Aiutare gli altri è un atto di giustizia che richiede grande consapevolezza. Il percorso di formazione necessario secondo il codice halakhico Mishnè Torà
I costi della pandemia non sono stati ancora quantificati ma certamente, alla fine, alcune persone e famiglie saranno molto più povere di altre e il ‘senso di povertà’ percepito sarà persino peggiore della povertà effettiva. Il tema dell’impoverimento concerne la sfera dell’etica pubblica, e il giudaismo ha molto da dire su questa sfera. Non lasciamo che le tematiche della giustizia economica e della solidarietà sociale, specie in tempi di pandemia, diventino monopolio della religione maggioritaria. La Torà resta il manifesto-base di ogni moralità pubblica, come rav Jonathan Sacks z.l. ci ha ricordato nel suo ultimo libro. Suggerisco pertanto di riflettere su questo tema a partire da Mosè Maimonide, più precisamente dal suo codice halakhico Mishnè Torà – la giustizia economica è un tema di halakhà – ossia le Hilkhot matenot ‘aniim, traducibile prima facie come “Norme per i doni ai poveri”. Si trova nel libro VII, il sefer zeraim o delle sementi, che riguarda la vita economico-produttiva (che nel XII secolo era imperniata naturalmente sull’agricoltura) e dove sono trattati argomenti come la tassazione (le decime), le offerte al tempio per i bisogni di sacerdoti, leviti e poveri, e le regole circa gli anni sabbatici e giubilari. Per Maimonide e tutta la tradizione rabbinica non vi è una netta separazione tra doveri verso Dio e doveri verso il prossimo: dai primi discendono i secondi, consequenzialmente, e quasi tutti i precetti della Torà hanno un qualche risvolto etico.
Al capitolo X del suddetto trattato leggiamo che esistono otto livelli di tzedaqà, ciascun livello con un grado di valore superiore all’altro (gerarchizzare i doveri aiuta pedagogicamente ad assumerli tutti in modo graduale e sempre più profondo). Ma va anzitutto ricordato che la tzedaqà, secondo la tradizione ebraica e segnatamente secondo l’halakhà, non è un mero gesto filantropico ma un atto di giustizia, e che i ‘doni ai poveri’ sono legalmente considerati come ‘proprietà dei poveri’. Secondo rav Joseph Soloveitchik ciò equivale al più radicale dei principi socialisti! Dunque, il livello più alto di tzedaqà, spiega il Rambam, è quello di aiutare (machaziq) un altro ebreo che diventa povero, dandogli un aiuto finanziario o facendogli un prestito oppure associandolo [in un’attività lavorativa] oppure procurandogli un lavoro, così da renderlo auto-sufficiente (lechazeq et iadò) ed evitare che debba chiedere qualcosa ad altri per sostenersi. Il primo livello è dunque aiutare ad aiutarsi, dare gli strumenti perché ne vanga fuori con le proprie forze, come la radice dei verbi ch.z.q. evidenzia. Il secondo livello è quando un benefattore non conosce colui che beneficia del suo dono, e viceversa un beneficiato non conosce il suo benefattore: è il caso della ‘carità’ che si fa in segreto, come puro atto religioso, e che va fatta quando si sa che i fondi raccolti sono in mani affidabili e andranno davvero ai poveri. Il terzo livello è quando il benefattore conosce il beneficiario ma non viceversa. Maimonide ricorda che i grandi maestri del passato usavano andare di nascosto a mettere il loro aiuto direttamente all’ingresso delle case dei poveri (specie se non si fidavano degli amministratori preposti a ciò). Il quarto livello è il contrario, quando il beneficiario conosce il benefattore ma non viceversa. Anche qui, alcuni maestri mettavano i soldi in una sacca aperta sulla propria schiena e il povero poteva attingere senza essere riconosciuto.
A stadi di valore inferiori, ecco il quinto livello: quello del donatore che mette l’aiuto nel palmo della mano del povero senza che questi abbia chiesto. Al sesto livello c’è il donatore che mette l’aiuto nel palmo della mano del povero che lo abbia sollecitato. Il settimo livello è quello di chi dà ma meno di quanto dovrebbe dare, tuttavia dà al povero con un sorriso (be-seder panim iafot). L’ultimo, ottavo livello – il più basso di valore – è quello di chi dà al povero a malincuore (be-‘etzev), letteralmente ‘con tristezza’. Poi il Rambam passa a esortare il povero a non essere passivo, a non adagiarsi sulla generosità altrui e diventare dipendente da altri: se povero, neppure uno studioso dovrebbe disdegnare il lavoro manuale, pur di non restare nella condizione di indigenza (vi sono molti esempi, nel Talmud, di grandi maestri che per sostenersi favecano lavori manuali assai umili, come i boscaioli o i fabbri o i carbonai). Infine, chi prende dei benefici senza averne effettivamente bisogno è come se rubasse ai poveri e merita la peggior incriminazione; di contro, chi ha davvero bisogno e non chiede (per troppo orgoglio), rischiando la vita propria e della propria famiglia, si rende parimenti colpevole in modo grave.
Maimonide aveva anche sottolineato, prima dell’elenco degli otto livelli, che colui che fa tzedaqà a un povero con atteggiamento ostile o volgendo la faccia da un’altra parte, perde il merito della sua tzedaqà, anche se il suo dono fosse molto generoso. In sintesi, si evince che “il sentimento interiore – la dimensione soggettiva dell’atto di giustizia che compiamo aiutando il prossimo – con il quale ci connettiamo al beneficiario è una componente essenziale della tzedaqà” scrive rav Soloveitchik. Certo, dare con il sorriso o dare nella tristezza adempie egualmente al precetto di dare; nondimeno gli otto livelli – otto come i capitoli che introducono ai Pirqè Avot nel commento maimonideo – sono lì a ricordare che il cuore deve in qualche modo partecipare all’atto che si compie; e come esiste un valore oggettivo dell’atto, esiste anche un valore soggettivo del cuore che quell’atto compie, esiste cioè un coinvolgimento emotivo e affettivo, che spesso trascuriamo e che invece, proprio nella sintesi maimonidea dell’halakhà, viene ricordato come non meno importante dell’atto razionale, del fatto in sé. L’halakhà mira a unificare mente e cuore, oggettività e soggettività, individuo e comunità, elevando in questo caso chi dà e chi riceve a una dimensione di santità che l’avere troppo (senza voler condividere) o l’avere troppo poco (senza poter condividere) non favorisce. Non v’è dunque santità senza la giustizia e senza l’integrità morale, e la tzedaqà è base per entrambe.
In attesa di conoscere il prezzo vero di questa pandemia, e mentre si fa molta retorica sulla fratellanza universale, le indicazioni etico-pratiche del Maimonide sono di stimolo a sentire non il bisogno ma il dovere morale e religioso di aiutare, economicamente ma anche psicologicamente, chi è in difficoltà – con parole e gesti che la tradizione chiama ghemilut chasadim – mostrando come chi nel giudaismo vive di valori ebraici ben conosce questo ‘pilastro’ della Torà e del mondo (cfr. Avot I,2). “Lo sforzo di cooperazione tra esseri umani è la forza motrice più potente nello sviluppo sia dell’individuo sia di una società. Ma solo una persona che ne è consapevole si sentirà, di conseguenza, indotta a compiere i propri doveri al riguardo” (rav Soloveitchik).
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma