Cultura
Geula Cohen e la destra radicale in Israele #2

Seconda puntata – dall’epoca mandataria alla nascita dello stato di Israele

Seconda puntata del lungo approfondimento sulla destra radicale in Israele, a artire dlla morte di Geula Cohen, mancata il 18 dicembre scorso. Nella prima parte abbiamo narrato i primi anni della sua vita, dalla nascita, avvenuta nel 1925 a Tel Aviv, fino alla sua militanza nei movimenti dell’Igur e del Lehi, di cui qui si raccontano le vicende fino allo scioglimento

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Se la lotta e il sacrificio dei patrioti irlandesi, raccoltisi intorno a James Connolly, ispiravano i sentimenti di sacrificio e devozione – che all’atto concreto portarono alla piena legittimazione degli esercizi di terrore contro gli avversari – nessun pensiero strategico stava invece alla base di un operato che non riusciva a spingersi oltre all’atto di mera forza. Nel più puro stile vitalistico, che enfatizzava la lotta per la lotta, Avraham Stern, già fortemente impressionato dal fascismo, durante il periodo di studi trascorso nella Firenze degli anni Trenta, riteneva che sarebbe stato l’”esempio creativo” a costruire le circostanze dell’evoluzione del quadro politico palestinese. Si trattava di una perenne impazienza che legittimava la violenza come elemento risolutivo di tutte le contraddizioni politiche. Da qui la contiguità del Lehi con certi temi della destra radicale europea negli anni del totalitarismo. Della quale, in altri termini, si assumevano certe premesse soreliane, quelle che identificavano nel movimento di massa e nella mobilitazione collettiva due cardini del cambiamento, insieme all’importanza che era attribuita alla cosiddetta «tradizione», un impasto di simboli e miti che sarebbero stati alla base della legittimazione del risorgimento ebraico. Il ricorso alla forza era inteso come ciò che avrebbe operato da levatrice alla storia ebraica, coniugando orgoglio a riscatto, intransigenza a potenza. Gli echi di Nietzsche (e di un certo darwinismo sociale che aveva maturato il suo successo nella crisi di fine Ottocento del positivismo) erano qui tanto più corposi dal momento che la forza fisica era indicata come il suggello tangibile della volontà e quest’ultima come il segno incontrovertibile di una superiorità inscritta nelle cose e nei fatti. Gli schiavi, poste queste premesse, non avevano ragione di continuare ad esistere, né a rivendicare la propria emancipazione, se il presupposto al quale si ispiravano non fosse stato quello di liberarsi dalle catene con le proprie energie e null’altro. La forza è ragione e la ragione sta dalla parte del forte, in altre parole. Dopo di che, a questa secca impostazione, assai scarsamente elaborata sul piano dottrinale, si aggiungevano richiami al modello di partito leninista, al contempo organizzazione di quadri rivoluzionari e punta di diamante della coscienza collettiva, insieme alla declinazione in chiave socialisticheggiante dei motivi economici, tutti declinati in chiave antiborghese. L’antimperialismo era infine un valido collante, laddove permetteva di identificare nella presenza britannica non solo il segno dell’oppressione sugli ebrei ma anche l’ago della bussola grazie al quale orientare un discorso che prendesse in considerazione il problema del rapporto con il preponderante mondo arabo.

A quest’ultimo ordine di considerazioni apparteneva la velleitaria aspettativa che rimandava ad una concatenazione di sollevazioni nazionalistiche il ridisegno politico dell’area mediterranea e mediorientale, destinata così a liberarsi della presenza dello “straniero oppressore”, identificato tout court con gli inglesi, e a permettere allo Stato degli ebrei di esistere in sicurezza e continuità. Agli ebrei l’intera Palestina mandataria, agli arabi il resto. Gli scopi di fondo, rinviavano peraltro alla «redenzione della terra», alla «restaurazione del Regno» e alla «rinascita della nazione», il tutto inserito all’interno di una visione che faceva della storia il luogo in cui un provvidenzialismo laico di lunga durata avrebbe avuto la sua piena e definitiva realizzazione poiché attuazione di un disegno tanto antico quanto necessario. Se da una parte il linguaggio adottato era fortemente debitore della religiosità ebraica, la sua sintassi politica, ovvero la sua traduzione in atti concreti, ridefiniva integralmente il confine tra escatologia messianica e attivismo laico, a favore del secondo, soprattutto laddove le suggestioni mazzianiane, basate sulla centralità dell’azione cospirativa, sembravano avere la meglio su tutto il resto. Rimane il fatto che tale tipo di concezione di fondo, fortemente connotata sul piano del messianesimo redentivo, rendeva rigido il Lehi, privandolo di quegli spazi di contrattazione e di mediazione che ogni movimento che voglia essere politico deve necessariamente disporre per potersi dotare di un necessario margine d’azione. Anche da questa impostazione di origine, tutta protesa a definire il fine – lo Stato d’Israele in quanto «terra d’Israele», ossia «Eretz Israel nei confini definiti dalla Bibbia», inteso come una sorta di compimento della volontà superiore (che non coincideva con Dio ma con una sorta di Super-Ego, quello dei militanti del movimento) -, derivarono quindi i tentativi, politicamente disastrosi, di stabilire dei contatti con la Germania di Hitler, nell’ipotesi, in sé surreale, di negoziare una divisione dei ruoli per la quale, dopo la cacciata degli odiati britannici, si sarebbe costituita una comunità politica ebraica in buoni rapporti con le potenze dell’Asse. Inutile dire che anche solo l’attenzione di queste ultime per le rivendicazioni arabe, insieme al loro viscerale antisemitismo, costituivano già una barriera invalicabile.

Nel dicembre del 1940 la missione di un incaricato di Stern, che si incontrò in Libano con due diplomatici nazisti, avendo l’incarico di esporre l’ipotesi di una soluzione definitiva della «questione ebraica» che avrebbe comportato la nascita di una Palestina ebraica, evidentemente acquiscente all’Asse, si infranse contro i dati di fatto. Peraltro il Lehi, che nel momento della sua maggiore espansione arrivò a contare non più di trecento militanti, fu in tutta la sua breve esistenza accompagnato dal binomio tra irrazionalismo e velleitarismo. Lo sbocco della lotta armata che si faceva atto terroristico era quindi per più aspetti obbligato, dal momento che il gruppo non si prefiggeva di ricorrere all’azione politica ma, piuttosto, all’evento dimostrativo. Dopo la morte di Avraham Stern, ucciso dalla polizia britannica nel 1942, e la conseguente riorganizzazione del piccolo movimento sotto il triumvirato di Natan Yellin-Mor, Israel Eldad e Yitshak «Michael» Shamir (il nom de plume era in omaggio all’irlandese Michael Collins, leader della rivolta indipendentista contro Londra), l’attenzione verso i temi più tradizionali della sinistra (il rapporto con gli arabi, l’antimperialismo, una condiscendenza più o meno esplicitata all’ipotesi di un intervento diretto dello Stato in campo economico), ebbe il sopravvento.
Rimaneva tuttavia l’approccio che trovava nell’agire eversivo e nell’omicidio politico le matrici di fondo e l’ispirazione di principio dell’identità del gruppo. Si trattava del ricorso al «terrorismo personale», che implicava colpire sì obiettivi specifici, quasi esclusivamente gli inglesi e quegli ebrei considerati eccessivamente collaborativi con le autorità mandatarie, senza però curarsi troppo degli eventuali effetti collaterali (vittime innocenti, intensificazione della repressione inglese, montante avversione araba). L’assassinio del ministro residente per il Medio Oriente del governo britannico, Lord Walter Guiness di Moyne, il 6 novembre 1944, gesto condannato dall’Yishuv, segnò, come spesso capita nei movimenti cospirativi basati sulla lotta armata, nel medesimo tempo l’apogeo e l’avvio del declino. Contava, in questo secondo caso, la diffidenza, spesso sconfinante nell’ostilità, che il movimento sionista nel suo insieme andava maturando verso un gruppo visto come composto al pari di pericolosissimi provocatori, completamente irragionevoli e autoreferenziali. Peraltro il ricorso all’omicidio politico era ancora una volta ben lontano dall’essere l’indice di una strategia precisa, rivelando semmai la debolezza che accompagnava l’intero Lehi, il cui gruppo dirigente avrebbe invece ambito ad assumere il controllo dell’Irgun e, di conseguenza, dell’intero fronte revisionista, venendone nei fatti – invece – non solo impedito ma del tutto isolato.
Nel dopoguerra, quando il conflitto con gli inglesi, come anche con la popolazione araba, andò esacerbandosi, assumendo i toni di un vero e proprio confronto colpo su colpo, destianto a sfociare, nel 1948, in una guerra combattuta contro le truppe degli Stati confinanti, il movimento che era stato fondato da Stern perse ulteriore aderenza e rilevanza, venendo letteralmente travolto dell’evoluzione delle cose. A questo punto la costituzione dell’Yishuv in una comunità politica indipendente e la nascita di Israele decretarono la consunzione di tutti i residui spazi di azione per chi si era impegnato nella sola lotta antibritannica, assumendo atteggiamenti di aperta rottura con gli organismi del sionismo maggioritario. Se già l’attentato all’hotel King David del 22 luglio 1946, opera congiunta dell’Irgun e del Lehi, che determinò la morte di 91 persone, aveva causato la riprovazione di buona parte degli esponenti della comunità ebraica palestinese, ancora maggiori furono i dissensi causati dal massacro di Deir Yassin, dove il 9 aprile 1948 gli uomini dei due gruppi uccisero almeno un centinaio di abitanti dell’omonimo villaggio.
L’ultimo gesto di un qualche rilievo da parte di quello che restava del movimento, dopo che era stato formalmente sciolto e i suoi componenti, ricevuta l’amnistia o il perdono giudiziale, inquadrati come quadri combattenti nelle costituende Forze di difesa israeliane, fu l’assassinio del conte Folke Bernadotte, inviato come mediatore dell’Organizzazione delle Nazioni Unite nel conflitto in corso tra arabi e israeliani. Era l’estremo tentativo, attraverso un colpo di coda eclatante, di mantenere un profilo organizzativo autonomo, ancorché residuale, inserendosi soprattutto nell’aspra battaglia in corso per il controllo di Gerusalemme e delle vie d’accesso. Si trattava di meglio negoziare il proprio ruolo nel nuovo Stato. Non ne sarebbe tuttavia derivato pressoché nulla, poiché la storia era già un passo oltre questi protagonisti underground, piegati, nella loro utopia violenta più al passato che non al presente di una nazione che, pur tra mille travagli, stava nascendo.

Fin qui la grande storia, quella che assorbe, e a volte divora, i singoli personaggi. Di quando gli inglesi se ne furono andati, con la conclusione della guerra d’Indipendenza del 1948-49 e la nascita dello Stato ebraico, Cohen dice: «Stavo piangendo nel mio cuore. Era uno Stato senza Gerusalemme, senza il cuore della Palestina. La nostra storia è stata tagliata. Tagliare la nostra storia significa che devi tagliare tutti i nostri libri di preghiere, tutte le nostre canzoni. Tutte le nostre poesie. Avevamo molte domande filosofiche a cui rispondere. Perché non abbiamo continuato a combattere in Giordania per liberare la terra che avevamo?». La risposta non le sarebbe mai arrivata, men che meno molti anni dopo.

(Continua)

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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