Hebraica Nizozot/Scintille
I cinque nomi della festa di Shavuot. Più uno…

… Quello del patto reciproco tra uomo e Dio. Significati e interpretazioni di una festa fondamentale

Nel calendario liturgico ebraico Shavu‘ot è la ‘festa delle settimane’, stabilita sul calcolo (complesso, e che divise a suo tempo sadducei e farisei) delle sette settimane dopo l’inizio di Pesach e celebrata nel cinquantesimo giorno. Nella Torà ha più nomi. In Shemot/Es 23,16, nel contesto di un riassunto delle feste più importanti, viene chiamata Chag ha-qatzir bikurè ma‘asèka cioè “festa della mietitura delle primizie del vostro lavoro”, un diretto riferimento alla mietitura del grano sebbene si parli in generale di primizie del lavoro. Dentro questo secondo nome ce ne sta già il terzo, che ricorre in Bemidbar/Nm 28,26 dove si chiama Jom ha-bikurim, giorno delle primizie. Era infatti il giorno in cui quest’ultimo raccolto veniva a sua volta offerto in forma di farina per le necessità del tempio: venivano fatti i pani a disposizione dei sacerdoti e per le necessità dei poveri.
Oltre ai tre nomi biblici questa festa ha ancora due nomi rabbinici. Uno è ’Atzereth (in aramaico ’atzartà) che vuol dire ‘completamento’ o ‘conclusione’ della festa di Pesach. Un quinto nome si trova nella liturgia sinagogale e viene ricavato in qualche modo dai contenuti storico-teologici della festa: zman mattan Toratenu, ossia “il tempo del dono della nostra Torà”. Il primo giorno di Shavu‘ot nelle sinagoghe si leggono brani biblici da due sifrè Torà, tra cui Shemot/Es 19-20 cioè il decalogo (questo brano costituisce l’apice della rivelazione e perciò, in segno di massima attenzione, ci si alza e si sta in piedi).
Secondo il rabbino Elia Samuel Artom (1887-1965) z”l, la festa di Shavu‘ot rappresenta il più grande avvenimento dell’esistenza ebraica perché celebra “l’elevazione di Israele da parte di Dio e la sua consacrazione a sacerdote e maestro: da quel giorno Israele cominciò ad avere coscienza della sua missione e ad essere istruito intorno alla via che deve percorrere per poter adempiere a questa missione”. A Pesach Israele è come un ragazzo che si apre alla scoperta del mondo ed è inebriato dalla (ri)trovata libertà, ma che non sa ancora bene cosa fare della vita; ma a Shavu‘ot avviene simbolicamente il suo bar mitzwà: riceve il dono della Torà dicendo na‘asè ve-nishma‘, “faremo e ascolteremo”. Come il bar/bat mitzwà è la festa in cui il ragazzo/la ragazza si assumono la responsabilità dell’osservanza della Torà diventando figli della Legge, così Shavu‘ot è la festa che ricorda il giorno in cui gli ebrei, nel deserto, diventarono adulti perché accolsero i precetti. Infatti Pesach, festa bellissima, è tuttavia incompleta se non viene orientata a Shavu‘ot, momento dell’assunzione della responsabilità dell’alleanza ovvero della Torà in tutti i dettagli. Così si spiega anche il conteggio dell’omer: contare i giorni crea attesa e instilla l’amore per qualcosa di importante che sta per venire.

Questi 49 giorni sono altrettanti gradini di purificazione, di preparazione spirituale al dono della Torà. Solo al termine del conteggio si comprende l’ultimo nome di questa festa: zman mattan Toratenu. Attenzione, il nome non è zman mattan Torà ma è zman mattan Toratenu: “il tempo del dono della nostra Torà”. L’aggettivo possessivo fa la differenza. Infatti, un dono si può dare ma chi lo riceve può restare totalmente passivo; questo dono va accolto ed elaborato; non basta ricevere la Torà, occorre che diventi Toratenu e farla ‘nostra’ studiandola e osservandola, altrimenti resta la Torà di Dio o di Mosè, ma non nostra. Ci deve essere, per ognuno, il momento in cui, come durante il bar/bat mitzwà, la facciamo nostra. Il dono passivo deve diventare dono attivo, attivato, e lo strumento per appropriarsi della Torà e trasformarla in Toratenu è lo studio.
Per questa ragione la notte tra le due giornate di Shavu‘ot dev’essere una notte di studio. Tecnicamente si chiama tiqqun lel Shavu‘ot, la ‘riparazione’ della notte di Shavu‘ot. Ma perché chiamarlo tiqqun e non semplicemente limud o talmud, come sarebbe logico? Sembra quasi che il dono della Torà, senza lo sforzo del nostro studio, manchi di qualcosa, come se – kyviakol, se così potessimo dire – la Torà fosse difettosa o incompleta o rotta, e avesse bisogno di essere aggiustata, riparata. L’importanza di tale studio si intuisce anche dal fatto che, in passato, a partire da Shavu‘ot si cominciava ad insegnare l’alef-beth, l’alfabeto, ai bambini di cinque anni. Infatti senza conoscere l’alfabeto non si può studiare e ascoltare la Torà, non si può metterla in pratica, e dunque è soltanto a partire dall’alfabeto che la Torà può diventare Toratenu.

In tale contesto è poi tradizione leggere per intero la breve meghillà di Ruth. Perché si legge questo testo? La storia di Ruth è ambientata all’epoca della mietitura del grano e Ruth è chiamata ‘la spigolatrice’. La Torà prescrive che “quando mieterai il tuo campo non tornerai indietro a raccogliere le spighe che sono cadute, le lascerai sul campo perché sono diritto per il povero che passerà, raccoglierà e ne avrà abbastanza per lui e la sua famiglia” (cfr. Wajqrà/Lv 19,9 e 23,22). Questa norma è regolata anche dal Talmud nel trattato Peà. Ma c’è un’altra ragione per cui si legge Il rotolo di Ruth. Ruth è una moabita, quindi una non-ebrea. All’inizio del testo ci sono tre donne vedove: Naomi (la suocera), Ruth e Orpà (le due nuore). La suocera dice alle nuore di non avere altri figli maschi da dar loro come mariti e le invita a tornare alle case dei rispettivi padri, che provvederanno a dar loro nuovi sposi. Ma Ruth risponde che preferisce restare con Naomi: “Il tuo popolo sarà il mio popolo, il tuo Dio sarà il mio Dio… e dove morirai tu, morirò anch’io”. Con questa formula è come se Ruth avesse abbracciato non solo Naomi ma tutto il popolo di Israele e la sua Legge. È pertanto una forma di accoglienza della Torà. In quel momento è come se Ruth si facesse carico dell’intera rivelazione, anche se la Torà non è citata. V’è infine una terza ragione: Ruth è la bisnonna del re Davide e con questa meghillà si vuol esplicitare il pedigree, per così dire, di Davide. Secondo la tradizione, Davide nasce e muore durante la festa di Shavu‘ot. È chiaro che sono date simboliche, ma è come se la tradizione ricordasse Ruth e Davide insieme. In fondo, è grazie a Ruth che si giunge al re Davide e a Gerusalemme.
Louis Ginzberg, raccoglitore di tanti midrashim nei sette volumi sulle leggende degli ebrei, rinarrando gli eventi del Sinai ricorda anche il midrash secondo il quale la risposta ebraica non fu tutta o del tutto spontanea. Come a dire che il Santo benedetto ha forzato un po’ le cose: “A dire il vero – scrive Ginzberg – non fu del tutto spontaneamente che il popolo d’Israele si dichiarò pronto ad accogliere la Torà. Quando furono ai piedi del Sinai, divisi tra uomini e donne, Dio sollevò il monte e lo sospese sopra le teste dei figli d’Israele, a mo’ di chuppà [di copertura o di baldacchino nuziale] e disse: ‘Se accettate la Torà, buon per voi; altrimenti, questa sarà la vostra tomba’”. Fu una minaccia? Quanto dunque spontanea fu l’accettazione della Torà da parte del popolo? L’unica cosa che sappiamo, dice il midrash, è che tutti scoppiarono in lacrime e profondamente angosciati esclamarono: “Faremo tutto quello che il Signore ha detto e ubbidiremo” [secondo il racconto di Shemot/Es 24, 7]. Na‘asè ve-nishmà è la risposta di Israele al dono della Torà e in questo modo la Torà diventa Toratenu.

C’è l’uso, fra gli ebrei sefarditi, che a Shavu‘ot si legga una simbolica ketubà, cioè un contratto di matrimonio, come se volessero ricordare a se stessi che ai piedi del Sinai hanno contratto matrimonio con Dio, hanno detto ‘sì’ al dono della Torà. E come abbiamo letto nel midrash, il monte della rivelazione può essere ad un tempo una chuppà, cioè un baldacchino nuziale, oppure un qever, una tomba. Le responsabilità arrivano, prima o poi; però se l’accoglienza è sincera, se c’è amore, allora il baldacchino nuziale non diventa una tomba. Tutti sappiamo quanto sia sottile il confine che trasforma un baldacchino nuziale in una tomba. La saggezza popolare ci ricorda come non basta fare un matrimonio – non basta avere l’alleanza e possedere la Torà – se non la si assume con la dovuta consapevolezza.
Nel primo nome della festa, Shavu‘ot, risuona anche il verbo ebraico che significa ‘giurare’ o fare giuramento. Allora oltre ai già citati cinque nomi, ne potremmo aggiungere un sesto: cambiando l’interpretazione della parola shavu’ot possiamo intenderla come ‘giuramenti’ di fedeltà: di Dio a Israele e di Israele a Dio. Questa è tutta la Torà: due fedeltà che si incrociano nonostante i rischi e i pericoli che la chuppà diventi un qever, che il baldacchino diventi una tomba. Non dimentichiamoci che il libro di Ruth, che accompagna questa festa, parla di un’unione sponsale il cui frutto sta all’origine di una discendenza destinata a diventare messianica.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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