Hebraica
Ingiusto, ma eletto

Ragionamento sui concetti di elezione e di giustizia

Se il popolo ebraico è eletto, come si suole dire con una parola un po’, anzi molto consunta, come si spiega la presenza di ebrei non giusti? Bisognerebbe forse soffermarsi sul significato delle parole “giusto” e “ingiusto”, ma questo ci porterebbe lontano. Molte pagine del Tanakh insistono sulla giustizia che, viene detto, deve essere innanzitutto qui e ora, in questo mondo, per gli uomini e non confinata in un futuro lontano o in luoghi extramondani, come avviene invece in altre tradizioni. Altrettanto evidente, nella Torà e negli altri libri del canone, la centralità del popolo ebraico rispetto a tutti gli altri. Infatti mentre la Torà prescrive a tutti gli uomini alcuni comportamenti considerati indispensabili per ogni genere di società (il rifiuto dell’idolatria, dell’omicidio, del furto, eccetera: sono le cosiddette leggi noachidi, date cioè a Noè, su cui torneremo), riserva ai soli ebrei numerosi obblighi che corrispondono a altrettante responsabilità (le 613 mitzwot).

Per cercare di affrontare la questione dell’ingiustizia degli eletti è utile chiedersi che cosa significhi il concetto di elezione, tanto spesso nel corso dei secoli e ancora oggi frainteso, strumentalizzato, rovesciato e trasformato in capo d’accusa contro gli ebrei. L’ambiguità dell’elezione è chiarita da uno scherzo in inglese: “How odd of God / to choose the Jews!”, al quale si risponde “It’s not so odd / the Jews chose God!” (“Che strano, da parte di Dio, aver scelto proprio gli ebrei!” – “Strano mica tanto: sono gli ebrei ad aver scelto Dio!”). Battute rivelatrici a parte, è l’episodio del patto tra Dio e Abramo descritto in Bereshit/Genesi a porre per la prima volta la questione, che è stata però interpretata in maniere anche molto diverse. Vediamone alcune.

Una scelta reciproca – La via maestra della tradizione ebraica accentua la scelta di Dio e di Abramo, che è reciproca: Dio sceglie Abramo e i suoi discendenti, dunque il popolo d’Israele, Abramo si impegna di fare propri alcuni obblighi. Si tratta insomma di un patto (brit) tra due contraenti e, anche se alcuni sottolineano che nel racconto biblico è Dio a prendere l’iniziativa, si evince che il popolo scelto è innanzitutto il popolo che sceglie. Se il popolo ebraico viola il patto, come ha notato tra gli altri uno dei rabbini più influenti del Novecento come Abraham J. Heschel (Dio alla ricerca dell’uomo, Borla), l’accordo cessa. L’intesa infatti è stipulata da Abramo anche a nome dei suoi discendenti (di più: il fatto stesso di avere una discendenza è parte del patto), e questo chiarisce come l’appartenenza ebraica sia fondata sulla memoria di un impegno. Un accordo particolare dunque: ereditato per la libera scelta di Abramo ma da confermare in prima persona da parte di ciascuno, pena l’annullamento del contratto.

Abramo filosofo – Secondo quanto scrive Maimonide nella Guida dei perplessi, Abramo giunge alla comprensione di Dio attraverso “speculazione e ragionamento”. Maimonide, che è influenzato dalla lettura di Aristotele, descrive Abramo come un filosofo in grado di comprendere razionalmente l’unità del mondo e dunque la necessità di una creazione e di un creatore. Non è dunque Dio a scegliere Abramo, ma Abramo a scoprire Dio attraverso l’uso della ragione.

Un Dio vincolato? – Per il poeta medievale Yehudà haLevi, vissuto in Spagna cinquant’anni prima di Maimonide, gli ebrei possiedono per natura una “facoltà divina” che viene trasmessa di generazione in generazione. Questa non dipende ma precede l’adesione a una memoria collettiva o l’accoglimento di una serie di obblighi: è questa facoltà che permette agli ebrei, e solo a loro, di avere una relazione particolare con Dio, cioè di ricevere la Torà. L’aporia in cui l’interpretazione di Yehudà haLevi rischia di risolversi è quella di un Dio che sì prende l’iniziativa, ma che è anche obbligato a scegliere Abramo e i suoi discendenti per una caratteristica biologica che questi, soli tra tutti gli uomini, possiedono.

Doppia predestinazione – Collegare l’elezione alla salvezza esprime una sensibilità e un problema per lo più estranei alla tradizione rabbinica ebraica che si sviluppa dopo la distruzione del secondo tempio. E’ invece importante all’interno della tradizione cristiana, che a partire da alcuni spunti contenuti nel Vangelo di Giovanni e nell’Apocalisse giungerà, con il riformatore Calvino, a parlare addirittura di una doppia predestinazione che dividerebbe da sempre i dannati dagli eletti. Alcuni testi della biblioteca di manoscritti scoperta nelle grotte di Qumran, presso il mar Morto, aprono però a un discorso di predestinazione duplice che ha somiglianze notevoli con quello calvinista. La comunità di Qumran, nel secolo I dell’era volgare, è in polemica con la gestione del tempio e esprime convinzioni molto più lontane dall’ebraismo di Gerusalemme rispetto a quelle, che sono invece del tutto in linea con la tradizione, del primo gruppo di seguaci di Gesù. I cenobiti di Qumran esprimono sensibilità forse periferiche rispetto alla maggioranza dell’ebraismo del tempo, eppure del variegato mondo ebraico sono parte.

Il tema, come si vede, è complesso e ogni posizione non sembra evitare conseguenze problematiche. Pensare a una scelta reciproca permette di accentuare la responsabilità dell’uomo e di svincolare dalla necessità della biologia, che peraltro, se portata all’estremo, potrebbe risultare in un discorso etnicista e razzista di superiorità innata al quale la lettura di Yehudà haLevi non sembra del tutto immune. Accentuare il libero percorso intellettuale, come fa Maimonide, rischia di mettere l’uomo solo al centro della scena e di immaginare la divinità in modo simile al motore immobile di Aristotele, un dio lontano che dà origine al mondo ma è fuori dal mondo, anche se va detto che il filosofo spagnolo rielabora il pensiero aristotelico in ottica ebraica in modo originale e complesso. La predestinazione e addirittura la doppia predestinazione, infine, esprimono idee certamente sviluppate in tradizioni diverse da quella ebraica, nella quale però vanno rintracciati alcuni dei germi che le muovono, come mostrano le testimonianze di Qumran. Si possono valutare le conseguenze del dilemma degli ebrei ingiusti applicandolo a ciascuna delle quattro interpretazioni prese in esame.

Quella di elezione è un’idea importante e scomoda perché ricca di ambiguità. Se pensata come il favore che la divinità elargisce a un popolo soltanto e nega agli altri, è difficile farla convivere con l’idea universalistica della divinità stessa, secondo cui Dio è uno per tutti gli uomini. Nella Torà il monoteismo, cioè l’unicità (quindi anche universalità) di Dio, è affermata a partire da Devarim/Deuteronomio e ribadita con forza nei libri profetici; nei libri che precedono il Deuteronomio, invece, emerge un concetto particolaristico di divinità, secondo cui il popolo ebraico ha un proprio Dio di cui si dice che “nessuno è come te tra gli dei”. L’attrito tra il concetto di elezione e il Dio universale e unico cresce rispetto a quello molto più ridotto che si ha accettando l’idea di una divinità particolare del popolo ebraico.

E’ questo il contesto su cui ragionare sul dilemma degli ebrei ingiusti. Nel Tanakh ci sono numerosi esempi di non ebrei giusti – la figlia del faraone che salva Mosè, Ietrò, Giobbe eccetera – e ancora più spesso vengono evidenziati i comportamenti ingiusti di ebrei. I rabbini nell’epoca della composizione della Mishnà e del Talmud, codificando in via definitiva le leggi noachidi, hanno chiarito la possibilità di essere uomini giusti a prescindere dalla nascita e anche dalle convinzioni. E se cade la distinzione tra ebrei e non ebrei nella giustizia, non cade forse a maggior ragione quando si tratta di ingiustizia?

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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