemente alla Seconda guerra mondiale, in Polonia, negli Stati baltici e, in misura però minore, nella stessa Palestina. I suoi aderenti, al 1939, si stima fossero intorno agli 80mila. Con la formazione di altre organizzazioni militanti di destra, il Betar ne divenne strumento di reclutamento, pur essendo dichiarato illegale dalle autorità mandatarie. Durante la guerra partecipò alla lotta contro i nazisti e dopo la nascita dello Stato d’Israele fondò più di 20 colonie rurali. A tutt’oggi mantiene una presenza diffusa in alcuni paesi, occupandosi della formazione giovanile.

Ricorda Cohen: «La prima canzone che cantammo fu “Ci sono due lati del fiume Giordano, questo è mio e l’altro è mio”. L’abbiamo cantata giorno e notte, la Giordania non era il nome di un paese, era il nome di un fiume che tagliava la nostra terra a metà. Questa canzone diventa parte del tuo sangue. Quando canti non puoi mentire. Quando parlo, mento qua e là, ma mai quando canto». Geula Cohen nel 1942, ancora giovanissima, entrò quindi nell’Etzel, acronimo di Irgun Tzvai Leumi (Hairgun Hatzvai Haleumi be-Eretz Yisrael, «Organizzazione militare nazionale nella Terra d’Israele»), conosciuto anche come Haganah Bet («seconda difesa»), il movimento sionista di matrice revisionista, organizzato come una milizia paramilitare, che operò attivamente contro la presenza britannica durante il mandato tra il 1931 e il 1948. Per la verità ci rimase pochissimo, transitando velocemente verso la sponda del Lohamei Herut Israel (l’acronimo è Lehi, o Lechi, indicando i «Combattenti per la libertà d’Israele»). All’interno di questa organizzazione, considerata a pieno titolo dalla potenza mandataria come una struttura terroristica, Geula Cohen, che aveva nel mentre affinato un’apprezzata (e indispensabile) qualità, quella di esprimersi in un ebraico fluente, svolse perlopiù il ruolo di addetta alle comunicazioni attraverso la rete radiofonica clandestina, strategica per i contatti operativi. Imprigionata dai britannici nel 1946, condannata a più anni di pena, riuscì ben presto a fuggire dall’ospedale della prigione di Betlemme, dove era temporaneamente ricoverata. Si rigettò quindi nella lotta senza quartiere contro gli «occupanti», la pontenza mandataria, la controparte araba – con la quale a quel punto era in atto un confronto senza quartiere – ma anche nei confronti della maggioranza sionista di indirizzo socialista e socialdemocratico. Il nazionalismo della Cohen avrebbe sempre fatto a pugni con quella maggioranza politica che fino alla seconda metà degli anni Settanta resse le sorti del giovane Paese.
Di nuovo arrestata dagli inglesi, fu quindi condannata a nove anni di detenzione per possesso di materiali di trasmissione e di un discreto arsenale di munizioni. Nel mentre la condanna veniva emessa, in segno di rifiuto nei confronti della corte ma anche per farsi coraggio reciprocamente, lei ed una trentina di suoi sodali, a partire dalla madre, si misero a cantare l’Hatikva, futuro inno nazionale d’Israele. Un anno dopo, era già di nuovo fuggita, per riparare nel villaggio di Abu Ghosh (conosciuto come Qaryat al-Inab), collocato ad una decina di chilometri di distanza ad ovest di Gerusalemme, posto in prossimità dello snodo viario strategico che collega la città alla costa e a Tel Aviv.
La storia di quella piccola comunità, composta in stragrande maggioranza da arabo-musulmani (non più di un migliaio), è peraltro significativa poiché durante il trienno tra il 1946 e il 1948, di fatto, dei trentasei villaggi arabi della zona, fu l’unico a rimanere neutrale nel conflitto in corso. Gli esponenti locali del Lehi erano in buoni rapporti con il mukhtar, il capo del villaggio. La qual cosa, se ha fatto sì che Abu Ghosh divenisse nel corso del tempo quello che è stato poi celebrato come un modello di coesistenza tra arabi ed ebrei, è non meno vero che nei decenni immediatamente successivi alla Guerra d’Indipendenza, fosse visto dalla leadership sionista maggioritaria, quella laburista, come un’entità per nulla omologabile ai propri interessi, avendo intrattenuto (e coltivato) legami con la componente nazionalista del campo ebraico. Di quel periodo di cattività – quando si travestì da «araba» (anzi, fu travestita dagli abitanti del villaggio) e poi delle successive mosse – Cohen ricorda, in un’intervista-ritratto del 1978, rilasciata a Sally Quinn del Washington Post, che «mi sono tinta i capelli di biondo, mi sono messa gli occhiali, mi sono tirata indietro i capelli, ho indossato i tacchi alti. Sono cambiata del tutto. Anche mia madre non mi ha riconosciuto. Quando sono tornata al microfono [per il Lehi] il colore dei miei capelli era cambiato, ma io non avevo cambiato il colore della mia voce. Sembravo una signora ma parlavo come una combattente». C’erano poche donne nel «gruppo» di comando e, dice Cohen, chiedevano sempre di partecipare alle azioni, ai combattimenti. «Sapevo che avrei potuto contribuire di più nella trasmissione. Non sono una femminista. So che gli uomini fanno alcune cose meglio di me ed io faccio alcune cose meglio di loro; non ho nessun complesso di inferiorità. Quindi ho continuato le mie missioni ma non ho mai sparato; non sono mai stata in un’azione violenta».

Prendiamo tuttavia una pausa dalle vicende giovanili di Geula Cohen per analizzare invece in quale contesto esse si manifestarono. Ovvero, quale fosse la cultura politica di cui lei stava divenendo un’esponente di primo piano. La questione del Lehi è infatti uno snodo centrale nella storia della nascita d’Israele, poiché l’organizzzione si fece conoscere negli anni del declinante mandato britannico sulla Palestina, quando la lotta tra gli inglesi e l’insediamento sionista si era resa particolarmente aspra, senza esclusione di colpi.

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D’abitudine le autorità mandatarie definivano il gruppo come «Banda Stern», dal nome del suo fondatore, Avraham «Yair» Stern. Nato in Polonia nel 1907 e trasferitosi nella Palestina britannica nel 1925, dopo avere studiato all’Università ebraica di Gerusalemme, specializzandosi in lettere classiche, Stern aveva aderito in un primo tempo al Partito revisionista di Jabotinsky, così come all’Irgun Zvai Leumi. Sensibile alle tematiche nazionaliste e all’attivismo dei circoli antisocialisti, assurse ben presto a leader, insieme a David Raziel, della componente più radicale dell’Irgun. Nel 1937, dopo una scissione interna, i circa millesettecento aderenti rimasti nelle file del gruppo diedero corso ad una lunga campagna di violenze antibritanniche.
Nel settembre del 1940 nacque quindi il Lehi. Avraham Stern ne era l’ideatore e il capo carismatico, sulla scorta di una piattaforma politica che faceva del ricorso in misura sistematica alla violenza contro gli inglesi la risorsa prima, ma anche l’obiettivo politico più importante, dell’operato dell’intero gruppo. All’indipendentismo e al nazionalismo, che erano alla radice del progetto di costituzione di una patria ebraica condiviso con le altre forze politiche, per il Lehi si legava quindi la duplice questione dei mezzi e degli obiettivi. I primi rimandavano al terrorismo come strumento legittimo, i secondi identificavano nella potenza mandataria il vero target contro il quale scagliare tutte le proprie energie, ben prima delle stesse popolazioni arabe locali, verso le quali il revisionismo radicale nutriva semmai un atteggiamento ambivalente, sospeso tra comprensione e rifiuto. Alla miscela tra diplomazia e forza, astuzia e calcolo, del sionismo laburista il Lehi sostituiva quindi lo scontro diretto, considerando la mediazione una falsa via d’uscita dal controllo della potenza mandataria. Per il revisionismo radicale, lo spirito al quale ispirarsi rimandava all’attivismo vitalistico che, nell’immaginario traslato dei contemporanei, aveva accompagnato l’antica sollevazione ebraica contro il dominio romano e, in tempi molto più recenti, l’operato dell’anarchismo rivoluzionario russo così come dell’indipendentismo irlandese. Radice comune di questi fenomeni storici, altrimenti molto diversi tra loro, era la considerazione della forza armata come fattore risolutivo del confronto tra opposti interessi e, nel medesimo tempo, come strumento educativo nella formazione di una nuova comunità nazionale. A modo suo il Lehi, la cui traiettoria non durò più di otto anni, si poneva un duplice problema: da un lato quello di liberare una terra dalle presenze “ostili”, dall’altro anche di formare un popolo, considerato ancora troppo fragile per dare corso da sé ad un percorso di national building, ossia di costruzione della nazione. Una commistione di romanticismo e di rivalsa animava quindi le scelte e i comportamenti del gruppo, che agiva secondo logiche inesorabilmente cospirative, essendo messo al bando dai britannici e venendo considerato al pari di una variabile ingovernabile da parte della leadership bengurioniana.

(Continua)

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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